Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4008 del 20/02/2018


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Civile Ord. Sez. 3 Num. 4008 Anno 2018
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: GUIZZI STEFANO GIAIME

ORDINANZA

sul ricorso 6272-2015 proposto da:
AGNELLI ANTONIO, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIA TACITO 10, presso lo studio dell’avvocato ENRICO
DANTE, rappresentato e difeso dall’avvocato SERGIO
ROMANELLI giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente contro

CARRERI MARIA ORNELLA, ZAMAGNA MARCO, elettivamente
2017
1920

domiciliati in ROMA, VIA MARCELLO PRESTINARI 15,
presso lo studio dell’avvocato MATTEO MOCHI ONORI,
rappresentati e difesi dall’avvocato ACHILLE DETTO
ALDO OCCHIONERO giusta procura a margine del
controricorso;

Data pubblicazione: 20/02/2018

- controricorrenti

avverso la sentenza n. 990/2014 della CORTE D’APPELLO
di GENOVA, depositata il 18/07/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di
consiglio del 10/10/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO

GIAIME GUIZZI;

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FATTI DI CAUSA

1. Antonio Agnelli ricorre per cassazione, sulla base di tre motivi,
contro la sentenza n. 990/14 del 9 luglio 2014, resa dalla Corte di
Appello di Genova, che – rigettando il gravame dallo stesso proposto

2011 – ha confermato la condanna dell’odierno ricorrente al
risarcimento dei danni ex art. 1669 cod. civ., reietta la domanda
riconvenzionale dello stesso Agnelli per danni cagionati alla sua
proprietà.

2.

Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di essere stato

convenuto in giudizio da Marco Giorgio Zamagna e Maria Ornella
Carreri (ai quali aveva trasferito, in forza di contratto di
compravendita, la proprietà di un appartamento e – ciò che qui rileva
– di un box, del quale era stato anche il costruttore), lamentando gli
attori, ai sensi dell’art. 1669 cod. civ., la presenza di infiltrazioni
d’acqua nel predetto locale autorimessa, tali da renderlo inutilizzabile,
chiedendo, pertanto, il ristoro del pregiudizio subìto. Costituitosi in
giudizio l’Agnelli, il medesimo – previamente eccepita la decadenza
degli attori dal proprio diritto (e comunque la prescrizione dello
stesso) – deduceva che gli acquirenti avevano sempre usufruito del
bene sin dal momento della stipulazione del contratto di
compravendita, senza che i lamentati difetti avessero in alcun modo
inciso sul godimento dell’immobile, assumendo essere la loro
iniziativa di natura ritorsiva, giacché posta in essere in conseguenza
di divergenze circa il pagamento di lavori extracapitolato eseguito da
esso costruttore/venditore.
In via riconvenzionale, poi, sul presupposto che i predetti
Zamagna e Carreri avessero modificato senza alcuna sua
autorizzazione una rampa di accesso all’immobile ad essi

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avverso la sentenza del Tribunale di La Spezia 293/11 dell’8 marzo

appartenente, rampa presente su un terreno di proprietà Agnelli (con
pregiudizio del bene, oltre che con aggravio della servitù posta a
carico del medesimo), chiedeva la condanna degli attori al ripristino
dello stato dei luoghi e al risarcimento dei danni, e ciò,
eventualmente, anche in riferimento alla maggiore utilità del fondo

Accolta dal Tribunale spezzino all’esito di disposta consulenza
tecnica d’ufficio la domanda attorea, e condannato pertanto l’Agnelli
al pagamento della somma di C 60.540,00 oltre IVA e interessi legali
(e ciò sul rilievo che il costo del ripristino di una situazione di
funzionalità del box era stato quantificato dal CTU in C 55.040,00
oltre C 5.500,00 per spese tecniche), la domanda riconvenzionale
dallo stesso proposta veniva dichiarata inammissibile.
Esperito appello dall’Agnelli, la Corte genovese, lo rigettava, con
conseguente conferma della sua condanna al risarcimento dei danni
cagionati allo Zamagna e alla Carreri, ritenendo invece ammissibile la
domanda riconvenzionale proposta già in primo grado dall’appellante,
che respingeva, però, nel merito.

