Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3990 del 19/02/2014


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 3990 Anno 2014
Presidente: DI PALMA SALVATORE
Relatore: ACIERNO MARIA

ORDINANZA
sul ricorso 9308-2012 proposto da:
QUINTAVALLE ALDO in proprio e per la famiglia coltrivatrice,
anche jure haereditario per i genitori Edoardo Quintavalle e Verna
Ernienegildo, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DEL
FANTE 10, presso lo studio dell’avvocato DE JORIO FILIPPO, che
lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LONGO LUCIO
FILIPPO, giusta delega a margine del ricorso per revocazione;
– ricorrente contro
ROMA CAPITALE già COMUNE DI ROMA in persona del Sindaco
pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL
TEMPIO DI GIOVE 21, presso l’AVVOCATURA COMUNALE,
rappresentata e difesa dagli avvocati ROSSI DOMENICO,

Data pubblicazione: 19/02/2014

CECCARELLI AMERICO, FRIGENTI GUGLIELMO, giusta
procura a margine del controricorso;

controricorrente

avverso la sentenza n. 22631/2011 della CORTE SUPREMA DI

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
19/11/2013 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA ACIERNO;
udito per il ricorrente l’Avvocato Filippo De Jorio che ha chiesto la
trattazione del ricorso in pubblica udienza;
udito per la controricorrente l’Avvocato Rossi Domenico che si riporta
al controricorso.
E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott.
IMMACOLATA ZENO che ha concluso per l’inammissibilità del
ricorso.
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Ric. 2012 n. 09308 sez. M1 – ud. 19-11-2013
-2-

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CASSAZIONE del 13.7.2011, depositata il 31/10/2011;

”Il Comune di Roma con delibera di C.C. n. 898 del 1981 variava la destinazione urbanistica del
comprensorio immobiliare di circa 52 ettari (facente parte di una più vasta aerea di circa 162 ettari),
situato nella zona nord-ovest della Capitale e di proprietà della società edilizia Pineto (di seguito SEP),
trasformandolo in zona “N” del P.R.G. per la realizzazione di un parco pubblico. A distanza di poco
più di un anno dall’adozione di tale variante, l’Amministrazione capitolina approvava con delibera di
C.C. n. 4392 del 27 ottobre 1982 (ai sensi dell’art. 1 della 1. n. 1 del 1978) un primo stralcio del
progetto di opera pubblica denominato “Parco Pubblico del Pineto”, riguardante un’area di circa 52
ettari, e, in base alla delibera di G.C. n. 11138 del 29 dicembre 1982, procedeva all’occupazione
d’urgenza della predetta area.
Il TAR per il Lazio con la sentenza n. 1860 del 1993 (confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza
n. 336 del 1997), accogliendo la domanda giudiziale proposta da Aldo Quintavalle in quanto affittuario
dei terrenisottoposti ad esproprio, annullava le suddette delibere n. 4392 del 1982 e n. 1138 del 1982,
“nella parte in cui interessano le aree contemplate dai contratti sottoscritti dal ricorrente”.
Con atto di citazione regolarmente notificato in data 19 giugno 1990 Verna di Ermenegildo in
Quintavalle, Aldo Quintavalle in proprio e quali erede di Edoardo Quintavalle, nonché Fiorella
Quintavalle, Guido Quintavalle e Gaetano Quintavalle convenivano in giudizio il Comune di Roma,
chiedendo la condanna dello stesso al risarcimento dei danni subiti dagli attori per la perdita del fondo
da loro coltivato, delle attività connesse (vendita di uova ed altro) e della loro abitazione. Il Tribunale
di Roma con sentenza n. 20373 del 2001, in parziale accoglimento della domanda degli attori,
condannava il convenuto al pagamento dei danni da essi subiti a causa dell’illecita occupazione delle
aree detenute legittimamente dalla famiglia Quintavalle nella misura di lire 1.464.175.000, con interessi
legali dalla data della sentenza fino al soddisfo.
Tale pronuncia veniva riformata dalla Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 2595 del 2004, la
quale, in accoglimento dell’appello incidentale avanzato dal Comune di Roma, rigettava tutte le pretese
risarcitorie avanzate contro l’Amministrazione capitolina, sul rilievo che sussisteva un’incompatibilità
fra la richiesta di risarcimento danni e la domanda di indennità ai sensi dell’art. 17 della 1. 685 del 1971,
avanzata da Quintavalle e dai suoi familiari in un separato giudizio. Il giudice di secondo grado
osservava inoltre che, al di là del carattere assorbente del rilievo sopra riportato, nessuna prova era stata
fornita sull’esistenza di un’azienda agricola e sull’avvenuta lesione di diritti soggettivi a livello
materiale e morale.
Avverso tale sentenza Aldo Quintavalle, in proprio e quale rappresentante della famiglia coltivatrice,
proponeva ricorso per cassazione, il quale veniva rigettato per la genericità delle censure e la richiesta
di riesame del merito della vicenda con sentenza n. 28126 del 2005, confermata dapprima
dall’ordinanza n. 5110 del 2009, con la quale è stato dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione
avverso la sentenza n. 28126 del 2005, e da ultimo dalla sentenza n. 17714 del 2011, con la quale è
stato dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione avverso l’ordinanza n. 5110 del 2009.
Nel frattempo la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 2595 del 2004 veniva impugnata da Aldo
Quintavalle, in proprio e quale rappresentante della famiglia coltivatrice, anche per revocazione,
deducendosi da un lato che l’esclusione della prova dell’esercizio dell’attività agricola esercitata dalla
predetta famiglia contrastava con la decisione del Consiglio di Stato n. 336 del 1997,con la quale era
stato accertata la legittimazione a ricorrere di Aldo Quintavalle in virtù dello sfruttamento di terreni per
fini agricoli sulla base di contratti qualificabili come contratti di affitto, e dall’altro che la decisione era
frutto di un errore di fatto risultante dagli atti e documenti di causa.
La Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 3903 del 2006, dopo avere rilevato il difetto di potere
rappresentativo di Aldo Quintavalle nei confronti dei componenti della famiglia coltivatrice, dichiarava

