Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3994 del 18/02/2011

Cassazione civile sez. II, 18/02/2011, (ud. 20/12/2010, dep. 18/02/2011), n.3994

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 14210/05) proposto da:

C.M., rappresentato e difeso in forza di procura

speciale a margine del ricorso, dall’Avv.to Ciprietti Sabotino del

foro di Roma ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in

Roma, via Mazzini, n. 6;

– ricorrente –

contro

CI.Sa., rappresentato e difeso dall’Avv.to Di Benedetto

Fernando del foro di Pescara, in virtù di procura speciale apposta a

margine del controricorso e del ricorso incidentale e dall’avv.

CAMERINI Francesco per proc. not., ed elettivamente domiciliato

presso lo studio del Dott. Placidi Alfredo in Roma, via Cosseria, n.

2;

– controricorrente –

nonchè sul ricorso incidentale n. 16345/05 proposto dal

controricorrente nei confronti del ricorrente;

avverso la sentenza della Corte di Appello di L’Aquila n. 185/2004

depositata il 16 aprile 2004;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 20

dicembre 2010 dal Consigliere relatore Dott.ssa FALASCHI Milena;

udito l’Avv.to Camerini Francesco, di parte resistente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 23 novembre 1987 C. M. evocava in giudizio, dinanzi al Tribunale di L’Aquila, Ci.Sa. esponendo di avere svolto, su incarico del convenuto, l’attività necessaria per la realizzazione di una palazzina, sita in Comune di (OMISSIS), ad iniziare dal reperimento dell’area per edificare, dalla scelta del progettista, fino al reperimento ed al conferimento di incarico a ditte per forniture materiale e realizzazione delle opere murarie e in cemento armato, per la fornitura di materiale di rivestimento materiali, infissi, pavimento, impianto elettrico, idrico-termico, ascensore…, curando la consegna di una palazzina completa di ogni elemento; che per detta attività era stata pattuita la complessiva somma di L. 130.000.000, ma nonostante i solleciti verbali e la formale richiesta a mezzo raccomandata del 15.9.1987, nessun pagamento era stato effettuato. Tanto premesso, chiedeva accertarsi che l’attività svolta dall’attore su mandato del convenuto aveva portato alla realizzazione di edificio sito nel Comune di (OMISSIS) del valore corrente di circa un miliardo, nonchè che per l’esecuzione del mandato era stato concordato il compenso di L. 130.000.000 e per l’effetto condannare il Ci. al pagamento del corrispettivo o in subordine, in mancanza di raggiungimento delle prove in ordine alla pattuizione del compenso, condannare lo stesso al pagamento della somma risultante dalle tariffe professionali o dagli usi, ovvero nella misura che sarà determinata dal Tribunale adito, oltre ad interessi e rivalutazione. Instauratosi il contraddittorio, nella resistenza del convenuto, che eccepiva la “gratuità” del mandato conferito al C., stante la relazione di parentela fra le parti (cognati), e deduceva l’inosservanza da parte del mandatario degli obblighi di rendiconto e violazione dell’art. 1710 c.c., proponendo, altresì, domanda riconvenzionale volta ad ottenere il rendimento del conto, con pagamento delle somme eventualmente percepite in eccedenza rispetto alle spese documentate, oltre al risarcimento dei danni per negligente espletamento del mandato, il Tribunale adito, espletata complessa attività istruttoria (interrogatorio formale di entrambe le parti, assunzione prova testimoniale, espletamento C.T.U.), rigettava sia la domanda attorea sia quella riconvenzionale, compensando le spese di lite.

In virtù di rituale appello interposto dal C., con il quale lamentava che il giudice di prime cure pur qualificando il rapporto in termini di contratto di appalto, non avesse provveduto ai sensi dell’art. 1675 c.c. alla liquidazione del compenso, oltre a non accogliere le istanze istruttorie formulate nel corso del giudizio di primo grado all’udienza del 5.3.1992, nonchè la richiesta di rinnovamento della C.T.U., la Corte di Appello di L’Aquila, nella resistenza dell’appellato, che proponeva appello incidentale, accoglieva parzialmente i motivi di gravame e in riforma della sentenza impugnata condannava il Ci. al pagamento in favore dell’appellante della somma di L. 22.570.730 (pari ad Euro 11.656,81), oltre ad accessori, mentre rigettava integralmente l’appello incidentale, provvedendo alla liquidazione delle spese di entrambi i gradi del giudizio.

