Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3996 del 18/02/2020

Cassazione civile sez. III, 18/02/2020, (ud. 10/10/2019, dep. 18/02/2020), n.3996

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. VALE Cristiano – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18913-2018 proposto da:

TIM SPA in persona dell’Avv. T.A., domiciliata ex lege in

ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata

e difesa dall’avvocato GAETANO LONGOBARDI;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO SOCIETA’ (OMISSIS) SRL IN LIQUIDAZIONE in persona del

Curatore Fallimentare Prof. B.M., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DUILIO 13, presso lo studio dell’avvocato

STEFANO DI ZOLAMO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2196/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 05/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/10/2019 dal Consigliere Dott. DI FLORIO ANTONELLA.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che:

1. La TIM SPA, già Telecom Spa, ricorre, affidandosi a quattro motivi, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Roma che, riformando la pronuncia del Tribunale di Velletri, aveva parzialmente accolto la domanda risarcitoria del “Fallimento della Soc. (OMISSIS) Srl in liquidazione” relativa ai danni subiti per l’inadempimento del contratto di utenza stipulato che, in ragione del malfunzionamento delle linee telefoniche e del disservizio procrastinatosi nel tempo, aveva gravemente ostacolato l’esercizio dell’attività aziendale.

2. Ha resistito la parte intimata.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per carenza assoluta di motivazione in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 Disp. Att. c.p.c., comma 1, ed all’art. 4 della Carta dei Servizi ed art. 26 delle Condizioni Generali di Contratto.

1.1. Assume che la sentenza era priva di motivazione sia in ordine all’an che al quantum debeatur, in quanto era stata del tutto omessa l’indicazione del criterio di calcolo adottato per la determinazione del risarcimento riconosciuto. Il motivo è infondato.

1.2. La Corte ha correttamente motivato sul punto, richiamando, in relazione al calcolo prospettato, gli artt. 4 e 7 del CGC che contengono i criteri per la quantificazione delle somme dovute ed ha argomentato in modo congruo, logico ed al di sopra della sufficienza costituzionale relativamente alla interpretazione di tali norme in funzione del calcolo elaborato (cfr. pag. 5 della sentenza).

2. Con il secondo motivo ed il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la società ricorrente ha dedotto:

a. la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione ai principi in materia di valutazione delle prove.

b. la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1218 c.c., sulle regole di riparto dell’onere della prova e della responsabilità contrattuale.

2.1. I due motivi devono essere esaminati congiuntamente per intrinseca connessione logica e sono entrambi infondati.

2.2. Premesso che la ripartizione degli oneri probatori ed il loro bilanciamento deve essere vagliato alla luce dei criteri da applicare in materia di responsabilità contrattuale, e che la Corte ha espressamente menzionato e valorizzato il principio di non contestazione, si osserva che la motivazione sulle questioni dedotte risulta esaustiva sul punto, essendo stata applicata la regola secondo cui è onere della parte inadempiente dimostrare sia la mancata imputabilità a se del disservizio, sia di aver provveduto per eliminarlo o arginarlo (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata), onere che nel caso in esame non risulta assolto dalla odierna ricorrente.

2.3. Al riguardo, questa Corte ha avuto modo di chiarire che “in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno o per l’adempimento deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova è applicabile quando è sollevata eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poichè il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche quando sia dedotto l’inesatto adempimento dell’obbligazione al creditore istante spetta la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando ancora una volta sul debitore la prova dell’esatto adempimento, quale fatto estintivo della propria obbligazione (cfr. Cass. 826/2015; Cass. 15659/2011; Cass. 13685/2019).

2.4. I giudici d’appello hanno fatto corretta applicazione di tali principi e la complessiva censura, pertanto, deve essere rigettata.

3. Con il quarto motivo, si deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c..

La ricorrente lamenta, al riguardo, l’omessa compensazione, anche parziale, delle spese di lite in ragione del non totale accoglimento della avversa domanda.

3.1. La censura è inammissibile.

E’ stato, al riguardo, affermato il principio ormai consolidato e condiviso dal Collegio secondo cui in tema di spese processuali, la valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale delle stesse rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito, senza che sia richiesta una specifica motivazione al riguardo. Pertanto, la relativa statuizione, quale espressione di un potere discrezionale attribuito dalla legge, è incensurabile in sede di legittimità, salvo che non risulti violato il principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa ovvero che la decisione del giudice di merito sulla sussistenza dei giusti motivi ai sensi del citato art. 92 c.p.c., sia accompagnata dall’indicazione di ragioni palesemente illogiche e tali da inficiare, per la loro inconsistenza o la evidente erroneità, lo stesso processo formativo della volontà decisionale espressa sul punto.” (cfr. Cass. 22541/2006; Cass. 20457/2011): tale principio risulta correttamente seguito dalla Corte territoriale che accogliendo parzialmente l’appello, ha legittimamente applicato per entrambi i gradi di giudizio il principio della soccombenza, riferendo la quantificazione delle spese alle tabelle professionali in relazione al valore della somma liquidata.

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

4.1. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in 5800,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfettario spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della terza sezione civile, il 10 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2020

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