Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4009 del 20/02/2018


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Civile Ord. Sez. 3 Num. 4009 Anno 2018
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: GUIZZI STEFANO GIAIME

Ud. 10/10/2017

ORDINANZA

CC

sul ricorso 17134-2015 proposto da:
MAFFULLO MICHELE, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIALE CORTINA D’AMPEZZO 269, presso lo studio
dell’avvocato FRANCESCO DE SANTIS, rappresentato e
difeso dall’avvocato GIUSEPPE PALMIERI giusta procura
a margine del ricorso;
– ricorrente contro

CELANO FRANCESCO;

intimato

avverso l’ordinanza n. 29/2014 della CORTE D’APPELLO
di POTENZA, depositata il 24/12/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di

Data pubblicazione: 20/02/2018

consiglio del

10/10/2017

dal

Consigliere

Dott.

STEFANO GIAIME GUIZZI;

2

FATTI DI CAUSA

1. Michele Maffullo, sulla base di tre motivi, ricorre per cassazione
– ai sensi dell’art. 348-ter, comma 3, cod. proc. civ. – avverso la
sentenza n. 117/13, del 22 marzo 2013, con cui il Tribunale di Melfi

indirizzata nei confronti di Francesco Celano, per avere costui
presentato una denuncia di furto a suo carico, poi rivelatasi infondata,
sentenza già oggetto di gravame proposto dall’odierno ricorrente e
ritenuto inammissibile dalla Corte di Appello di Potenza, con
ordinanza n. 29/14 del 24 dicembre 2014, per difetto di ragionevole
probabilità di accoglimento, ai sensi del combinato disposto degli artt.
348-bis, comma 1, e 348-ter, comma 2, cod. proc. civ.,
provvedimento anch’esso oggetto dell’odierna impugnazione.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente che il primo
giudice – dopo aver rigettato le richieste istruttorie formulate da esso
attore – ha respinto la sua domanda risarcitoria (con compensazione
delle

spese

di

lite),

richiamandosi

a

quell’orientamento

giurisprudenziale secondo cui la denuncia di un reato perseguibile
d’ufficio non può essere fonte di responsabilità ex art. 2043 cod. civ.,
in caso di assoluzione o proscioglimento del destinatario, a meno che
non integri gli estremi del delitto di calunnia.
Proposto gravame avverso tale decisione, e ciò sulla base di
quattro motivi illustrati dall’odierno ricorrente, il giudice di appello
provvedeva, come detto ai sensi dell’art. 348-bis, comma 1, cod.
proc. civ., condannando l’appellante a rifondere all’appellato le spese
di lite, sebbene limitatamente al giudizio di secondo grado.

3. Avverso la sentenza del Tribunale di Melfi (e l’ordinanza della
Corte di Appello) ha proposto ricorso per cassazione il Maffullo, sulla
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ha respinto la domanda di risarcimento del danno dallo stesso

base di tre motivi, i primi due specificamente indirizzati avverso il
primo provvedimento, l’ultimo contro il secondo.

3.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce “violazione dell’art.
360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ.” e ciò “in relazione alla mancata

giudice (richiesta reiterata in appello), diniego motivato sul rilievo che
la stessa fosse “inidonea, in assenza di altri elementi, a fornire
dimostrazione del dolo richiesto per la calunnia”.
Sul presupposto che questa Corte, in quanto “giudice del fatto
processuale”, sarebbe legittimata ad “esaminare i capitoli di prova
articolati” per decidere “se sono o meno inammissibili o influenti al
fine del decidere”, il Maffullo sottolinea come la prova per testi non
potesse “considerarsi inconferente ai fini della volontà di calunniare”
insita nel comportamento del Celano.