3. Avverso la pronuncia della Corte di Appello di Genova ha
proposto ricorso per cassazione l’Agnelli, sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce – ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e/o falsa
applicazione di norma di diritto, e ciò in relazione alla fattispecie di cui
all’art. 1669 cod. civ., nonché in ordine alla individuazione del dies a
quo per la decorrenza di termini prescrizionali e decadenziali, oltre

che in relazione alla valutazione delle risultanze istruttorie ai sensi
dell’art. 116 cod. proc. civ.
Si contesta, per un verso, l’affermazione del giudice di appello che
ha fatto risalire soltanto al dicembre 2004, respingendo su tali basi

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dominante ed al pregiudizio del fondo servente.

l’eccezione di decadenza degli attori dal diritto azionato, l’acquisizione
di una conoscenza apprezzabile dei vizi del box, risalendo a quella
data la presa visione, da parte dello Zamagna e della Carreri, di una
perizia redatta, su loro incarico, da un architetto. Al riguardo, il
ricorrente evidenzia che, in realtà, non si sarebbe trattato di una

documento recante, senza alcun commento e considerazione, l’entità
dell’importo da portare in compensazione nei rapporti economici tra le
parti. Esso, dunque, consistendo in documentazione fotografica,
elaborato grafico, computo metrico estimativo, sarebbe privo di
rilievo ai fini della prova della conoscenza apprezzabile dei vizi di
costruzione del box, rilevanti agli effetti dell’applicazione dell’art.
1669 cod. civ.; inoltre, proprio le risultanze del suddetto documento
dimostrerebbero che il fenomeno infliltrativo ebbe a manifestarsi in
epoca ben anteriore al 2004.
Su altro piano, poi, si contesta – da parte dell’odierno ricorrente che le suddette infiltrazioni presentassero caratteristiche idonee a
consentire l’operatività della responsabilità di cui al citato art. 1669
cod. civ., presentandosi le stesse di modesta entità, tali da non
condizionare la funzionalità globale dell’opera. La differente
conclusione alla quale, sul punto, sono pervenuti i giudici di merito
sarebbe anche frutto di un fraintendimento delle conclusioni proposte
dal consulente tecnico d’ufficio, se è vero, in particolare, che la Corte
genovese (come già, tuttavia, il primo giudice) ha affermato che,
dalla disposta CTU, emergerebbe che l’acqua ha raggiunto addirittura
il livello di 54 cm. rispetto al piano di calpestio del box. Affermazione,
questa, che si assume del tutto erronea ed arbitraria, posto che una
corretta lettura dell’elaborato dell’ausiliario del giudice porrebbe in
luce che, tramite strumento «freatimetro» (ovvero il mezzo per
indagare la presenza di acqua nel sottosuolo), la stessa è stata
trovata ad una profondità di cm. 54 rispetto al piano di calpestio, e

b

perizia – in senso proprio – sui danni e sulle loro cause, bensì di un

non certo che fosse – stagnante – all’interno del box per oltre mezzo
metro.

3.2. Con il secondo motivo – sempre proposto ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – si ipotizza “violazione e/o falsa

dell’art. 2058, comma 2, cod. civ.”, nonché “alla valutazione delle
risultanze istruttorie ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ”.
Evidenzia l’Agnelli – in relazione alla determinazione dell’entità del
disposto risarcimento nella misura di C 60.540,00 – l’esistenza di una
enorme differenza tra quanto richiesto dall’attore (che, sulla scorta
delle valutazioni effettuate dal proprio tecnico di parte, quantificava in
C 8.200,00 il costo delle opere necessarie all’eliminazione delle cause
delle infiltrazioni ed al ripristino del box) e quanto periziato e poi
stabilito dal giudice. Già su queste basi, dunque, si imporrebbe
l’annullamento della sentenza ed il rinvio ad altra sezione al fine di un
doveroso accertamento tecnico.
D’altra parte, la determinazione dell’entità del risarcimento
sarebbe anche frutto di un errore giuridico.
Infatti, la Corte ligure – nel richiamare quell’arresto della
giurisprudenza di legittimità secondo cui, ricorrendo la fattispecie di
cui all’art. 1669 c.c., la condanna al pagamento di quanto necessario
per eliminare i vizi della costruzione comporta un’obbligazione
risarcitoria in ogni caso finalizzata al ripristino dell’edificio e delle
condizioni di stabilità dello stesso, sicché, questa non può trovare
preclusione o limiti per la circostanza che il costo delle opere sia
eventualmente superiore a quello della costruzione a regola d’arte
dell’edificio lesionato (non trattandosi di reintegrazione in forma
specifica ex art. 2058 cod. civ., bensì di risarcimento per equivalente,
per la cui commisurazione è fatto riferimento alle spese necessarie
per restituire all’edificio la sua naturale funzionalità; Cass. Sez. 2,

