Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4014 del 15/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 15/02/2017, (ud. 01/12/2016, dep.15/02/2017),  n. 4014

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12006-2014 proposto da:

V.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

MARCELLO PRESTINARI, 13, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO

PALLINI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE VITERBO, C.F. (OMISSIS) in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL PLEBISCITO N.107, presso

lo studio LEGALE CUGGIANI NECCI & ASSOCIATI, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIOIA MARIA SCIPIO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 10336/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/05/2013 R.G.N. 9012/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito l’Avvocato MARIA PARPAGLIONI per delega verbale Avvocato

PALLINI MASSIMO;

udito l’Avvocato GIOIA MARIA SCIPIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. V.A., assunto il 1 ottobre 1984 alle dipendenze del Comune di Viterbo per svolgere funzioni di responsabile unico del servizio legale, ha agito in giudizio sostenendo di avere subito una serie di atti lesivi della sua dignità professionale, ritenuti integrativi del mobbing ed ha chiesto il risarcimento dei danni conseguenti.

2. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 10336/12, confermando il rigetto di primo grado, ha ritenuto che non vi fosse alcuna prova di un intento discriminatorio e vessatorio del datore di lavoro. Ha pure escluso che la situazione rappresentata in giudizio integrasse la responsabilità datoriale per violazione dell’art. 2087 c.c.: il ricorrente, che vi era un onerato, non aveva allegato quale obbligo di comportamento, imposto da norme, fosse stato violato dal Comune. Il CTU nominato in appello aveva concluso per la sussistenza di un danno biologico del 10%, ma non era possibile collegare tale danno alla salute ad un comportamento illegittimo dell’amministrazione appellata.

3. Per la cassazione di tale sentenza ricorre il V. con quattro motivi. Resiste il Comune di Viterbo con controricorso. Entrambe le parti allo depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto che, anche per la configurabilità di una responsabilità ex art. 2087 c.c., occorra l’intento lesivo e vessatorio del datore di lavoro. Ai fini del diritto al risarcimento del danno biologico cagionato al dipendente per violazione dell’art. 2087 c.c., non costituisce elemento imprescindibile l’accertamento dell’esistenza di un intento persecutorio del datore di lavoro, occorrendo soltanto l’effettiva violazione degli obblighi di sicurezza imputabili ad esso.

2. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per avere i Giudici di appello limitato la verifica giudiziale alla riconducibilità o meno del caso concreto nell’ipotesi astratta del mobbing, rifiutando di svolgere ulteriori indagini circa il mancato rispetto degli obblighi dettati dall’art. 2087 c.c.Seppure nel ricorso introduttivo la condotta illecita imputata al datore di lavoro fosse stata più volte denominata come mobbing, era stata altresì invocata la violazione dell’obbligo di sicurezza e protezione di cui all’art. 2087 c.c., quale fonte di danno risarcibile. Una volta esclusa la sussistenza del mobbing per mancanza di prova dell’intento persecutorio, la Corte di merito avrebbe dovuto indagare sul diritto del ricorrente risarcimento del danno biologico per demansionamento. Tale omissione configura una violazione del principio di corrispondenza fra chiesto pronunciato in relazione all’art. 112 c.p.c.

3. Il terzo motivo censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione alla distribuzione dell’onere probatorio rispetto alla fattispecie legale di cui all’art. 2087 c.c. Si assume che la c.t.u. medico-legale si era conclusa con esito favorevole, avendo il Consulente d’ufficio accertato l’esistenza di un danno biologico pari al 10% per sindrome di tipo reattivo ascrivibile ad una prolungata situazione occupazionale stressante e rappresentata dalla polarizzazione di contenuti ideativi sulle tematiche lavorative. L’esito di tale accertamento costituiva la prova dell’illiceità della condotta datoriale, della sussistenza del danno e del nesso eziologico tra la prima e il secondo.

4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 2909 c.c. con riguardo “alle sentenze passate in giudicato tra le parti che hanno accertato l’illegittimità dei comportamenti datoriali”. Sostiene che, con una serie di pronunce del giudice amministrativo, erano state accertate le seguenti violazioni da parte del Comune di Viterbo: a) illegittimità dell’ordine di servizio 25 settembre 1985, con cui fu costituita l’unità organizzativa ” controllo condono edilizio ” alla quale venne preposto il ricorrente; b) illegittimità del limite di 120 ore annue per gli straordinari, imposto all’avv. V. con Delib. giunta n. 2795 del 1988; c) illegittimità delle assegnazioni a legali esterni, da parte del Comune di Viterbo, di un numero di incarichi di difesa per il 90% delle controversie in cui l’ente era coinvolto; d) illegittimità della Delib. giunta comunale n. 1026 del 1993, con cui si escluse l’avv. V. dagli incarichi di responsabile del procedimento di natura legale ai sensi della L. n. 241 del 1990; e) illegittimità della mancata assegnazione di incarichi professionali nel periodo compreso tra gennaio 2000 e fine ottobre 2001, epoca il collocamento in quiescenza; f) illegittimità del licenziamento intimato dal Comune di Viterbo il 22 settembre 2000.