3.2. Il secondo motivo è proposto come “violazione dell’art. 360,
comma 1, n. 3), cod. proc. civ.” e ciò “in relazione agli artt. 2043 e
2059 cod. civ. e 185 cod. pen.”, oltre che “in relazione all’art. 112
cod. proc. civ.”.
Pur affermando l’odierno ricorrente di essere consapevole
dell’orientamento giurisprudenziale posto dal Tribunale lucano a
fondamento della propria decisione, sottolinea come non in contrasto
con esso sarebbe la propria pretesa di attribuire rilievo – ai fini della
configurazione della responsabilità per danni per presentazione di una
denuncia rivelatasi infondata – anche ai casi di contegno osservato
dal denunciante con dolo eventuale e colpa con previsione. Difatti,
anche in ciascuna di tale ipotesi mancherebbe – come in quella del
dolo diretto di calunnia – la possibilità di ritenere la presentazione
della denuncia assistita dalla “causa di giustificazione dell’esercizio del
diritto”.
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ammissione della prova testimoniale” che era stata richiesta al primo

Orbene, avendo il giudice di prime cure omesso ogni pronuncia su
tale questione, anche per tale ragione si imporrebbe “una
rimeditazione della pronuncia oggetto di impugnazione”.

3.3. Il terzo motivo è proposto, nuovamente, sub specie di

volta “in relazione agli artt. 333 e 348-ter cod. proc. civ.”.
Richiamata quella giurisprudenza di legittimità che consente
l’impugnazione congiunta della sentenza di primo grado e
dell’ordinanza ex artt. 348-bis, comma 1, e 348-ter, comma 2, c.p.c.,
il ricorrente si duole dell’illegittimità di quest’ultima, segnatamente
nell’avere posto a suo carico le spese del grado di appello.
Interpretando, infatti, la richiesta – avanzata dall’appellato – di
liquidazione delle spese di entrambi le fasi di giudizio alla stregua di
un vero e proprio gravame incidentale, l’odierno ricorrente evidenzia
come la Corte di Appello, nel provvedere su di essa, avrebbe
disatteso la regola secondo cui l’ordinanza di inammissibilità per
difetto di ragionevole probabilità di accoglimento “è pronunciata solo
quando anche per l’impugnazione incidentale ricorrono i presupposti
di cui all’art. 348-ter cod. proc. civ.”, ovvero quando anch’essa non
presenti ragionevole probabilità di accoglimento.

4. Non è intervenuto in giudizio il Celano.

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Il ricorso deve essere rigettato.

5.1. Il primo motivo è inammissibile, atteso che la sua
proposizione non soddisfa il requisito di cui all’art. 366, comma 1, n.
6), cod. proc. civ.
5

“violazione dell’art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ.”, questa

Trova, al riguardo, applicazione il principio secondo cui “il
ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione
su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla
valutazione di esso, ha l’onere di indicare specificamente le
circostanze oggetto della prova, provvedendo alla loro trascrizione, al

quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del
ricorso per cassazione, il giudice di legittimità deve essere in grado di
compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune
non è consentito sopperire con indagini integrative” (da ultimo, ex
multis, Cass. Sez. 6-3, ord. 10 agosto 2017, n. 19985, Rv. 64535701), essendosi, inoltre precisato che, ove si tratti “di una prova per
testi” (e tale è l’evenienza qui in esame), “è onere del ricorrente, in
virtù del principio d’autosufficienza del ricorso per cassazione,
indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della
prova, quale ne fosse la rilevanza, ed a qual titolo i soggetti chiamati
a rispondere su di esse potessero esserne a conoscenza” (Cass. Sez.
3, sent. 14 marzo 2006, n. 5479, Rv. 590102-01).

5.2. Anche il secondo motivo è inammissibile, essendo stato
formulato senza soddisfare il requisito di cui all’art. 366, comma 1, n.
4), cod. proc. civ.
Il motivo, invero, mira a porre in discussione il consolidato
orientamento di questa Corte secondo cui la “denuncia di un reato
perseguibile d’ufficio o la proposizione di una querela per un reato
perseguibile solo su iniziativa di parte possono costituire fonte di
responsabilità civile a carico del denunciante (o querelante), in caso
di successivo proscioglimento o assoluzione, solo ove contengano sia
l’elemento oggettivo che l’elemento soggettivo del reato di calunnia,
poiché, al di fuori di tale ipotesi, l’attività pubblicistica dell’organo
titolare dell’azione penale si sovrappone all’iniziativa del denunciante
6

