Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4006 del 15/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 15/02/2017,  n. 4006

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22075/2013 proposto da:

G.C.E.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 106, presso lo studio

dell’avvocato F. FALVO D’URSO, rappresentato e difeso dall’avvocato

LIBORIO GAMBINO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

BANCA NAZIONALE DEL LAVORO S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del

Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato

ROBERTO PESSI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

FRANCESCO GIAMMARIA, giusta procura speciale per Notaio;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1244/2012 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 28/09/2012 R.G.N. 88/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. NICOLA DE MARINIS;

udito l’Avvocato GAMBINO LIBORIO;

udito l’Avvocato SERRANI TIZIANA per delega orale Avvocato PESSI

ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 28 settembre 2012, la Corte d’Appello di Palermo, confermava la decisione resa dal Tribunale di Palermo e rigettava la domanda proposta da G.C.E.R. nei confronti della Banca Nazionale del Lavoro S.p.A. avente ad oggetto l’annullamento delle dimissioni rassegnate 27.5.2003 con conseguente reintegra e risarcimento dei danni patiti ovvero l’accertamento della dequalificazione patita a far data dall’1.4.2000 con condanna della Società al risarcimento del danno conseguente alla condotta illecita ex art. 2087 c.c..

La decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto insussistente il denunciato vizio del consenso ed in particolare la coazione psicologica che avrebbe indotto il ricorrente alla firma delle dimissioni non risultando provato nè la limitazione della libertà di autodeterminazione nè l’essere il comportamento della Banca unicamente diretto al conseguimento di un vantaggio ingiusto e non assolto l’onere deduttivo e probatorio rispetto alla denunciata dequalificazione.

Per la cassazione di tale decisione ricorre il G., affidando l’impugnazione a quattro motivi cui resiste, con controricorso la Banca, che ha poi presentato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., nonchè l’omessa pronunzia su un punto decisivo della controversia, censura il pronunciamento della Corte territoriale in ordine alla novità delle allegazioni e prove dedotte in sede di appello ed alla conseguente inammissibilità delle stesse, rilevandone l’incidenza decisiva sulla correttezza della valutazione della domanda, che assume immutata rispetto alla prospettazione originaria.

Il secondo motivo. con il quale il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1427, 1434, 1435, 1436 e 1438 c.c., è inteso a censurare il convincimento espresso dalla Corte territoriale in ordine alla non ravvisabilità nella specie del vizio del consenso dato dalla violenza morale, per essere la relativa valutazione inficiata dalla mancata considerazione della funzione intimidatoria del comportamento subito, ravvisabile anche quando l’esercizio del potere pur accordato dall’ordinamento sia strumentalmente volto alla coartazione della volontà.

Con il terzo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., nonchè dell’art. 84 del CCNL per i dipendenti di aziende di credito dell’11.7.1999 (poi 87 nei successivi rinnovi del 2005 e del 2007) in una con il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, il ricorrente rinnova, questa volta con riguardo alla questione relativa al lamentato demansionamento, la contestazione del giudizio di novità e di conseguente inammissibilità espresso dalla Corte territoriale in ordine alle deduzioni svolte in sede di gravame in relazione al profilo della congruenza delle mansioni di fatto assegnate al ricorrente rispetto all’inquadramento da questi posseduto.

Il quarto motivo, rubricato con riferimento alla violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè alla mancata ammissione dei mezzi istruttori richiesti dal ricorrente, è inteso a censurare, sotto il profilo dell’errore di diritto e dell’error in procedendo, il giudizio negativo espresso dalla Corte territoriale sull’ammissibilità e la rilevanza delle prove offerte dal ricorrente a sostegno della domanda.