Rilevato che è stata depositata la seguente relazione nel procedimento civile iscritto al R.G. 9308 del
2012

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per revocazione Aldo Quintavalle, in proprio e per la
famiglia coltivatrice, anche iure ereditario per i genitori defunti Edoardo Quintavalle e Verna di
Ermenegildo, affidandosi ai seguenti motivi:
nel primo è stata denunciata la contrarietà della sentenza impugnata alla sentenza di questa Corte n.
22908, costituente giudicato tra le parti e pronunciata lo stesso giorno dal medesimo collegio. Ha
sostenuto il ricorrente che la prima pronuncia, concernente l’impossibilità di riconoscere il risarcimento
dei danni morali e materiali in presenza della richiesta dell’indennità aggiuntiva di cui all’art. 17 della 1.
865 del 1971, si porrebbe in contrasto con la statuizione contenuta nella seconda sentenza, che ha
negato il diritto alla suddetta indennità aggiuntiva a causa dell’annullamento ex tunc per illegittimità
della procedura di esproprio;
nel secondo è stato denunciato l’errore di fatto in relazione alla non corretta percezione degli atti
processuali e alla omissione di pronuncia sulla questione dell’asserita incompatibilità tra il risarcimento
dei danni ex art. 2043 c.c. e la percezione della indennità di cui all’art. 17 della 1. 865 del 1971;
nel terzo e sesto motivo è stato lamentato l’errore di fatto per mancato esame, da parte tanto della Corte
d’Appello nella sentenza oggetto di revocazione quanto della Corte di Cassazione nella sentenza
impugnata, di una cospicua mole di documenti indicati nelle pagine del ricorso, dall’analisi dei quali si
potrebbe chiaramente evincere che Aldo Quinatavalle e la sua famiglia erano coltivatori diritti dei fondi
e che pertanto avevano pieno diritto al riconoscimento del risarcimento del danno patito a seguito della