fine di consentire il controllo della decisività dei fatti da provare, e,

(o querelante), interrompendo ogni nesso causale tra tale iniziativa
ed il danno eventualmente subito dal denunciato (o querelato)” (così,
da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11898, Rv. 64020301; in senso conforme, ex multis, Cass. Sez. 3, sent. 26 gennaio
2010, n. 1542, Rv. 611173-01; Cass. Sez. 3, sent. 25 maggio 2004,

Lo scopo del ricorrente, in particolare, è di accreditare
un’interpretazione che dia rilievo, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ,
quantomeno ai casi in cui il denunciante (o querelante) agisca con
dolo eventuale ovvero con colpa con previsione.
Tuttavia, nel fare ciò, impossibilitato ad individuare – in assenza
di precedenti giurisprudenziali difformi – pronunce di segno contrario
all’indirizzo suddetto, il ricorrente avrebbe dovuto almeno indicare su
quali basi dogmatiche esso fondi la propria richiesta di revirement,
risultando, altrimenti, il motivo (come nella specie) inammissibile.
Deve, infatti, applicarsi il principio secondo cui “il vizio della violazione
e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360, primo comma, n. 3,
cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, primo comma, n.
4, cod. proc. civ., deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto
mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto
contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in
contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con
l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità
o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla
Suprema Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di
verificare il fondamento della denunziata violazione” (cfr., ex multis,
Cass. Sez. 3, sent. 28 febbraio 2012, n. 3010, Rv. 621483-01; in
senso conforme, Cass. Sez. 6-5, sent. 10 dicembre 2014, n. 25419,
Rv. 633415-01; Cass. Sez. Lav. 12 gennaio 2016, n. 287, Rv.
638395-01).

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n. 10033, Rv. 573117-01).

5.3. Il terzo motivo è, invece, non fondato.
L’assunto da cui muove il ricorrente e che costituisce il
presupposto del presente motivo – ovvero, che l’appellato avrebbe
“implicitamente” proposto gravame incidentale, per conseguire la
riforma della sentenza di prime cure in ordine alla disposta

“interpretare” la richiesta, contenuta nella comparsa di costituzione in
appello, di liquidazione delle spese di ambo i gradi del giudizio) – è
giuridicamente errata.
Si consideri, infatti, che “la statuizione della sentenza che
provvede sulle spese di giudizio costituisce un capo autonomo della
decisione”, sicché “l’impugnazione avverso di essa deve essere
proposta in via autonoma”, non essendo ammissibile neppure il
ricorso ad “impugnazione incidentale tardiva” (Cass. Sez. 2, sent. 18
settembre 2006, n. 20126, Rv. 592051-01; analogamente Cass. Sez.
5, sent. 12 dicembre 2011, n. 26507, Rv. 620948-01). Principio
ribadito pure con specifico riferimento all’appello, essendosi affermato
che, “in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle
spese può essere modificata soltanto se il relativo capo della sentenza
abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione” (Cass.
Sez. Lav., sent. 1° giugno 2016, n. 11423, Rv. 639931-01).
Ne discende, pertanto, l’infondatezza del motivo, secondo cui
l’ordinanza della Corte di Appello avrebbe disatteso la regola in base
alla quale l’ordinanza che dichiara inammissibile l’appello privo di
ragionevoli probabilità di accoglimento “è pronunciata solo quando
anche per l’impugnazione incidentale” (qui, evidentemente,
inesistente) ricorrono i “presupposti di cui all’art. 348-ter c.p.c.”.

6. Nulla è dovuto dal ricorrente quanto alle spese del presente
giudizio, stante il mancato intervento nello stesso del Ceelano.

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compensazione delle spese di lite (dovendosi in tal senso

7. A carico del ricorrente, invece, stante la reiezione integrale
dell’impugnazione, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a
titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater,
del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002,
n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione

PQM

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