Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3997 del 15/02/2017


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile, sez. II, 15/02/2017, (ud. 13/01/2017, dep.15/02/2017),  n. 3997

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9003/2012 proposto da:

L.M., Z.N., Z.L., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA OTRANTO 39, presso lo studio dell’avvocato

RAFFAELE CARDILLI, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GIANCARLO MORO;

– ricorrenti –

contro

COSTRUZIONI EDILI R.L. SRL, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA PRISCIAN0, 28, presso lo studio dell’avvocato D. SERRANI,

che la rappresenta e difende unitamente agli V.N. GHEDINI e S.

MAINARDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 239/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 15/02/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/01/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;

udito l’Avvocato Cardini;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DEL CORE Sergio, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 21 giugno 1996 l’impresa individuale ” Z.G. e figlio” di Z.R. convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Padova l’impresa di costruzioni R.L. al fine di ottenerne la condanna al pagamento dell’importo di Euro 126.000,00, oltre accessori, a titolo di corrispettivo per lavori di fornitura e posa in opera di impianti idro-termo-sanitari che le erano stati affidati dalla convenuta. L’impresa R. si costituì osservando che il conto finale dei lavori riportava un importo inferiore a quello preteso dall’attrice e che alcuni lavori erano stati realizzati in modo incompleto o non a regola d’arte; chiese dunque il rigetto della domanda e la condanna dell’attrice al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c..

Con sentenza del 19 novembre 2003 il Tribunale di Padova condannò la convenuta a versare all’attrice l’importo di Euro 11.073,00, compensando le spese.

L’impresa Z. appellò la sentenza onde ottenere il maggior credito preteso e l’impresa R. si costituì chiedendo il rigetto del gravame.

La Corte d’Appello di Venezia respinse l’appello e confermò la sentenza impugnata. In particolare, la Corte di Venezia condivise il rilievo del primo giudice circa il difetto di prova di gran parte dei lavori che l’impresa Z. affermava di aver eseguito; ciò anche con riferimento ad uno scritto proveniente dall’impresa R. (lettera 5 dicembre 1995) cui l’appellante attribuiva valore ricognitivo del credito vantato e che, invece, non aveva tale significato per i giudici del gravame. Rilevò inoltre la Corte d’Appello che l’impresa Z., omettendo di comparire all’udienza di precisazione delle conclusioni e di depositare le difese scritte conclusionali, aveva sostanzialmente rinunziato all’azione.

I ricorrenti L.M., Z.L. e Z.N. (costituiti in giudizio quali eredi di Z.R.) hanno proposto ricorso strutturato in cinque motivi, cui resiste con controricorso la R.L. s.r.l.

Diritto

MOTIVI DI RICORSO

Quanto all’eccezione di carenza di legittimazione ad impugnare dei ricorrenti, formulata dalla controricorrente, essa è infondata, avendo gli stessi ricorrenti dimostrato la loro qualità di eredi di Z.R., parte del processo di merito (giacchè titolare dell’impresa individuale ” Z.G. e figlio”, priva in quanto tale di distinta capacità processuale rispetto a quella della persona fisica che sia di essa titolare), per mezzo delle produzioni documentali attestanti il decesso della parte originaria e la loro successione.

1. Con il primo motivo i ricorrenti L.M., Z.L. e Z.N. (costituiti in giudizio quali eredi di Z.R., titolare dell’impresa individuale ” Z.G. e figlio”) denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 167 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, con riferimento al ritenuto difetto di prova dei lavori effettuati e posti a fondamento della loro pretesa creditoria. Richiamano in tal senso il contenuto di alcune prove testimoniali acquisite nel giudizio di primo grado e di stralci degli atti difensivi dell’impresa R., dai quali deducono che i lavori erano sostanzialmente non contestati, e ne assumono l’errata valutazione da parte del giudice d’appello.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 167 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, con riferimento allo scritto proveniente dalla controparte (lettera 5 dicembre 1995), cui la Corte d’appello non ha attribuito il valore ricognitivo da loro invocato. In tal senso, i ricorrenti svolgono considerazioni finalizzate ad una rivalutazione di tale documento.

Con il terzo motivo di ricorso si denunzia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla domanda di pagamento quanto meno della somma di Lire 58.400.000, interessata da altro e diverso scritto ricognitivo (estratto conto versamenti), il cui esame la Corte d’appello avrebbe completamente omesso.

1.1. I primi tre motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, sono del tutto infondati.

La Corte d’Appello di Venezia, nell’ambito dell’apprezzamento di fatto spettante al giudice di merito, ha affermato: che non esistesse adeguata prova dell’avvenuta esecuzione dei lavori nella misura richiesta dalla committente Impresa R., stante l’insufficiente precisione dell’assunta prova per testimoni; che tale prova neppure potesse trarsi dalla CTU; che la lettera 5 dicembre 1995 non valesse affatto come riconoscimento di debito, leggendosi in essa, piuttosto, “non riconosciamo in alcun modo il vostro credito nella misura da voi fatturata…. Il nostro debito nei vostri confronti è inferiore a quanto fatturatoci”; nessun effetto ricognitivo del debito derivasse dai conteggi di lavori compilati da Z.G. e non sottoscritti dall’impresa R..

