Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4013 del 15/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 15/02/2017, (ud. 01/12/2016, dep.15/02/2017),  n. 4013

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4488-2014 proposto da:

S.M., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

FALERIA 17, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO RUSSO,

rappresentato e difeso dall’avvocato VIRGILIO QUAGLIATO, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI URBINO, c.f. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

SALARIA 95, presso lo studio dell’avvocato ANDREA GALVANI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO GALVANI,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

M.L., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in Roma Via

Alessandria 119 presso lo studio dell’avvocato Cicchiello Franco,

rappresentata e difesa dall’avvocato Marra Pasquale, giusta delega

in atti;

– controricorrente –

e contro

C.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA

PIAZZA DELLA REPUBBLICA N. 3 presso lo studio dell’avvocato PRETELLI

ANNIBALE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VAMPA

ENZO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 989/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 26/11/2013 R.G.N. 268/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per inammissibilità del

ricorso, in subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. S.M., già responsabile dell’Ufficio Archivio e Protocollo e prima ancora dell’Ufficio Urbanistica del Comune di Urbino, veniva designato responsabile dell’Ufficio Elettorale e Leva. Tale trasferimento veniva impugnato dal S., in quanto ritenuto implicante un dimensionamento giuridicamente rilevante. La domanda di reintegra nelle mansioni pregresse e di risarcimento dei danni veniva respinta dal Tribunale di Urbino, che condannava altresì il S. al pagamento delle spese in favore del Comune e dei due interventori volontari, C.R. e M.L..

2. La Corte di appello di Ancona, con sentenza n. 989/13, confermava la pronuncia di primo grado, osservando:

– che la compilazione e la tenuta dei registri elettorali e di leva non costituiva attività meramente materiale o esecutiva, presupponendo comunque la conoscenza e l’applicazione, con responsabilità ed autonomia, di complesse normative, in ambiti di notevole rilievo e interesse pubblico;

– che non era neppure messa in discussione dal ricorrente l’equivalenza dei profili professionali, in quanto collocati nella medesima area di inquadramento;

– che non constava neppure una situazione di forzata inerzia e nemmeno di minore impegno lavorativo, per cui non vi era questione di sottoutilizzazione del lavoratore, tale da compromettere il suo diritto all’effettivo espletamento della prestazione, mentre era circostanza non significativa la limitazione del numero degli addetti sottoposti gerarchicamente al ricorrente;

– che non poteva trovare accoglimento la domanda risarcitoria relativa al mancato conseguimento della rivendicata posizione organizzativa di responsabile del servizio demografico, non essendo stata censurata la ratio decidendi secondo cui il Comune aveva consentito al S. di produrre nuova documentazione relativa ai titoli posseduti ed aveva emanato una nuova determina di riesame comparativo, con ampia motivazione relativa al superiore apprezzamento dei titoli di P.D., il cui ordine argomentativo non aveva formato oggetto di specifiche censure;

– che non era fondata neppure la contestazione del primo trasferimento, non essendo stato censurato il rilievo del giudicato esterno eccepito da M.L., dipendente che aveva occupato il posto di origine su cui si incentrava la motivazione della gravata sentenza;

– che era altresì infondata la doglianza relativa alla condanna alle spese in favore dell’appellato C.R., essendovi l’interesse del dirigente che adottò l’atto impugnato a contrastare la domanda del S., in ragione delle eventuali conseguenze cui lo stesso sarebbe stato esposto nel caso di accertamento della illegittimità dell’atto di trasferimento;

– che la qualità di interventore volontario in posizione adesiva non costituiva ragione per escludere la configurabilità della soccombenza del ricorrente rispetto a tali posizioni processuali.

3. Per la cassazione di tale sentenza il S. propone ricorso affidato a tre motivi. Resistono con controricorsi, il Comune di Urbino, M.L. e C.R..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione del D.Lgs. n. 165 dfel 2001, art. 52 e dell’art. 2103 c.c. e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) per avere la Corte di appello omesso di individuare il contenuto delle mansioni svolte dal ricorrente dapprima presso l’Ufficio Urbanistica e poi presso l’Ufficio Archivio e Protocollo e di porle a confronto con quelle successivamente attribuite presso l’Ufficio Elettorale e Leva, come richiesto dall’art. 2103 c.c., nell’interpretazione fornita dalla costante giurisprudenza. Inoltre, la Corte di appello aveva errato nell’affermare che il ricorrente non avesse messo in discussione l’equivalenza anche formale dei diversi profili professionali.

2. Con il secondo motivo si censura la sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2103 e 2087 c.c.. Si sostiene che sarebbe stato sufficiente scorrere la descrizione delle mansioni svolte dal S. per comprendere la differenza tra le attività di originaria adibizione e quelle successivamente conferite presso l’Ufficio Elettorale e Leva: il ricorrente passò da incarichi che comportavano elevata responsabilità ed autonomia di firma, realizzazione di progetti protocollo informatici, alla mera compilazione di liste, senza alcuna valorizzazione dell’esperienza precedentemente acquisita e con abbassamento globale del livello delle prestazioni, sottoutilizzazione delle capacità acquisite e consequenziale impoverimento della professionalità.

3. Con il terzo motivo si impugna la statuizione recante la condanna al pagamento le spese in favore degli interventori M. e C.: il ricorrente non aveva mai chiesto di essere assegnato al posto della signora M., ma solo di essere riammesso nelle pregresse mansioni o in altre equivalenti; il C., invece, non aveva alcuna ragione di intervenire in giudizio, poichè nessuna domanda era stata svolta nei suoi confronti.

4. I primi due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la connessione delle relative questioni giuridiche, sono infondati.

5. La riconduzione della disciplina del lavoro pubblico alle regole privatistiche del contratto e dell’autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario, non ha eliminato la perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che, pur munito nella gestione degli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, per ciò che riguarda l’organizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale. In questa ottica, il D.Lgs. n. 165 del 2001 ha disciplinato interamente la materia delle mansioni all’art. 52, e, al comma 1, ha sancito il diritto del dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi (testo anteriore alla sostituzione operata dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 62, comma 1). La lettera del citato art. 52, comma 1, specifica un concetto di equivalenza “formale”, ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. Ne segue che condizione necessaria e sufficiente affinchè le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità specifica che il lavoratore possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A.

5.1. A partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n. 8740/08, è principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che, in materia di pubblico impiego contrattualizzzato, non si applica l’art. 2103 c.c., essendo la materia disciplinata compiutamente dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (come già detto, nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1, inapplicabile ratione temporis al caso in esame) – che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. n. 17396/11; Cass. n. 18283/10; Cass. sez. un. n. 8740/08; v. più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n. 12109 e n. 17214 del 2016). Dunque, non è ravvisabile alcuna violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle medesime mansioni. Restano insindacabili tanto l’operazione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali, quanto l’operazione di verifica dell’equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili nella medesima declaratoria.

5.2. Condizione necessaria e sufficiente affinchè le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all’aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico (cfr. Cass. n. 11835 del 2009).

5.3. Tale nozione di equivalenza in senso formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente l’equivalenti, sono esigibili e l’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro. Il principio è ribadito anche dal CCNL del Comparto Regioni e Autonomie Locali, che, all’art. 3, comma 2, prevede che, “ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente l’equivalenti, sono esigibili, l’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro”.

5.4. Resta comunque salva l’ipotesi che la destinazione ad altre mansioni comporti il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa. Trattasi di questione che, tuttavia – giova rimarcare – esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, configurandosi nella diversa ipotesi della sottrazione pressochè integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, nonchè Cass. n. 687 del 2014).

6. Alla stregua della sentenza impugnata, risulta positivamente accertato che la posizione organizzativa attribuita con il provvedimento impugnato corrispondesse, nell’organizzazione degli uffici comunali, al pari di quelle in precedenza assegnate, alla categoria di inquadramento del ricorrente. Al riguardo, la Corte di appello ha affermato che la circostanza non aveva neppure formato oggetto di specifica contestazione in giudizio.

6.1. Nell’impugnare tale passaggio della sentenza, il ricorrente sembra alludere ad un travisamento delle sue difese. Il vizio, avente natura processuale, avrebbe richiesto l’adempimento dell’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di cui all’art. 366 c.p.c., di indicare in quale atto del giudizio precedente il S. lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 12 luglio 2005 n. 14599 e n. 14590; n.25546 del 30 novembre 2006; n. 4391 del 26 febbraio 2007; n. 20518 del 28 luglio 2008; n. 5070 del 3 marzo 2009, n. 8206 del 2016). Nel breve passaggio contenuto nel ricorso ci si limita ad asserire che la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere non contestata l’equivalenza formale, ossia la riconducibilità delle diverse posizioni organizzative nello stesso alveo di inquadramento D.Lgs. n. 165 DEL 2001, ex art. 52. Poichè non è dato conoscere quale fosse l’impianto del ricorso in appello, nè in quale fase e in quali termini la questione sarebbe stata introdotta in giudizio, il motivo di ricorso non rispetta le prescrizioni processuali di cui all’art. 366 c.p.c..

6.2. In conclusione, escluso il diritto del dipendente pubblico a permanere in un determinata posizione alla stregua di una verifica in senso sostanziale della equivalenza, la preposizione all’Unità organizzativa denominata Ufficio Elettorale e Leva, in quanto ritenuta dai giudici di merito formalmente equivalente, non costituisce violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52.

7. Il terzo motivo è inammissibile ex art. 366 c.p.c..

7.1. Si sostiene che tanto la Massi quanto il C. non erano titolari di un interesse giuridicamente qualificato, idoneo a giustificare la loro costituzione in giudizio. Sarebbe dunque errata la condanna al pagamento delle spese processuali sia di primo che di secondo grado in favore degli interventori volontari.

7.2. Innanzitutto, la rubrica del motivo non specifica la natura del vizio denunciato, non precisando se la censura attenga ad error in procedendo, ad error in iudicando o a vizio di motivazione. Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicchè è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito (Cass. 19959 del 2014).

7.3. Il motivo difetta altresì di specificità rispetto al decisum. La Corte territoriale ha esposto le ragioni per le quali doveva respingersi la contestazione dell’appellante circa l’ammissibilità degli interventi volontari e su tali basi ha confermato la condanna alle spese statuita dal primo giudice, applicando il principio della soccombenza anche per le spese di appello. Il ricorso non censura in modo specifico alcuno dei suddetti passaggi della sentenza, dai quali prescinde per opporre una diversa soluzione interpretativa, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 4. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione (Cass. n. 17125 del 2007, n. 4036 del 2011).

8. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

8.1. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna parte controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 2.500,00 per compensi professionali ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2017

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