inammissibile l’impugnazione, in quanto l’appello era stato rigettato, a prescindere dall’accertamento
dello svolgimento dell’attività agricola, sotto l’autonomo profilo dell’incompatibilità tra la richiesta di
risarcimento danni e la proposizione in separato giudizio della richiesta di indennità ex art. 17 della I.
865 del 1971, di guisa che del tutto irrilevanti dovevano ritenersi le doglianze di parte attrice, non
potendo comunque condurre alla revocazione della pronuncia impugnata.
Avverso tale sentenza ricorrevano per cassazione Aldo, Sandro, Gianni, Fiorella, Guido e Gaetano
Quintavalle, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 48 della 1. n. 203 del 1982 per
avere la corte d’Appello erroneamente sostenuto che Quintavalle Aldo fosse privo di potere
rappresentativo nei confronti dei componenti della famiglia coltivatrice; la violazione e la falsa
applicazione dell’art. 17 della 1. n. 865 del 1971 e dell’art. 2043 c.c.; il vizio di motivazione per il
mancato esame nella loro interezza della questioni poste a fondamento della impugnazione per
revocazione. Questa Corte con sentenza n. 22631 del 2011 dichiarava l’inammissibilità del ricorso sul
presupposto che, fondandosi la sentenza della Corte d’Appello n. 2595 del 2004 su due autonome
rationes decidendi (da un parte l’incompatibilità tra la pretesa risarcitoria e la domanda di indennità ai
sensi dell’art. 17 della 1. 685 del 1971, dall’altra l’ori -lesso svolgimento dell’attività agricola sui poderi
occupati), la denuncia di un errore di fatto solo contro una di esse (la ritenuta inesistenza dell’azienda
agricola) non era idonea a provocare la revocazione della sentenza, mancando nel caso di specie quel
rapporto essenziale di causalità necessaria tra errore e pronuncia, in forza del quale eliminato il primo
cade il presupposto su cui si fonda la decisione. Veniva inoltre rigettata per infondatezza la doglianza
del ricorrente riguardo la violazione e la falsa applicazione dell’art. 48 della 1. n. 203 del 1982, in
considerazione del carattere meramente individuale delle pretese di carattere risarcitorio, che si
ponevano al di fuori dell’ambito dell’ordinaria gestione dell’impresa agricola, rendendo inapplicabile la
norma censurata al caso di specie con conseguente difetto di potere rappresentativo di Aldo Quintavalle
ad agire in giudizio in nome dei componenti della famiglia coltivatrice. Osservava infatti questa Corte
che la regola contenuta nell’art. 48 della 1. 3 maggio 1982 n. 203, in forza della quale, quando non vi sia
stata la nomina del rappresentante, ciascuno dei componenti della famiglia coltivatrice può agire, anche
sul piano processuale, in nome o per conto di detta famiglia nei confronti del concedente, con effetti
per gli altri familiari, nei cui confronti non è necessario integrare il contraddittorio, è stata dettata per i
soli casi di rappresentanza nell’ambito del rapporto agrario fra concedente e famiglia coltivatrice.