A sostegno dell’adottata sentenza, la corte territoriale evidenziava che avendo parte appellante svolto domanda subordinata di determinazione del compenso sulla base delle tariffe professionali ovvero degli usi o in mancanza nella misura determinata dal giudice adito, a prescindere dalla definizione del tipo di rapporto intercorso tra le parti (contratto di appalto o di mandato), una volta accertata l’insussistenza di una prova sull’entità dell’importo pattuito, il giudice di prime cure avrebbe dovuto, in ogni caso, provvedere alla sua determinazione, non contestata dalla controparte la sussistenza del rapporto intercorso fra le parti.

Infatti se trattavasi di mandato, questo si presumeva oneroso (art. 1709 c.c.) e l’appellato non aveva fornito la prova contraria; se trattavasi di contratto di appalto, quest’ultimo per definizione si caratterizzava per l’obbligo di compiere un’opera dietro dazione di un corrispettivo. Quanto alla determinazione del compenso, la Corte distrettuale aggiungeva che correttamente il C.T.U. aveva fatto ricorso non già al valore dell’opera, come escluso dal G.I. (sebbene richiesto da parte appellante), ma alla individuazione dei precisi compiti svolti dallo stesso C. nell’ambito di un rapporto dai contorni non esattamente definiti. Pertanto veniva ritenuta convincente la relazione del C.T.U. che aveva assimilato l’attività svolta a quella dell’assistente tecnico (descritto ed inquadrato nell’art. 78 CCNL per gli edili del 23 maggio 1991). Inoltre, in ordine alle riconvenzionali spiegate, la Corte di merito osservava che: a) non era stato assolto dal Ci. l’onere della prova che spettasse al C. l’obbligo di ritiro della concessione edilizia; b) la richiesta di rendiconto ex art. 1713 c.c. era, al pari, sfornita di prova quanto ad avere messo a disposizione dell’appellante un importo superiore a L. 50.000.000, somma quest’ultima riconosciuta dallo stesso C., e che non poteva non ritenersi integralmente assorbita dalle spese per la realizzazione del fabbricato, senza ulteriore obbligo di rendicontazione; c) la domanda di risarcimento danni per vizi e difetti dell’opera era inammissibile ex art. 345 c.p.c. perchè proposta tardivamente anche in primo grado. Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di L’Aquila ha proposto ricorso per cassazione il C., che risulta articolato in due motivi, al quale ha resistito il Ci., che ha anche proposto ricorso incidentale con due motivi di doglianza, cui ha replicato parte ricorrente.

Entrambe le parti hanno presentato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I due ricorsi – principale del C. ed incidentale del CI. – vanno preliminarmente riuniti, a norma dell’art. 335 c.p.c., concernendo la stessa sentenza. Ciò posto, con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1709 e/o 2225 c.c., art. 1657 c.c. in materia di determinazione del compenso in relazione all’art. 116 c.p.c. in tema di apprezzamento delle risultanze istruttorie, nonchè del vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia. In sostanza la corte di merito avrebbe determinato il compenso facendo propria l’indicazione del C.T.U. che però non era riuscito a far coincidere la complessa attività svolta dal ricorrente – finalizzata alla realizzazione di una palazzina completa in ogni suo elemento, per consegnarla al mandante, attività eseguita senza limiti di orario e in assoluta autonomia, senza ricevere direttive da alcuno – con la funzione professionale ben definita dell’assistente tecnico.

Su detto punto, inoltre, la decisione non parrebbe sorretta da idonea motivazione.

E’ prodromico all’esame della censura accertare la qualificazione giuridica dell’accordo intercorso fra le parti, perchè dalla determinazione della natura dell’incarico espletato dal ricorrente discende la individuazione dei criteri per la liquidazione del compenso e quindi una vantazione sulla correttezza o meno di quelli selezionati dal giudice di merito. E’ evidente che nella specie le parti abbiano concluso un contratto che ricomprende sia gli elementi del contratto di appalto, per avere assunto il C., con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, l’obbligo di realizzare e consegnare, verso un corrispettivo in denaro, il fabbricato commissionatogli dal CI., sia quelli del mandato, perchè lo stesso C. si è obbligato anche a compiere gli atti giuridici, per conto del mandante, strettamente necessari alla realizzazione dell’opera. Del resto ferma la distinzione di principio secondo la quale l’appalto è il contratto che ha ad oggetto un facere materiale, ossia la costruzione di un’opera o l’espletamento di un servizio, e si caratterizza per i due profili dell’organizzazione dell’attività di impresa e dell’assunzione del rischio, mentre lo schema del mandato ha in via di principio ad oggetto un facere soltanto giuridico (anche se la dizione normativa andrebbe ampliata fino a ricomprendervi anche le operazioni e in genere gli atti non dichiarativi: Cass., n. 3853/89;

Cass., n. 3803/95; Cass., n. 11389/97), la commistione in concreto tra i due schemi negoziali tipici è frequente, specie in materia di commesse di opere, nelle quali parte committente spesso trova utile avvalersi della controparte, oltre che per la prestazione dell’opera o del servizio, anche per l’assunzione di funzioni accessorie essenzialmente giuridiche, quali progettazioni, ottenimento di permessi e concessioni. Ciò posto, pur vero che il collegamento negoziale costituisce un fenomeno giuridico dai confini ampi ed incerti, perchè non riceve una specifica disciplina all’interno del nostro ordinamento giuridico, ma è ravvisabile ogni qualvolta due o più negozi, ciascuno dei quali dotato di una propria autonomia strutturale, siano tra loro connessi in virtù di un legame giuridicamente rilevante, al fine di realizzare uno scopo pratico unitario, altrimenti non perseguibile mediante l’adozione dei singoli schemi contrattuali. Le parti si prefiggono il raggiungimento di un determinato risultato economico unitario e complesso, ma consapevoli dell’impossibilità di ottenere quanto programmato attraverso un solo strumento giuridico, decidono di ricorrere ad una serie combinata di atti negoziali, indirizzandoli verso l’obiettivo predeterminato.

Ciascuno dei singoli contratti mantiene inalterata la propria funzione economico-individuale, ma l’operazione negoziale complessivamente considerata trova, invece, la ragione concreta della sua realizzazione proprio in quell’interesse globale che ha costituito la spinta determinativa dell’operazione stessa. Se, dunque, la causa consiste nella ragione pratica dell’affare, accanto alle singole cause dei negozi che compongono a catena negoziale (c.d.

cause parziali) viene individuata una causa posta a fondamento dell’intera attività negoziale (c.d. causa complessiva).

E’ stato tracciato il concetto di collegamento per poter passare all’esame dei problemi di disciplina della fattispecie in contestazione. Infatti essendo tale la cornice normativa entro cui il rapporto in questione deve essere inquadrato, appare in tutta evidenza che essendo entrambi i negozi collegati, appalto e mandato, caratterizzati dal fatto che sia l’appaltatore sia il mandatario devono godere di un certo grado di autonomia nell’esecuzione dell’incarico, manca il presupposto per l’applicazione dei criteri di liquidazione del compenso propri del contratto da lavoro dipendente, laddove è retribuita la messa a disposizione della propria opera (e non già il risultato), per lo più prestata in forma esclusiva.

Il motivo va dunque accolto perchè errorenamente la Corte di appello ha liquidato il compenso sulla base della stima operata dai C.T.U. che ha fatto applicazione dei corrispettivi previsti per gli edili del 23 maggio 1991, assimilando l’attività svolta dal ricorrente a quella dell’assistente tecnico, tipica figura di prestatore di opera subordinato.

Il giudice a quo, indipendentemente dalla specifica richiesta della parte attrice, a fronte di risultanze processuali carenti sul quantum, accertata la natura di rapporto di lavoro autonomo in senso lato, avrebbe dovuto liquidare il compenso, ai sensi degli artt. 1657, 1709 e 2225 c.c., facendo riferimento alle tariffe professionali o agli usi ovvero con criterio equitativo ispirato alla proporzionalità del corrispettivo con la natura, quantità e qualità delle prestazioni eseguite e con il risultato utile conseguito dal committente(v. Cass., Sez. 3, 18.9.1995 n. 9829;

Cass., Sez. L, 29.8.2003 n. 12681; Cass., Sez. 3, 8.6.2007 n. 13440).

Nè può essere condivisa sul punto la eccezione di parte resistente che si sarebbe trattato di incarico a titolo gratuito in quanto, come correttamente osservato dalla corte di merito, sia inquadrando la fattispecie nell’ipotesi di cui all’art. 1709 c.c. sia ai sensi dell’art. 1657 c.c., la onerosità del contratto è la norma e sarebbe spettato alla controparte fornire prova contraria che persuasivamente dimostrasse la gratuità dell’incarico.

Al riguardo entrambi i giudici del merito hanno adeguatamente motivato, in sede di appello anche se implicitamente, non ritenendo sufficiente di per sè la relazione di affinità esistente fra le parti, in mancanza di ulteriori elementi di giudizio (v. Cass. 24.1.1980 n. 605; 27.5.1982 n. 3233).

Stante l’impostazione che precede, risultano, altresì, assorbite le osservazioni del resistente circa un’erronea valutazione del consulente nell’incrementare del 25% il compenso come sopra determinato.

Con il secondo motivo il ricorrente si duole che la Corte di merito non abbia pronunziato in alcun modo sulla richiesta avanzata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., proposta per la prima volta con l’atto introduttivo del gravame.

Ben vero che detta domanda può essere proposta per la prima volta anche in appello (v. Cass 21.4.1999 n. 3967), sebbene solo con riferimento a comportamenti della controparte posti in atto in tale grado.

Ciò precisato, ritiene questa corte di condividere l’orientamento secondo cui la sentenza con la quale il giudice del merito compensi fra le parti le spese di lite contenga una implicita esclusione dei presupposti richiesti per la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. e che non sia censurabile per omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento (v. Cass. 30.3,2000 n. 3876; 24.4.1993 n. 4804; 7.8.1990 n. 7953). Il motivo va perciò rigettato.

Passando all’esame del ricorso incidentale avanzato dal CI., si osserva che parte ricorrente (in via incidentale) censura la sentenza impugnata per due ordini di motivi: violazione e falsa applicazione degli artt. 1710 e 2697 c.c. e art. 116 c.p.c. sia relativamente alla valutazione della negligente condotta del mandatario nell’eseguire l’incarico per avere il C. omesso di ritirate la concessione edilizia (cui erano conseguiti danni per il resistente) sia con riferimento all’obbligo del mandatario di rendere il conto, accertamento che aveva determinato i giudici del merito al rigetto della riconvenzionale spiegata. Per quanto attiene alla prima doglianza circa la responsabilità ex art. 1710 c.c. in cui sarebbe incorso il C., occorre rilevare che dalle medesime dichiarazioni del mandatario è emerso che egli aveva l’onere di seguire tutte le operazioni necessarie al fine di realizzare e consegnare il fabbricato, dall’acquisto dell’area su cui edificare, all’avvio e definizione della pratica amministrativa per ottenere la concessione edilizia, trattandosi di incarico omnicomprensivo.

Risulta evidente da quanto sopra la contraddittorietà della motivazione sul punto per avere il giudice del gravame definito la questione argomentando con il mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del mandante circa la sussistenza di un obbligo in tal senso in capo al mandatario.

Le parti, invero, hanno diritto, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., che il giudice desuma argomenti di prova anche dalle risposte e dal contegno tenuto nel processo dalle parti stesse. Ciò nella specie non risulta effettuato avendo la Corte di Appello completamente ignorato, senza alcuna logica motivazione, le affermazioni di parte appellante (attrice nel giudizio di primo grado) circa la omnicomprensività dell’incarico assunto. Anche tale motivo va accolto per quanto esposto.

Sulla seconda censura circa i mancato assolvimento da parte del mandatario dell’obbligo di rendere il conto, il giudice de gravame ha fatto propria l’argomentazione del giudice di prime cure: l’importo di L. 50.000.000, unica somma riconosciuta dallo stesso C. e di cui si poteva ritenere provato l’esborso, non poteva non ritenersi integralmente assorbito dalle spese per la realizzazione del fabbricato, senza ulteriore obbligo di rendicontazione.

Del resto il rendiconto non è un negozio di accertamento, ma ha una funzione ricognitiva della situazione preesistente, cioè dell’esecuzione del mandato, ed è costitutiva di un’attuale obbligazione diretta a definire un regolamento di interessi collegato con il rapporto di mandato. Per cui da una vantazione complessiva dell’opera realizzata e degli esborsi accertati, i giudici di merito – con motivazione congrua – hanno ritenuto entrambi la regolarità contabile del conto. Nè il CI. – proponendo una censura ampiamente generica – ha dato ragione di specifiche incongruenze. Il motivo è, perciò, infondato.

In conclusione la sentenza impugnata va cassata in relazione alle censure accolte di cui al primo motivo del ricorso principale ed al primo motivo del ricorso incidentale, con conseguente rinvio della causa per il nuovo esame dei capi cassati ad altro giudice d’appello, che si designa nella Corte di Appello di Roma, la quale si uniformerà agli affermati principi di diritto e alle considerazioni sopra svolte in tema di quantificazione delle competenze professionali da corrispondere al C., nonchè ad una nuova valutazione delle risultanze istruttorie circa la responsabilità professionale del medesimo mandatario in relazione alla domanda di risarcimento danni formulata dal CI..

Il giudice de rinvio provvedere alla regolamentazione delle spese anche di questa fase del giudizio.

P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi ed accoglie il primo motivo del ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale;

rigetta gli altri motivi.

Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rimette gli atti alla Corte di Appello di Roma anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 2^ Sezione Civile, il 20 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2011

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