In sostanza, l’impugnazione proposta è volta a censurare nel suo complesso la pronunzia resa dalla Corte territoriale, per non aver questa accolto la versione dal ricorrente prospettata in ordine alla vicenda sottesa alla risoluzione per dimissioni volontarie del rapporto di lavoro in essere con la BNL, versione per la quale la Banca datrice gli avrebbe estorto le dimissioni sotto la minaccia di agire in executivis per il recupero dell’esposizione debitoria maturata dalla figlia nei confronti della Banca medesima, così determinandone il tracollo finanziario, e ciò al fine di ottenere un doppio indebito vantaggio, derivante dal rientro immediato del credito vantato attraverso la compensazione del medesimo con quanto al ricorrente dovuto a titolo di indennità connesse alla cessazione del rapporto e dalla stessa risoluzione del rapporto per liberarsi la Banca di un dipendente scomodo, da tempo vessato al punto da averlo assegnato a mansioni inferiori alla qualifica professionale posseduta ed impiegato secondo modalità definite non dignitose per sè e dannose per la stessa Banca; un mancato accoglimento che il ricorrente riconduce all’erroneità del pronunciamento della Corte territoriale in ordine all’inammissibilità per mutamento della causa petendi delle ulteriori allegazioni svolte dal ricorrente in sede di gravame a rafforzamento di quanto affermato nel ricorso introduttivo sia con riguardo alla ricorrenza del vizio del consenso che inficia le rassegnate dimissioni (si fa riferimento in particolare a circostanze da cui sarebbe possibile desumere la strumentalità se non l’illegittimità della richiesta di rientro immediato dell’esposizione sul conto della figlia) sia con riguardo all’asserito demansionamento (si specificano le mansioni iniziali e quelle in ipotesi inferiori successivamente assegnate, si riportano le relative declaratorie contrattuali) e, più a monte, alla mancata ammissione dei mezzi istruttori richiesti con il ricorso introduttivo. In proposito, va osservato come in questa sede il ricorrente non neghi la novità delle allegazioni introdotte con il ricorso in appello, limitandosi a sostenere che si trattava di mere specificazioni di quanto dedotto con il ricorso introduttivo a sostegno di un petitum rimasto assolutamente identico.

Tuttavia deve rilevarsi, con riguardo alla allegazioni svolte relativamente alla domanda di annullamento delle dimissioni per vizio del consenso, concretantesi nella violenza morale derivante dalla minaccia di far valere un diritto, quale è quello della Banca al recupero del proprio credito, come quelle allegazioni erano finalizzate a dedurre l’illegittimità della pretesa della Banca al rientro immediato dell’esposizione debitoria e così ad affermare l’ingiustizia del vantaggio che la Banca intendeva conseguire con il proprio comportamento: e si tratta di un elemento qualificante della fattispecie, se si tiene conto dell’orientamento di questa Corte (cfr Cass. 9 ottobre 2015, n. 20305), secondo cui “la minaccia di far valere un diritto assume i caratteri della violenza morale, invalidante il consenso prestato per la stipulazione di un contratto, ai sensi dell’art. 1438 c.c., soltanto se è diretta ci conseguire un vantaggio ingiusto, il che si verifica quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l’esercizio del diritto medesimo, sia anche esorbitante ed iniquo rispetto all’oggetto di quest’ultimo e non quando il vantaggio perseguito sia solo quello del soddisfacimento del diritto nei modi previsti dall’ordinamento”, sicchè correttamente la Corte territoriale ha letto le nuove allegazioni in termini di integrazione della causa petendi inammissibile in sede di gravarne.

Parimenti legittimo deve ritenersi l’analogo pronunciamento reso dalla Corte territoriale relativamente alle allegazioni concernenti il denunciato demansionamento, ove si tenga conto che quelle allegazioni rese solo in sede di appello attenevano ai fondamentali elementi di giudizio utili ai fini della valutazione della congruità delle mansioni di fatto svolte rispetto all’inquadramento posseduto (le mansioni iniziali, quelle successivamente assegnate e le rispettive declaratorie contrattuali), elementi che certo non potevano essere desunti, come qui pretenderebbe il ricorrente, dal combinarsi di deduzioni in fatto svolte, in contesti distinti, tanto nel ricorso introduttivo quanto nella memoria difensiva.

La carenza e genericità delle residue allegazioni tempestivamente proposte giustificano poi tanto la mancata ammissione dei mezzi istruttori, quanto la pronunzia in ordine alla non rilevabilità del lamentato vizio del consenso per difetto di prova, motivazione che, peraltro la Corte territoriale si preoccupa di integrare, a confutazione dell’assunto da cui muove l’odierno ricorrente, secondo cui questi “non avrebbe mai presentato le proprie dimissioni se non fosse stato per salvaguardare la figlia” facendo espresso riferimento sia alla convenienza dell’accordo economico intervenuto tra le parti all’atto della risoluzione, che prevedeva, oltre all’integrazione del TFR con un congruo incentivo all’esodo, l’estinzione della posizione a debito della figlia con una somma significativamente inferiore all’effettivo saldo. sia alla volontà di progressivo disimpegno del ricorrente dall’attività lavorativa. attestato dal suo passaggio a part-time con impiego per soli tre giorni a settimana con probabile dedizione del tempo residuo a sostenere la figlia nella sua attività imprenditoriale.

Le considerazioni che precedono danno adeguatamente conto dell’infondatezza dei quattro motivi di ricorso qui trattati congiuntamente.

Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi. oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2017

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