Ha resistito con controricorso il Comune di Roma, chiedendo ex art. 96 cpc la condanna alla spese del
ricorrente per lite temeraria.
In via preliminare deve essere dichiarata l’inammissibilità per difetto di legittimazione attiva del ricorso
proposto da Aldo Quintav. alle, nella qualità di rappresentante dei componenti della propria famigli
coltivatrice, essendosi formato il giudicato sulla statuizione contenuta nella sentenza impugnata
riguardo il difetto di potere rappresentativo di Aldo Quintavalle nei confronti degli asseriti componenti
della famiglia coltivatrice.
Ritenuto che il primo motivo deve essere dichiarato inammissibile, dal momento che il contrasto tra
giudicati ex art. 395, comma 1, n. 5, ipotizzato dal ricorrente, non è deducibile ai sensi dell’art. 391 bis
cpc come vizio di revocazione della decisione assunta dal giudice di legittimità.
(Cass. Sez. U. 10867 del 2008; Cass. 704 del 2009, sulla coerenza costituzionale di questa limitazione
Cass. 862 del 2011));
che il secondo motivo è da ritenersi inammissibile, in quanto quel che il ricorrente lamenta non è un
errore di fatto revocatorio, ossia un errore di percezione, una mera svista materiale, che abbia indotto la
Corte ad affermare l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, la cui sussistenza (o insussistenza)
risulti, invece, in modo incontestabile dagli atti esaminati, ma un ipotetico vizio di motivazione,
articolato tra l’altro in materia del tutto generica, non denunciabile con il ricorso per revocazione, ma
con quello per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 5, impugnazione peraltro già esperita dalla parte
avverso la sentenza della Corte d’Appello n. 2595 del 2004 e definita da questa Corte con sentenza n.
28126 del 2005;
che il terzo ed il sesto motivo sono altresì inammissibili, ancor prima che infondati, per difetto
d’interesse in quanto rivolti a censurare solo una delle due rationes decidendi sulle quali si è fondata la
decisione della Corte d’Appello, successivamente fatto oggetto di revocazione, respinta sia dal giudice
di merito che dalla sentenza di Cassazione n. 22631 del 2011. In quest’ultima pronuncia, impugnata per
revocazione con il presente ricorso è esattamente spiegato che “l’esistenza di un’autonoma ratio
decidendi costituisce di per sé un elemento per escludere il carattere di decisività dell’errore attribuito
alla sentenza impugnata per revocazione” . Il principio costituisce fermo orientamento della
giurisprudenza di legittimità. (Cass. 3935 del 2009; sul difetto d’interesse in caso di mancata
impugnazione di tutte le rationes decidendi Cass. 2108 del 2012);
che il quarto ed il quinto motivo sono inammissibili, perché è stato denunciato non un errore di
percezione del fatto (nel senso sopra delineato), ma l’erronea applicazione di norme di diritto, in
particolare dell’art. 42 bis del DPR 327 del 2001, dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla carta EDU e
degli artt. artt. 1, 6, paragrafo 1, 8, 13, 17 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e

procedura di esproprio illegittima. Il ricorrente inoltre ha censurato l’omessa pronuncia sul secondo e
terzo motivo del ricorso proposto per la cassazione della sentenza 3903 del 2006 della Corte d’Appello,
pronunciata in sede di revocazione, conseguente alla mancata disamina di documenti essenziali e
decisivi per la causa;
nel quarto e quinto è stato denunciato l’errore di fatto in relazione alla mancata applicazione dell’art. 34
del D.L. 98 del 2011, convertito in 1. n. 111 del 2011, e all’omesso esame dell’art. 1 del Protocollo
addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
nonché degli artt. 1, 6, paragrafo 1, 8, 13, 17 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, così come interpretati dalla Corte EDU.

delle libertà fondamentali nell’interpretazione fornita dalla Corte EDU. Tali censure non sono
ammissibili, atteso che l’ordinamento giuridico non appresta rimedi avverso un ipotetico errore di
diritto compiuto dalla corte di legittimità, contro le cui decisioni è ammesso solo il ricorso per
revocazione, ma per un motivo diverso da quello in questa sede prospettato (ex art. 391 bis c.p.c.,
comma 1, e art. 395 c.p.c., n. 4) (ex plurimis Cass. 9026 del 2010).
che il motivo di ricorso incidentale volto ad ottenere la condanna ex art. 96 c.p.c. per lite temeraria,
appare solo genericamente dedotto;
In conclusione, ove si condividano i predetti rilievi, il ricorso per revocazione deve essere dichiarato
inammissibile e deve essere rigettata la richiesta di condanna per lite temeraria ex art. 96 cpc.”

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