Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3960 del 19/02/2018


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Cassazione civile, sez. I, 19/02/2018, (ud. 12/10/2017, dep.19/02/2018),  n. 3960

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con atto di citazione notificato il 26 novembre 1999 il Fallimento (OMISSIS) s.p.a. conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Bologna, la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. esponendo: che la società (OMISSIS) era stata dichiarata fallita dal Tribunale di Bologna con sentenza del 23 febbraio 1995; che nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento erano state compiute molteplici operazioni di natura solutoria riferibili a due conti correnti intrattenuti dalla società con la predetta banca; che quest’ultima era pienamente consapevole dello stato di insolvenza della società poi fallita.

Parte attrice agiva quindi in via revocatoria chiedendo che, a norma della L. Fall., art. 67 (R.D. n. 267 del 1942), fossero dichiarate inefficaci le menzionate operazioni.

Nella resistenza della Banca Nazionale del Lavoro il Tribunale respingeva la domanda.

2. – Il Fallimento proponeva quindi un appello che veniva respinto. Era accolto invece &gravame incidentale della banca, il quale riguarda un profilo della controversia che qui più non rileva.

3. – Contro la sentenza della Corte di appello di Bologna, depositata il 28 febbraio 2012, ricorre il Fallimento (OMISSIS): l’impugnazione è articolata in quattro motivi. Resiste con controricorso la Banca Nazionale del Lavoro. Sono state depositate memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Queste, in sintesi, le censure svolte dal ricorrente.

1.1. – Primo motivo: violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115,116 e 132 c.p.c.. La Corte di merito, ad avviso del ricorrente, aveva mancato di attribuire rilievo alle consulenze tecniche svolte nell’ambito gli altri procedimenti. Nella prima di tali perizie era stato evidenziato che il ceto bancario aveva la possibilità di disporre di indizi sulla critica gestione della società fallita, mentre nella seconda era stato sottolineato come per rendersi conto della inadeguatezza delle disponibilità finanziarie della società (OMISSIS) “sarebbe bastato fissare la situazione bancaria e/o finanziaria della società ad un momento qualsiasi dell’esercizio 1994”. Osserva il Fallimento che il giudice del merito può dichiarare inammissibile la produzione di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio esperita in un diverso procedimento tra le stesse parti solo ove gli elementi di convincimento per disattendere tale richiesta siano tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e ritenute esaurienti.

1.2. – Secondo motivo: violazione o falsa applicazione degli artt. 2729 e 2697 c.c., oltre che della L. Fall., art. 67. Deduce il Fallimento che la consapevolezza, da parte della banca, dello stato di decozione della società poi fallita discendeva dal dato di comune esperienza per cui è abituale prassi bancaria prendere conoscenza, allorquando si istruisce la pratica di un affidamento, dei risultati del precedente esercizio del soggetto che richiede il finanziamento; d’altro canto, aggiunge l’istante, proprio detta consapevolezza aveva indotto la Banca Nazionale del Lavoro a vigilare sulla operatività della società, così come risultava dalla comunicazione interna all’istituto di credito risalente al 16 dicembre 1993. Aggiunge l’istante che i dati nella disponibilità della controricorrente (circa la sproporzione tra gli affidamenti dei conti e la natura solutoria delle operazioni di incasso contabilizzate nel conto anticipi), in uno con la progressiva estensione degli affidamenti, andavano “interpretati necessariamente avendo riguardo al fine ultimo perseguito dalla banca, a fronte della conoscenza dello stato di insolvenza della società, di rientrare nella propria esposizione verso il cliente”. Sostiene pertanto il Fallimento di aver fornito indicazioni atte a delineare un insieme di elementi presuntivi, gravi precisi e concordanti, circa la contestata scientia decoctionis: ciò avendo riguardo al principio per cui la certezza logica dell’esistenza di tale stato soggettivo può legittimamente dirsi acquisita allorchè trovi fondamento nelle condizioni, economiche, sociali, organizzative, topografiche, culturali nelle quali si sia concretamente trovato ad operare il creditore del fallito.

1.3. – Terzo motivo: nullità della sentenza o del procedimento. Oppone il ricorrente di aver lamentato con riferimento alla pronuncia di prime cure l’omessa considerazione della rilevanza indiziaria delle deduzioni svolte sin dalla proposizione del giudizio. Lamenta lo stesso istante che la Corte di merito aveva mancato di prendere posizione sulle doglianze sollevate, limitandosi ad aderire alla tesi espressa dal giudice di prime cure, tanto da far apparire la motivazione fornita con la decisione qui impugnata del tutto apparente.

