Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3956 del 19/02/2018


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Cassazione civile, sez. I, 19/02/2018, (ud. 12/10/2017, dep.19/02/2018),  n. 3956

Fatto

La Corte:

Rilevato che:

Con decreto depositato il 2/5/2012, il Tribunale di Forlì, in riforma dello stato passivo reso esecutivo il 10/6/2011, ha ammesso al passivo del Fallimento (OMISSIS) s.p.a. il credito vantato da G.M. in privilegio ex art. 2751 bis c.c., n. 2, per la somma di Euro 7.891,79, al netto delle ritenute fiscali e previdenziali per le retribuzioni dei mesi di ottobre, novembre e dicembre 2010, e per Euro 9688,34, per t.f.r., al lordo delle ritenute di legge, ed ha condannato il Fallimento alle spese di lite.

Nello specifico e per quanto ancora rileva, il Tribunale, posto che occorreva accertare la reale prestazione dell’attività lavorativa del ricorrente per la società fallita, piuttosto che verificare la data certa del contratto di lavoro, che non necessita di forma scritta, ha considerato provata, sulla base delle prove orali espletate, la regolare prestazione lavorativa nei mesi indicati, per il normale orario giornaliero, come indicato nelle buste paga prodotte, prestazione consistente nella gestione del settore commerciale del ramo d’azienda tubi; ha quindi ammesso al passivo in privilegio ex art. 2751 bis c.c., n. 1, gli importi indicati, non specificamente contestati dal Curatore, oltre interessi e rivalutazione monetaria dei singoli crediti dalla maturazione alla data di deposito della pronuncia, modificativa dello stato passivo; ha condannato la Curatela alle spese, come liquidate in dispositivo, secondo le tariffe di cui al D.M. 8 aprile 2004, n. 127, aventi valore di uso normativo ex art. 2233 c.c., in attesa dell’emanazione del decreto ministeriale previsto dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9.

Ricorre avverso detta pronuncia il Fallimento, con ricorso affidato a quattro motivi, illustrato con memoria.

L’intimato, dopo essersi costituito, ha depositato la memoria ex art. 380 bis, n. 1, da ritenersi ammissibile, alla stregua del principio affermato nella pronuncia del 24/5/2017, n. 13093.

Considerato che:

Col primo motivo, il Fallimento si duole dell’avere il Tribunale ritenuto provata l’esistenza del contratto e L’opponibilità del relativo contenuto a mezzo di inammissibili prove storiche e critiche; sostiene che il Tribunale, volta che il G. aveva allegato l’esistenza del contratto concluso per iscritto, avrebbe dovuto constatare, in mancanza di autenticazione o registrazione della scrittura, la carenza dei “fatti certi” idonei ad attribuire data certa, ex art. 2704 c.c.. Col secondo, il Fallimento sostiene che il Tribunale ha violato o falsamente applicato l’art. 2697 c.c., ed è incorso in vizio motivazionale, per avere ritenuto che il contratto e la stipulazione dello stesso anteriormente al fallimento potessero essere provati con altri mezzi di prova; che comunque, quanto capitolato a prova testimoniale non era idoneo a provare lo svolgimento di attività lavorativa da parte del G., figlio del socio ed amministratore unico della società, a carattere familiare, da sempre coinvolto attivamente nella gestione, nè la prova del contratto e la sua opponibilità al Fallimento potevano essere date dalle buste paga.

Col terzo, il ricorrente sostiene che il Tribunale è incorso nei vizi ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 (meramente labiale è nella rubrica il richiamo del vizio ex art. 360 c.p.c., n. 4), per avere derogato all’art. 2721 c.c., comma 2, in ogni caso senza indicare le ragioni della deroga.

Col quarto, il Fallimento si duole della pronuncia in punto spese di lite, sostenendo che doveva esserne gravato il G., per avere dato causa al giudizio di opposizione, non avendo allegato alla sua istanza il titolo contrattuale, e che, a tutto concedere, le spese dovevano essere compensate.

I primi tre motivi di ricorso, da valutarsi unitariamente in quanto strettamente connessi, vanno respinti, per le ragioni che si vanno ad esporre.

Deve in primis ritenersi non corretto il principio dal quale è partito il Tribunale, ovvero che in sede di opposizione allo stato passivo, non richiedendo il contratto di lavoro la forma scritta, nè ad substatiam nè ad probationem, dovesse essere meramente provato lo svolgimento di attività lavorativa da parte del G..

Ed infatti, così opinando, il Tribunale ha sostanzialmente mutato il titolo della domanda di ammissione al passivo, dato che il G. aveva fatto valere, a fondamento della propria richiesta, il contratto di lavoro concluso per iscritto il 1/10/2008; pur tuttavia, è corretta la conclusione a cui è pervenuto il Giudice del merito.

Come affermato nella recente pronuncia del 25/2/2011, n. 4705 (conf. la successiva 2319/2016) nel caso del mandato professionale per l’espletamento di attività di consulenza e comunque di attività stragiudiziale, lo stesso non deve essere provato necessariamente con la forma scritta, “ad substantiam” ovvero “ad probationem”, potendo essere conferito in qualsiasi forma idonea a manifestare il consenso delle parti e potendo il giudice – nella specie in sede di accertamento del relativo credito nel passivo fallimentare – tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza, ammettere l’interessato a provare, anche con testimoni, sia il contratto che il suo contenuto; inoltre, l’inopponibilità, per difetto di data certa ex art. 2704 c.c., non riguarda il negozio, ma la data della scrittura prodotta, pertanto il negozio e la sua stipulazione in data anteriore al fallimento possono essere oggetto di prova, prescindendo dal documento, con tutti gli altri mezzi consentiti dall’ordinamento, salve le limitazioni derivanti dalla natura e dall’oggetto del negozio stesso.