applicazione di norma di diritto”, e ciò “con riferimento al disposto

sent. 22 gennaio 1985, n. 241) – avrebbe omesso di considerare che
gli attori non hanno richiesto il ripristino, ma, solo ed esclusivamente,
una somma a titolo di risarcimento danni. Ne deriverebbe la
violazione dell’art. 2058, comma 2, cod. civ., giacché la sentenza
impugnata, per un verso, non avrebbe considerato la eccesiva

forma specifica, nonché, per altro verso, che la differenza tra tale
forma di ristoro del danno subito ed il risarcimento per equivalente
consiste nel fatto che la somma dovuta, nel primo caso, è calcolata
sui costi occorrenti per la riparazione, mentre, nel secondo, è riferita
alla differenza fra il bene integro (e cioè nel suo stato originario) ed il
bene leso o danneggiato (è citata Cass. Sez. 1, sent. 3 luglio 1997, n.
5993).

3.3. Con il terzo motivo – anch’esso proposto ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – si assume “falsa applicazione
del disposto dell’art 1027 cod. civ. con riferimento all’art. 832 cod.
civ. (proprietà esclusiva della rampa)”.
Si contesta la sentenza d’appello laddove ha rigettato la domanda
riconvenzionale proposta dall’odierno ricorrente e volta al ripristino
dello stato originale della rampa di accesso – che insiste su terreno di
proprietà di esso Agnelli – al box acquistato dallo Zamagna e dalla
Carreri, con risarcimento del danno. Il rigetto della domanda è stato
motivato sul rilievo dell’assenza di aggravio della servitù posta a
carico della proprietà Agnelli, giacché la modificazioni apportata,
consistita nella costruzioni di gradini, “ha reso” – secondo la Corte
genovese – “semplicemente più agevole il suo utilizzo, senza
precludere minimamente l’accesso alla proprietà in quanto carrabile
con qualsiasi mezzo provvisto di quattro ruote”.
Rileva, sul punto, il ricorrente – non senza previamente osservare
come lo Zamagna e la Carreri abbiano giustificato il proprio contegno

onerosità – nel caso di specie – delle spese per la reintegrazione in

sul presupposto della pertinenzialità della rampa rispetto al box di
loro proprietà, senza però soddisfare l’onere probatorio, su di essi
gravante, relativamente all’esistenza dell’invocato nesso pertinenziale
– che la suddetta rampa di accesso costituisce bene di sua proprietà.
La circostanza che la stessa formi oggetto di un diritto di passo degli

luoghi senza alcuna autorizzazione del proprietario, in disparte il
rilievo che l’intervento realizzato non avrebbe reso assolutamente più
agevole l’utilizzo della rampa di accesso, ma addirittura impedirebbe
l’accesso carrabile con mezzi a tre ruote.
Troverebbe, dunque, applicazione – nel caso di specie – il
principio giurisprudenziale secondo cui, in materia di proprietà, è
vietato occupare con qualsiasi manufatto il fondo altrui, soccorrendo,
in caso di violazione, a prescindere dall’allegazione e dimostrazione di
un qualche ulteriore e specifico danno, i rimedi di tutela reale a
carattere ripristinatorio (è citata Cass. Sez. 2, sent. 19 agosto 2003,
n. 12177).

4. Hanno proposto controricorso Marco Giorgio Zamagna e Maria
Ornella Carreri, per resistere all’avversaria impugnazione, della quale
hanno preliminarmente eccepito – sotto vari profili, riferiti al ricorso
nel suo insieme, ma anche ai suoi singoli motivi – l’inammissibilità.
Quanto al ricorso nel suo complesso, si assume la violazione del
principio di autosufficienza, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 3),
cod. proc. civ., in relazione al fatto che l’impugnazione dell’Agnelli
avrebbe offerto una ricostruzione “mutilata” della domanda attorea,
omettendo di precisare che il richiesto risarcimento non era limitato al
mancato utilizzo del box, ma era riferito all’esistenza di gravi difetti di
costruzione ex art. 1669 cod. civ.
Altra ragione di inammissibilità sarebbe costituita dal fatto che,
pur evocando l’impugnazione

s

principale

una

non

corretta

attori non permetteva, però, a costoro di modificare lo stato dei

interpretazione dei documenti in atti (ed in particolare della CTU),
mancherebbe in ricorso – al quale i suddetti documenti non sono stati
neppure allegati – una più specifica indicazione degli stessi, donde la
violazione degli artt. 366, comma 1, n. 6), e 369, comma 2, n. 4),
cod. proc. civ.

conforme alla giurisprudenza di legittimità, e non avendo il ricorrente
fornito elementi per mutare la stessa, sarebbe stato violato l’art. 360bis, comma 1, cod. proc. civ.
Anche i singoli motivi, inoltre, parteciperebbero del medesimo
vizio in ragione del fatto di evocare “una diversa ricostruzione del
fatto ed una diversa valutazione della prova non consentita in sede di
legittimità”
Si sottolinea, inoltre, nel merito, l’infondatezza delle singole
censure.

5. Ha presentato memoria il ricorrente, ribadendo quanto già
affermato.

RAGIONI DELLA DECISIONE

6.

Il ricorso va accolto, sebbene limitatamente al suo terzo

motivo.

6.1. Il primo motivo è inammissibile.
Invero, anche a voler prescindere dai rilievi formulati, al riguardo,
dal controricorrente, trova applicazione, nel caso di specie, il principio
secondo cui è “inammissibile il ricorso per cassazione con cui si
deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando,
in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così
da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità

LS

Infine, avendo la sentenza impugnata deciso la causa in modo

in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (da ultimo, Cass.
Sez. 3, ord. 4 aprile 2017, n. 8758, Rv. 643690-01).
Analogamente si è ritenuto che “il vizio di violazione di legge
consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una

della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie
concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto si lamenta
nel caso di specie – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della
norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta
al sindacato di legittimità” (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre
2017, n. 24155, Rv. 645538-03).
L’esito dell’inammissibilità è imposto dal rilievo che il primo
motivo impugnazione è diretto a contestare l’apprezzamento che tanto in relazione alla tempestività dell’iniziativa assunta dagli attori a
norma dell’art. 1669 c.c., quanto della gravità delle infiltrazioni
riscontrate e, dunque, alla loro idoneità ad integrare vizio rilevante ai
fini ed agli effetti di detta norma (idoneità, peraltro, pacifica secondo
la giurisprudenza di questa Corte; cfr., da ultimo, Cass. Sez. 2, sent.
3 gennaio 2013, n. 84; Rv. 624395-01; nonché Cass. Sez. 2, ord. 17
novembre 2017, n. 27315, Rv. 646078-01) – è stato compiuto dalla
Corte genovese, come è, del resto, confermato dal riferimento
(contenuto nel motivo) all’art. 116 cod. proc. civ.
Né, d’altra parte, l’accoglimento del motivo potrebbe giustificarsi
valorizzando il denunciato errore in cui è incorsa la Corte di Appello
genovese – come già, peraltro, il Tribunale spezzino – nell’apprezzare
le risultanze dell’esame condotto dal CTU mediante l’utilizzazione del
“freatimetro”, confondendo la rilevata presenza d’acqua 54 cm. sotto
il piano di calpestio del box, con la sussistenza di acqua stagnante al
di sopra di esso per oltre mezzo metro.

norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo

Difatti, allorché il ricorrente deduca “deficienze argomentative
della decisione in punto di recepimento delle conclusioni della CTU”,
esso ha l’onere di provvedere alla “indicazione delle circostanze
secondo le quali quel recepimento, sulla base delle modalità con cui si
è svolto, si sia tradotto nell’omesso esame di un fatto decisivo,

2017, n. 18391, in corso di massimazione), ciò che non è avvenuto
nel caso di specie, essendosi l’Agnelli limitato a rilevare l’errore,
senza chiarire in quale misura esso “neutralizzi” le ulteriori
affermazioni, contenute nella sentenza, a supporto della ritenuta
gravità del fenomeno infiltrativo.

6.2. Il secondo motivo – che partecipa dello stesso vizio di
inammissibilità del primo, nella parte in cui tende a mettere in
discussione l’apprezzamento di risultanze istruttorie, questa volta in
punto di giudizio sulla determinazione dell’entità del risarcimento – è,
invece, infondato nella restante parte.
Esso, invero, ipotizza violazione dell’art. 2058 cod. civ., sul rilievo
che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente applicato i principi
in materia di risarcimento per equivalente, ovvero quello il tipo di
ristoro che sarebbe stato richiesto – assume il ricorrente – da parte
attrice.
Il motivo è, in questa parte, infondato, giacché non coglie la
effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.
Essa non ha affatto equivocato sulla portata della domanda
attorea, che era effettivamente di risarcimento per equivalente, ma
ha solo tenuto conto del peculiare atteggiarsi della stessa in caso di
azione ex art. 1669 cod. civ., correttamente applicando il principio già
enunciato da questa Corte – al quale si ritiene di dare qui continuità secondo cui, esperita l’azione suddetta, “la condanna al pagamento di
quanto necessario per eliminare i vizi della costruzione comporta

),(

oggetto di discussione fra le parti” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio

un’obbligazione risarcitoria in ogni caso finalizzata al ripristino
dell’edificio e delle condizioni di stabilità dello stesso, sicché, questa
non può trovare preclusione o limiti per la circostanza che il costo
delle opere sia eventualmente superiore a quello della costruzione a
regola d’arte dell’edificio lesionato, non trattandosi di reintegrazione

equivalente, per la cui commisurazione è fatto riferimento alle spese
necessarie per restituire all’edificio la sua naturale funzionalità” (Cass.
Sez. 2, sent. 22 gennaio 1985, n. 241, Rv. 438470-01).

6.3. Il terzo motivo è, invece, fondato.
Difatti, pur a dispetto della non perspicua evocazione degli artt.
1027 e 832 cod. civ., esso coglie – nel censurare l’esistenza di un
pregiudizio alla proprietà del fondo servente, in ragione della sua
immutazione in difetto di autorizzazione del proprietario e senza che
potesse invocarsi, a giustificarne la causazione, la maggiore comodità
per l’esercizio della servitù – l’evidente errore di sussunzione
commesso dalla Corte ligure.
Essa ha, infatti, rigettato la domanda riconvenzionale dell’odierno
ricorrente sul rilievo che la modifica apportata alla rampa di accesso,
esistente sul terreno di proprietà dell’Agnelli, non ha comportato
alcun di aggravio della servitù imposta su di esso ed in favore del box
di proprietà dello Zamagna e della Carreri, giacché “ha reso
semplicemente più agevole” l’utilizzo della rampa, senza precludere
“minimamente l’accesso alle proprietà in quanto carrabile con
qualsiasi mezzo provvisto di quattro ruote”.
Così motivando la Corte genovese ha, sostanzialmente,
inquadrato la vicenda nella fattispecie di cui all’art. 1067 cod. civ.,
seppur senza menzionare espressamente detta norma.
Per contro, ha ritenuto questa Corte che il “divieto di aggravare
l’esercizio della servitù, di cui all’art. 1607 cod. civ., costituisce un

2, 2-

in forma specifica ex art. 2058 cod. civ., bensì di risarcimento per

limite alle innovazioni sul fondo dominante che incidano sulle
modalità concrete di esercizio della servitù e non anche un criterio
per discriminare la liceità o meno delle opere che il proprietario del
fondo dominante intenda fare sul fondo servente – avvalendosi della
facoltà di cui all’art. 1069 cod. civ. – per la cui violazione vale, per

della conservazione della servitù, dall’altro il limite (subordinato al
criterio anzidetto) rappresentato dal diritto del proprietario del fondo
servente di usare e godere del proprio fondo, impedendo qualunque
intervento del vicino, titolare della servitù di passo sulla proprietà
medesima, oltre il necessario per il godimento della servitù” (Cass.
Sez. 2, sent. 17 gennaio 1995, n. 492, Rv. 489719-01).
Trattandosi, dunque, nella specie di intervento eseguito sul (recte:
su porzione del) fondo servente, la liceità dello stesso – ai sensi del
principio testé richiamato – non andava valutata in termini di
aggravio, o meno, del “peso” derivante dalla servitù, bensì, al limite,
della indispensabilità dello stesso, ai fini della conservazione dello ius
in re aliena.
Sul punto, pertanto, va cassata la sentenza impugnata, che nel
rinnovare la valutazione sulla domanda riconvenzionale proposta
dall’Agnelli, dovrà attenersi al testé indicato principio.
PQM
La Corte rigetta il primo e secondo motivo di ricorso, accogliendo
il terzo, e per l’effetto cassa la sentenza impugnata, rinviando alla
Corte di Appello di Genova, in diversa composizione, perché provveda
anche sulle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione

contro, da un lato il criterio dell’indispensabilità delle opere ai fini

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