1.4. – Quarto motivo: omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, e comunque omesso esame circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, in ordine alla rilevanza delle risultanze del bilancio e della nota integrativa al 31 ottobre 1993 e alle successive risultanze documentali ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo della scientia decoctionis in capo all’istituto di credito. L’istante rileva che le criticità espresse nel bilancio si inseriscano in un quadro di elementi giuridici atti a dar conto dell’inadeguatezza patrimoniale e finanziaria della società in bonis: dato, questo, che certo non poteva sfuggire a un istituto di credito chiamato a istruire una pratica di finanziamento. La sentenza impugnata era del resto contraddittoria laddove aveva desunto dall’estensione progressiva degli affidamenti un elemento indicativo della rinnovata fiducia, da parte della banca, nei confronti della società poi fallita. Infatti, proprio l’ottenimento delle linee di credito aveva consentito alla società di onorare i propri impegni con i creditori fino alla degenerazione ultima della crisi: la condizione di sofferenza di (OMISSIS) non poteva però essere ignorata dalla odierna controricorrente, visto che la medesima era a conoscenza sia delle ingenti perdite evidenziate nel bilancio al 31 ottobre 1993, sia del mancato integrale versamento del capitale sociale, sia della inadeguatezza della rappresentazione data dagli amministratori sociali circa le prevedibili evoluzioni dell’attività di impresa.

2. – I motivi testè riassunti non sono fondati.

2.1. – La Corte di Bologna ha osservato: che le prospettive di andamento positivo dell’attività economica di (OMISSIS) traevano conforto dai buoni risultati del primo trimestre 1994 e dalle previsioni dell’organo gestorio alla data del 26 gennaio 1994 (che cadeva appena un anno prima della dichiarazione di fallimento); che, del resto, secondo quanto evidenziato dal consulente tecnico d’ufficio nominato nel corso del procedimento, i mesi da luglio a ottobre 1993 erano stati “utilizzati per costruire la struttura organizzativa della (OMISSIS) s.p.a. che, visti i risultati delle vendite immediatamente successivi, deve essere positivamente considerata”; che nel periodo che qui rileva non era emersa alcuna situazione indicativa dello stato di insolvenza, come ritardi nei pagamenti, pronuncia di decreti ingiuntivi, avvio di azioni esecutive, levata di protesti, riduzione o revoche di affidamenti da parte di altre banche; che, infine, nella fattispecie non si era evidenziata alcuna variazione o anomalia di rapporto tra le parti (quali richieste di rientro, revoche di affidamento o riduzioni nella misura dei finanziamenti concessi).

2.2. – Dette argomentazioni, congrue ed esaurienti, appaiono immuni dai vizi denunciati.

Occorre premettere che la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (così, da ultimo, Cass. 4 luglio 2017, n. 16467) e dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 2 agosto 2016, n. 16056; Cass. 21 luglio 2010, n. 17097).

2.3. – Ciò posto, la censura posta a fondamento del primo motivo presenta un contenuto complesso, in quanto il ricorrente si duole sia della mancata acquisizione che dell’omessa valutazione dei due elaborati peritali.

Il tema della mancata acquisizione documentale difetta, anzitutto, di autosufficienza, dal momento che il ricorrente non chiarisce in quale circostanza abbia inteso procedere, in primo grado, alla produzione dei due elaborati, nè trascrive il contenuto del provvedimento che avrebbe ritenuto irrituale la suddetta produzione, nè infine spiega come abbia censurato il nominato provvedimento nel proprio atto di appello. La produzione documentale risultava del resto preclusa in fase di gravame, a norma dell’art. 345 c.p.c., comma 3 e l’istante non lamenta che ricorresse alcuna delle condizioni che, in base a detta norma, avrebbe consentito di derogare all’intervenuta decadenza dal potere processuale di versare in atti il documento.

Va detto, in secondo luogo, che il motivo, con riferimento alla questione della mancata acquisizione documentale avrebbe dovuto essere fatta valere prospettando un error in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4. Il punto non è puramente formale e terminologico: non è indispensabile, difatti, che il ricorrente, denunciando un error in procedendo, faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 4; è tuttavia necessario che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità del procedimento o della decisione determinata dal vizio lamentato, essendo inammissibile, in una tale ipotesi, la deduzione della insufficiente motivazione (cfr. Cass. Sez. U. 24 luglio 2013, n. 17931; Cass. 29 novembre 2016, n. 24247).

Il tema del mancato apprezzamento dei documenti risulta poi assorbito dal dato dell’assenza di una idonea censura vertente sulla mancata acquisizione degli scritti in questione: è di solare evidenza, infatti, che il giudice di appello non fosse tenuto a valutare, sul piano probatorio, documenti non ritualmente prodotti (o la cui mancata acquisizione in primo grado non fosse stata censurata con l’atto di gravame).