5. Il primo motivo non è pertinente al decisum e il secondo è infondato. La sentenza impugnata non ha escluso la configurabilità della responsabilità ex art. 2087 c.c. sul presupposto di ritenere occorrente, quale elemento integrativo della fattispecie legale, l’intento lesivo e vessatorio del datore di lavoro. Al contrario, ha ritenuto che difettava l’elemento oggettivo in relazione ai fatti dedotti in giudizio dal ricorrente e posti a fondamento dell’azione. In particolare, nella sentenza è stato osservato (v. pag. 8 sent.) che non vi era stato alcun demansionamento, in quanto: a) il ricorrente aveva svolto mansioni di preposto all’ufficio legale per il quale era stato assunto; b) l’assegnazione alla direzione dell’unità “controllo e condono edilizio” era giustificata dal fatto che il V. non era ancora iscritto all’albo speciale degli avvocati dipendenti da enti pubblici; c) il conferimento di incarichi a professionisti esterni aveva avuto una consistenza ben minore di quanto asserito dal V., il quale comunque non era stato privato della propria attività; d) vi era stato un breve periodo di inattività per il quale il ricorrente aveva già ricevuto il risarcimento dei danni in altro giudizio.

5.1. La sentenza ha poi affermato che l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali tecniche del momento e che gli elementi oggettivi della fattispecie devono essere provati dal lavoratore, mentre al datore di lavoro compete, secondo la ripartizione dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c., la prova di avere correttamente adempiuto gli obblighi di sicurezza, ponendo in essere tutti gli accorgimenti indispensabili per evitare l’insorgere della fattispecie lesiva.

5.2. Sulla base di tali premesse di fatto e di diritto, la sentenza ha concluso che, se è vero che la prova gravante sul lavoratore può essere anche presuntiva, è altrettanto vero che il lavoratore deve offrire gli elementi di fatto sufficienti a far ritenere la sussistenza degli indizi gravi, precisi e concordanti, e tali elementi nel caso di specie – per quanto sopra esposto – non erano stati offerti.

5.3. Rileva il Collegio che il primo motivo muove da presupposti diversi da quelli posti a base della decisione impugnata, mentre il secondo addebita alla sentenza un insussistente vizio di omesso esame della domanda subordinata, che invece è stata compiutamente esaminata dalla Corte territoriale.

6. Il terzo motivo è anch’esso infondato.

6.1. La sentenza impugnata, pur dando atto dell’esito della consulenza tecnica d’ufficio che aveva ravvisato un danno biologico permanente del 10% a carico del V., ha tuttavia rilevato che “l’accertata carenza degli elementi costitutivi della fattispecie lesiva allegata da parte ricorrente non permette di collegare detto danno ad un illegittimo comportamento dell’amministrazione appellata” (pag. 9). In altri termini, in difetto di comportamenti illegittimi ascrivibili al datore di lavoro, doveva ritenersi insussistente il nesso di causalità tra condizioni lavorative del V. e danno alla salute.

6.2. Tale soluzione è conforme a diritto. In tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell’art. 2087 c.c., la parte che subisce l’inadempimento è comunque soggetta all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l’asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che il datore di lavoro deve adottare per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. Cass. n. 8855 del 2013). Solo ove il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (cfr. Cass. n. 2038/2013).

7. Il quarto motivo è inammissibile.

7.1. La sentenza impugnata non ha omesso di esaminare i fatti e gli atti che furono oggetto di accertamento in sede giudiziale dinanzi al giudice amministrativo, ma ne ha escluso la rilevanza, in quanto prive di concludenza ai fini dell’integrazione del mobbing.

7.2. In particolare, la Corte territoriale ha rilevato (pag. 7 sent.) che, pur avendo il ricorrente allegato una serie di comportamenti ritenuti illegittimi, questi o non erano provati, oppure (come gli atti annullati dal Tar) erano affetti solo da vizi di forma, oppure (come la fissazione di un limite al lavoro straordinario) erano stati adottati dal Comune nei confronti di tutti i dipendenti e non del solo ricorrente, oppure (come il mantenimento dell’ufficio in una situazione di sotto-organico) non era stato dimostrato che fossero frutto di una volontà di emarginazione anzichè di mera disfunzione organizzativa dell’ente locale.

7.3. L’odierno ricorrente prospetta una violazione di legge per erronea interpretazione del giudicato esterno, mentre in realtà intende censurare, con formulazione inammissibile del motivo, la valutazione di merito relativa all’apprezzamento (o mancato apprezzamento) dei fatti accertati con le sentenze del giudice amministrativo.

7.4. In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n. 16698 del 2010).

8. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

8.1. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore di parte controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2017

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