Ora, il Tribunale ha ritenuto che le prove orali provassero adeguatamente lo svolgimento delle attività lavorative, l’orario, le prestazioni, che trovavano correlativa conferma nelle buste paga: a fronte di detta valutazione, la contestazione sulla “non certezza” del contenuto attiene allo specifico profilo della valutazione della prova, costituente specifico profilo di merito, sostanziandosi in un controllo sulla valutazione della prova, che non è consentito ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (così le pronunce Sez. U., 8053 e 8054 del 2014, Sez. U. 16598/2016, 11892/2016); a fronte della censura che le prove assunte hanno avuto ad oggetto le attività svolte e non il titolo in base al quale sono state svolte, è sufficiente rilevare come le stesse ben abbiano avvalorato il convincimento della sussistenza del titolo e della sua anteriorità; quanto alla doglianza di ammissione oltre i limiti di valore sanciti dall’art. 2721 c.c., senza specifica motivazione, va rilevato che, come ritenuto nella pronuncia 3959/2012, detti limiti non attengono all’ordine pubblico, ma sono dettati nell’esclusivo interesse delle parti private, con la conseguenza che, qualora la prova venga ammessa in primo grado oltre i limiti predetti, essa deve ritenersi ritualmente acquisita se la parte interessata non ne abbia tempestivamente eccepito l’inammissibilità in sede di assunzione o nella prima difesa successiva entro lo stesso grado di giudizio; in questo caso, la relativa nullità, essendo rimasta sanata, non può essere eccepita per la prima volta in sede di appello, neppure dalla parte che sia rimasta contumace nel giudizio di primo grado, e, a maggior ragione, non può essere eccepita per la prima volta in sede di legittimità.

E nel caso, si deve rilevare che il Fallimento si è limitato a genericamente dedurre di avere contestato l’inammissibilità delle prove (pag. 12, richiamo alle pagine 7 e 9 del ricorso), senza indicare specificamente di avere sollevato l’eccezione in oggetto.

Quanto al motivo sulle spese, è infondata la denuncia di violazione dell’art. 91 c.p.c..

Nella vigenza della normativa fallimentare ante riforma, questa Corte, con la pronuncia 10854/2003 si è espressa nel senso di ritenere che, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il regolamento delle spese processuali è ispirato, ricorrendo la medesima “ratio” di evitare che il ritardo nella documentazione del credito possa risolversi in pregiudizio per la massa dei creditori, allo stesso principio – ricavabile dalla L. Fall., art. 101, u.c. – che regola la materia nel giudizio sulla dichiarazione tardiva di credito, principio in base al quale deve assumersi a criterio del regolamento delle spese il ritardo del creditore, secondo che esso si riveli colpevole o non; che pertanto, anche nel giudizio di opposizione a stato passivo, il regolamento delle spese non pub prescindere dalla valutazione della condotta del creditore opponente e dalla eventuale sua responsabilità, tutte le volte cha a lui si possa o si debba ascrivere di aver dato causa, ad esempio, con la tardiva produzione della documentazione giustificativa del credito, o di aver reso necessario il giudizio di opposizione stesso, pur se di esito favorevole ad esso opponente.

Ora, detto orientamento, incentrato sul principio desunto dalla L. Fall., art. 101, u.c., è stato superato dalla pronuncia 28443/2011, che ha ritenuto che la L. Fall., art. 101 (nel testo “ratione temporis” vigente prima delle modifiche del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), nel disporre che, nel caso di dichiarazione tardiva di credito, il creditore sopporta le spese conseguenti al ritardo della domanda, salvo che il ritardo sia dipeso da causa a lui non imputabile, si ispira all’esigenza di tenere indenne l’amministrazione del fallimento da spese dovute a colpa del creditore che si insinui tardivamente: questa esigenza sussiste esclusivamente per quelle spese all’insinuazione tardiva che non siano richieste all’insinuazione tempestiva, perchè soltanto tali spese possono ritenersi causate dal ritardo e quindi giustificano una responsabilità del creditore; essa non ricorre, invece, per le spese del procedimento contenzioso che sia eventualmente promosso con l’opposizione dall’insinuazione tardiva, trovando applicazione in tal caso, per la soccombenza della curatela, la regola ordinaria di cui all’art. 91 c.p.c., per la quale le spese del giudizio debbono far carico alla parte che ad esso ha dato ingiustamente causa.

Con la modifica della L. Fall., art. 101, è venuta meno ogni possibilità di ritenere che la regolamentazione delle spese nel giudizio di opposizione allo stato passivo resti sottratta all’applicazione del principio generale di cui all’art. 91 c.p.c..

Deve infine ritenersi inammissibile la richiesta avanzata in subordine, di compensazione delle spese di lite, per il principio tra le ultime espresso nella pronuncia 8421 del 2017, secondo cui in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi.

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso; condanna il Fallimento alle spese, liquidate in Euro 3200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi; oltre spese forfettarie ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 12 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2018

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