Per mera completezza va comunque osservato che non risulta pertinente il richiamo all’art. 112 c.p.c., visto che nel vizio di omessa pronuncia rileva il mancato esame di una domanda od un’eccezione introdotta in causa, autonomamente apprezzabile, ritualmente ed inequivocabilmente formulata, e non l’omessa trattazione di una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione (per tutte: Cass. 5 dicembre 2014, n. 25761; Cass. 4 dicembre 2014, n. 25714). Quanto alla censura vertente sugli artt. 115 e 116 c.p.c., essa attiene effettivamente alla materia della valutazione dei risultati desumibili dalle prove acquisite processualmente: il vizio concernente l’apprezzamento delle prove, peraltro, si risolve in quello di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nella versione anteriore alle modifiche apportate alla norma dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito in L. n. 134 del 2012: vizio che deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 30 novembre 2016, n. 24434; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; in tema pure Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707).

In tal senso la denunciata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e quella veicolata dall’art. 132 c.p.c., vertono tutte su di un vizio motivazionale: vizio che, peraltro, deve ritenersi insussistente. Infatti, le prove raccolte in un diverso giudizio danno luogo ad elementi meramente indiziari, onde la mancata valutazione di tali prove non è idonea ad integrare il vizio di motivazione, in quanto il difetto riscontrato non può costituire punto decisivo, implicando non un giudizio di certezza ma di mera probabilità rispetto all’astratta possibilità di una diversa soluzione (Cass. 22 febbraio 2011, n. 4279).

2.4. – Parimenti da disattendere sono le doglianze di violazione o falsa applicazione degli artt. 2729 e 2697 c.c., oltre che della L. Fall., art. 67. Attraverso le censure svolte all’interno del secondo motivo il ricorrente tende, infatti, a una inammissibile revisione del giudizio di fatto riservato al giudice del merito.

Del resto, spetta al giudice del merito – nel quadro dell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di selezionare e vagliare il materiale probatorio – valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 8 gennaio 2015, n. 101; Cass. 27 ottobre 2010, n. 21961; Cass. 13 novembre 2009, n. 24028; Cass. 11 maggio 2007, n. 10847).

La doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., è, poi, mal posta: la violazione di tale norma si configura, infatti, soltanto nell’ipotesi – qui non prospettata -in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107).

Inammissibile è, infine, la denunciata violazione o falsa applicazione della L. Fall., art. 67: il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. Sez. U. 5 maggio 2006, n. 10313; in senso conforme, ad es.: Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315). D’altro canto, nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 12 gennaio 2016, n. 287; Cass. 1 dicembre 2014, n. 25419; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010).

2.5. – Inconsistente è, inoltre, la censura articolata nel terzo motivo, in cui si deduce l’apparenza della motivazione resa dalla Corte di merito con riferimento a specifici rilievi svolti dal Fallimento ricorrente. E’ sufficiente rilevare, in proposito, che la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U. 3 novembre 2016, n. 22232).

2.6. – Quanto, da ultimo, al vizio motivazionale, su cui è incentrato il quarto motivo, la lettura proposta dal ricorrente è diretta a confutare l’assunto della mancata conoscenza, da parte della banca, della insolvenza della società in bonis (la quale sarebbe stata destinataria di una estensione progressiva dei finanziamenti: elemento, questo da cui la Corte di appello avrebbe impropriamente tratto il segno della fiducia riposta dalla Banca Nazionale del Lavoro nell’operato di (OMISSIS)). Si tratta, però, per l’appunto, di una semplice diversa lettura dei fatti di causa: di una loro rivisitazione implicante la valorizzazione di taluni elementi e il deprezzamento di altri.

Ora, col ricorso per cassazione non può farsi valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, la prospettazione di un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti: tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono infatti al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064).

Va ribadito, del resto, che la motivazione della sentenza impugnata presenta una sua intrinseca plausibilità (non potendosi certo aprioristicamente escludere che gli elementi apprezzati dalla Corte di merito siano indicativi della rilevata inscientia decoctionis, piuttosto che di una conoscenza dello stato di insolvenza che la banca avrebbe avuto interesse a mantenere occulto fino al ripianamento di una parte almeno dell’esposizione debitoria della società). Ebbene, in base alla previsione dell’art. 360, n. 5, nella versione applicabile alla fattispecie, successiva alla modificazione della norma apportata con D.Lgs. n. 40 del 2006, l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve riguardare un fatto “controverso e decisivo per il giudizio” e ciò implica che la motivazione della quaestio facti sia affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che sia tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione (così Cass. 20 agosto 2015, n. 17037).

3. – Il ricorso è dunque respinto.

4. – Segue la condanna del ricorrente, siccome soccombente, al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 12 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2018

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