Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3967 del 16/02/2021

Cassazione civile sez. II, 16/02/2021, (ud. 12/11/2020, dep. 16/02/2021), n.3967

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23577/2019 proposto da:

S.M., rappresentato e difeso dall’Avvocato VITTORIO D’ANGELO,

ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in ASCOLI PICENO,

P.zza ROMA 23;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto 8360/2019 del TRIBUNALE di ANCONA pubblicato il

24/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/11/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

S.M. proponeva opposizione avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale.

Sentito dalla Commissione Territoriale, il richiedente aveva riferito di essere cittadino del Bangladesh, originario di (OMISSIS), nella città di (OMISSIS); che dopo la morte del padre si era recato a casa della matrigna per rivendicare la propria parte di eredità vedendosi opporre un rifiuto; che i fratellastri avevano iniziato a minacciarlo di morte e così, intimorito, decideva di lasciare il Paese; che temeva, in caso di rimpatrio, di essere ucciso dai fratellastri.

Con decreto n. 8360/2019, depositato in data 24.6.2019, il Tribunale di Ancona rigettava il ricorso, ritenendo che le dichiarazioni, anche là dove credibili, restavano confinate nei limiti di una vicenda di natura privata e di giustizia comune, trattandosi di personali timori privi di elementi concreti di riscontro e non sussistendo una condizione oggettiva di pericolo direttamente riferibile al ricorrente in relazione alla situazione generale della zona geografica di provenienza. Sulla situazione del Bangladesh osservava che non risultavano persecuzioni generalizzate sia da parte dello Stato, sia da parte di soggetti non statuali. Quanto alla domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, il ricorrente non aveva allegato di essere affiliato politicamente, nè di appartenere a una minoranza etnica e/o religiosa, oggetto di persecuzione: i fatti riferiti, in assenza di atti persecutori diretti e personali, non erano riconducibili alle previsioni di cui alla Convenzione di Ginevra. Anche la domanda di protezione sussidiaria non veniva in rilievo alcuno dei requisiti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) e neppure una violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato (lett. c della suddetta disposizione). Infine, anche la domanda di protezione umanitaria doveva essere respinta, in quanto non sussisteva una condizione di elevata vulnerabilità all’esito del rimpatrio, tenuto conto dell’inesistenza di problematiche soggettive come quelle tipizzate dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. a-d), nè poteva considerarsi una particolare vulnerabilità soggettiva la condizione di emarginazione rispetto alla famiglia della matrigna, dovendo sussistere una seria compromissione dei diritti umani goduti nel Paese ospitante all’esito del rimpatrio. Nella fattispecie, l’assunzione a tempi ridotti con salario al di sotto dell’importo dell’assegno sociale non era sufficiente a rendere tutelabile un diritto di rango costituzionale, come quello al lavoro. Inoltre, dai certificati medici prodotti non risultavano patologie talmente gravi da porre in pericolo la vita e/o l’incolumità in caso di rientro e non risultavano prescritte dal sanitario cure mediche urgenti o essenziali da eseguirsi sul territorio nazionale.

Avverso detta ordinanza propone ricorso per cassazione S.M. sulla base di un motivo. L’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il motivo, il richiedente lamenta ex “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6; D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, lett. c-ter; artt. 7, 8 e 10 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, in quanto la modalità di risoluzione della vicenda ereditaria del ricorrente prevista dal diritto bengalese, lo shalish, non garantisce il legittimo diritto a un procedimento equo, imparziale e rispettoso dei suoi diritti umani e giustificherebbe pertanto il riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari; nonchè ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame della circostanza al punto 7 del provvedimento impugnato”. Il Tribunale affrontava la vicenda nella parte del provvedimento relativo alla protezione sussidiaria, mentre, secondo il ricorrente, essa era più afferente alla protezione umanitaria, date le particolari modalità di risoluzione di tale tipo di controversie. Lo stesso Giudice rilevava come questi procedimenti non garantissero la parte più debole, ma, trattando la questione nella parte della decisione relativa alla protezione sussidiaria, concludeva nel senso che non vi fossero elementi per ritenere che il ricorrente potesse subire un grave danno per effetto dei fatti allegati, così negando la protezione sussidiaria, giacchè il suddetto procedimento (shalish) non garantisce affatto i diritti del ricorrente, in quanto non è espressione statale e risulta facilmente influenzabile, non essendo garantiti i diritti essenziali previsti dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, quale il diritto all’assenza di discriminazioni dinanzi alla legge (art. 7), all’effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali (art. 8), e a una pubblica udienza davanti a un tribunale indipendente e imparziale (art. 10).

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – Nel ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro (Cass. n. 8368 del 2020).

Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874 del 2018; Cass. n. 19443 del 2011).

1.3. – Va rilevato che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa (come già detto), l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie). Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di Cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della preliminare indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

1.4. – Dal canto suo, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella novellata formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis) consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. sez. un. 8053 del 2014; Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è specifica adeguata indicazione.

Laddove, poi, si presenta altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, con riferimento non già ad un “fatto storico”, come sopra inteso, bensì a questioni o argomentazioni giuridiche (Cass. n. 22507 del 2015; cfr. Cass. n. 21152 del 2014); ciò in quanto nel paradigma ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è inquadrabile il vizio di omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).

1.5. – Resta, in conclusione, da porre in evidenza come le censure, nel loro complesso, si risolvano nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando il ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 3638 del 2019; Cass. n. 5939 del 2018).

Compito della Cassazione non è quello di condividere o meno la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 9275 del 2018); la qual cosa, nel caso di specie, è ampiamente dato riscontrare.

1.6. – Quanto infine alla portata retroattiva del D.L. 4 ottobre 2018, n. 113 (pubblicato nella G.U. n. 231 del 4.10.2018), si rileva che, già all’indomani della pubblicazione del citato D.L. n., il Tribunale di Ancona, così come la maggioranza dei giudici di merito, aveva escluso tale impostazione, poi condivisa in modo uniforme e confermata da questa Corte con le sentenze (con le sentenze: Cass., sez. un., n. 29459 del 2019; cfr. Cass. n. 4890 del 2019). Sicchè la disciplina de qua non trova applicazione con riguardo alla domanda di permesso di soggiorno prima della sua entrata in vigore (in data 5.10.2018, come nella fattispecie), così dal doversene escludere la operatività.

2. – Il ricorso va dichiarato inammissibile. Nulla per le spese nei riguardi del Ministero dell’Interno, che non ha svolto attività difensiva. Va emessa la dichiarazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2021

 

 

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