Ove si controverta sulle opere eseguite dall’appaltatore, spetta indubbiamente a questo di provare l’entità e la consistenza dei lavori, e quindi la congruità della somma richiesta a titolo di corrispettivo.

E’ al riguardo noto come l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016).

I ricorrenti, poi, si dolgono nei loro primi tre motivi dell’omessa o erronea valutazione di documenti da parte della Corte di merito, ma non ottemperano all’onere, imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, a pena di inammissibilità del ricorso, di indicare specificamente il contenuto di tali documenti, trascrivendoli o riassumendoli nei loro esatti termini, al fine di consentire a questa Corte di valutare la fondatezza delle censure, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte.

D’altro canto, l’indagine sul contenuto e sul significato di una dichiarazione, al fine di stabilire se essa importi o meno ricognizione di debito ai sensi dell’art. 1988 c.c., rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, la cui decisione è incensurabile in sede di legittimità ove, come nel caso in esame, sorretta da idonea motivazione (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23822 del 24/11/2010).

Nè il mancato esame, da parte del giudice, di una prova documentale posta a fondamento di parte del credito azionato può dar luogo ad omissione di pronuncia ex art. 112 c.p.c., configurandosi quest’ultima nella sola ipotesi di mancato esame di domande o eccezioni di merito. La differenza fra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (nella specie, nel testo antecedente al D.L. n. 83 del 2012, conv. nella L. n. 134 del 2012, “ratione temporis” applicabile), si coglie nel senso che nella prima l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della “domanda” di appello), mentre, nel caso dell’omessa motivazione l’attività di esame del giudice che si assume omessa, non concerne la domanda o l’eccezione direttamente, bensì una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione e, quindi su uno dei fatti. In ogni caso, gli atti e i documenti, del cui omesso esame i ricorrenti si dolgono, sono stati invece valutati dalla Corte di Venezia, e i primi tre motivi di ricorso ambiscono unicamente a far prescegliere in questa sede una diversa ricostruzione degli stessi elementi di fatto.

2. Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano violazione degli artt. 112, 116, 189, 190, 352 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, in relazione alla circostanza – affermata nella sentenza d’appello secondo cui essi avrebbero “sostanzialmente rinunziato all’azione” per effetto della mancata comparizione all’udienza di precisazione delle conclusioni e del successivo omesso deposito della comparsa conclusionale e della memoria di replica. Rilevano che tale condotta processuale non può in alcun modo considerarsi significativa di una rinunzia all’azione.

2.1. Il motivo è privo di interesse, in quanto pone censure avverso argomentazioni contenute nella motivazione della sentenza impugnata costituenti “obiter dicta”, e cioè prive di effetti giuridici, visto che non hanno determinato alcuna influenza sul dispositivo della decisione. Se la Corte di Venezia avesse effettivamente attribuito alla mancata comparizione del procuratore dell’appellante all’udienza di conclusioni ed all’omesso deposito della comparsa e della memoria conclusionali il significato di una rinuncia all’azione, essa avrebbe dovuto dichiarare la cessazione della materia del contendere.

E’ comunque da osservare, a differenza di quanto affermato al riguardo dalla Corte di Venezia, che, per consolidato orientamento di questa Corte, nell’ipotesi in cui il procuratore della parte non si presenti all’udienza di precisazione delle conclusioni o, presentandosi, non precisi le conclusioni o le precisi in modo generico, vale la presunzione che la parte abbia voluto tenere ferme le conclusioni precedentemente formulate, non potendosi desumere da detta assenza o inerzia alcuna volontà di rinuncia o abbandono delle domande ed eccezioni non riproposte (Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 22360 del 30/09/2013; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 409 del 12/01/2006).

3. Con il quinto motivo i ricorrenti denunziano violazione degli artt. 91 c.p.c. e segg. e vizio di motivazione in relazione alla decisione della Corte di Venezia di confermare l’integrale compensazione delle spese disposta dal tribunale, nonchè di porre a loro carico le spese del giudizio di appello. Rilevano che tale decisione sarebbe erronea in quanto: (a) in primo grado non vi era stata una reciproca soccombenza, come ritenuto dalla Corte d’appello, bensì una prevalente soccombenza della R.; (b) una reciproca soccombenza si era invece verificata nel giudizio di appello, ove la R. aveva riproposto – vedendosela respingere – la propria domanda di condanna ex art. 96 c.p.c..

3.1. Anche il quinto motivo è del tutto infondato. Secondo unanime orientamento di questa Corte, in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; mentre esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite nell’ipotesi di soccombenza reciproca, spettando allo stesso giudice di merito la valutazione della sussistenza della reciprocità della soccombenza e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2 (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2149 del 31/01/2014; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 15317 del 19/06/2013).

4. Conseguono il rigetto del ricorso e la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti a rimborsare ai controricorrenti le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2017

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA