Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3955 del 19/02/2018


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Cassazione civile, sez. I, 19/02/2018, (ud. 04/10/2017, dep.19/02/2018),  n. 3955

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.1. Con la sentenza in atti, la Corte d’Appello di Napoli, attinta in riassunzione dal Comune di Sant’Agnello di seguito alla pronuncia di questa Corte in data 21 giugno 2010, n. 14490 – in merito alla controversia promossa da D.L.P. e dagli eredi M. nei confronti dell’ente locale onde vedersi risarcito il danno da usurpazione acquisitiva di un fondo di loro proprietà che il Comune, venuto meno ogni titolo di legittimazione, aveva destinato alla realizzazione di un impianto sportivo – ha proceduto a rideterminare l’entità del ristoro complessivamente dovuto ai danneggiati, provvedendo dapprima a individuare l’ambito del giudizio di rinvio ed espungendo perciò da esso, perchè nuova, la domanda del D.L. diretta a conseguire il ristoro del danno non patrimoniale previsto dal D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 42-bis; quindi a qualificare, secondo i criteri enunciati dalla citata sentenza di legittimità, parte dell’area usurpata, ricadente in zona F/2 Attrezzature sportive secondo il piano regolatore generale del Comune, quale area edificabile – e, meglio, come afferma il decidente, quale area “non concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico, non essendo tale l’edificazione esclusivamente a scopo sportivo”, da considerarsi perciò “legalmente edificabile pure ad iniziativa privata” -; ed, infine, a liquidare il tantundem in base ai criteri equitativi di cui agli artt. 2056 e 1226 c.c., discostandosi perciò tanto dalla valutazione operata in base al metodo analitico-ricostruttivo, seguito dal ctu e accolto dalla sentenza cassata, quanto da quella che utilizza il metodo sintetico-comparativo, pure ritenuta da esso giudicante preferibile, ma inutilizzabile nella specie a causa del ridotto numero degli elementi idonei a comporre un campione sufficientemente affidabile.

1.2. Insoddisfatti del rinnovato esito della lite, il D.L. e gli eredi M. sollecitano nuovamente il giudizio di questa Corte, il primo con ricorso principale affidato a cinque motivi, i secondi con ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

Ad entrambi gli atti di gravame, illustrati pure con memorie, resiste il Comune di Sant’Agnello con duplice controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2.1. Con il primo ed il secondo motivo del ricorso principale il D.L. censura l’impugnato deliberato di rinvio laddove questo avrebbe disatteso il principio di diritto affermato nella pregressa sentenza di questa Corte, disapplicando “platealmente” il metodo analitico ricostruttivo a cui già si era attenuto il medesimo decidente nella sentenza cassata ed incorrendo in tal modo nella violazione tanto dell’art. 384 c.p.c., comma 2, attesi i criteri che la citata sentenza aveva enunciato ai fini di stabilire il valore della trasformazione subita dal fondo, che dell’art. 2909 c.c., stante l’intangibilità della statuizione afferente alla scelta de criterio di stima.

2.2. Parimenti analoga censura – il cui esame non incorre nella preclusione opposta dal Comune nel relativo controricorso, in ragione del principio secondo cui l’impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile, a tutela della reale utilità della parte, ove l’impugnazione principale metta in discussione l’assetto di interessi derivanti dalla sentenza cui la parte non impugnante aveva prestato acquiescenza (Cass., Sez. U, 27/11/2007, n. 24627, a cui si allinea la giurisprudenza di questa Sezione: Cass., Sez. 1, 16/11/2015, n. 23396) – è sviluppata con riferimento all’art. 2909 c.c., anche dai ricorrenti incidentali M. nella seconda parte del primo motivo del loro ricorso.

2.3. Le dispiegate doglianze – che sollevano, ancorchè da punti di vista diversi, la medesima questione e che per questo possono essere esaminati congiuntamente – sono prive di fondamento.

Esse si radicano su un’interpretazione del dictum di legittimità, asseritamente disatteso dal giudice del rinvio, che non rinviene nella sentenza rescindente alcun riscontro testuale o propriamente argomentativo in grado di legittimare la tesi dei ricorrenti, ad avviso dei quali, cassando il pregresso deliberato di seconde cure, la Corte avrebbe inteso rendere ineluttabile, ai fini del susseguente giudizio di rinvio e della valutazione che in quella sede il giudice del rinvio avrebbe dovuto rinnovare, il ricorso al metodo di stima analitico-ricostruttivo, con l’ovvio riflesso di rendere nuovamente ricorribile per cassazione la sentenza, che, come quella in esame, se ne fosse discostata.

2.4. Ma valga, a contrasto di ciò, il vero. Premessa l’avvertenza che non si può inferire dalla sentenza che dispone il rinvio più di quanto essa esattamente non dica, va in primo luogo ricordato che nel cassare la decisione di appello in precedenza emessa tra le parti, la Corte si è data premura di enucleare un nutrito elenco di principi a conforto dell’affermazione, ignorata dal decidente appellato, secondo cui “il primo parametro da tenere in considerazione era la destinazione urbanistica delle aree” da valutare, in un primo senso, accertando preliminarmente “se le aree ubicate nelle zone suddette avessero o meno destinazione edificatoria” – “detto accertamento”, prosegue la sentenza, “doveva essere compiuto esclusivamente al lume degli strumenti urbanistici vigenti nel comune all’epoca della irreversibile trasformazione dei terreni (P.R.G.: successivo Piano territoriale paesistico, ed ulteriori vincoli imposti dalla legge statale o regionale, perciò da verificare anche con riferimento all’area inclusa in zona B1 e senza tener conto delle misure di salvaguardia, inidonee ad incidere sul regime di edificabilità delle aree); nonchè ai principi ripetutamente enunciati da questa Corte al riguardo che qui possono riassumersi: 1) ove la zona è concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico, che non ne tollera la realizzazione ad iniziativa privata neppure attraverso strumenti di convenzionamento, la classificazione apporta un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione e che sono, come tali, soggette al regime autorizzatorio previsto dalla vigente legislazione edilizia, con la conseguenza che l’area va qualificata come non edificabile; 2) che pertanto, deve ricondursi a siffatta categoria la destinazione a verde pubblico urbano, pur se attrezzato per il gioco e per lo sport; ed a maggior ragione quella a verde di rispetto ove è preclusa perfino la realizzazione di strutture pubbliche (Cass. 21396/2009; 17995/2009; 4732/2004); 3) che la previsione di un pur limitato indice di fabbricabilità per un’area destinata a uso pubblico e per realizzare esclusivamente strutture pubbliche perciò funzionali all’uso suddetto (nella specie, verde attrezzato) non vale ad attribuirle la natura edificatoria ed a superare il vincolo conformativo imposto dagli strumenti urbanistici (Cass. 2605/2010; 404/2010; 24585/2006; 2812/2006); 4) che a maggior ragione è errato in tali casi avvalersi di un indice medio di edificabilità ricavato da diverse zone omogenee, in violazione del principio dell’edificabilità legale, ed applicabile invece esclusivamente all’interno di una zona omogenea edificabile, come avviene nell’ambito di quelle rientranti un P.E.E.P. onde evitare l’influenza delle scelte dell’espropriante relative alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni, ovvero servizi e infrastrutture, nonchè delle disposizioni interne che direttamente o indirettamente ripartiscono costruzioni e spazi liberi nel singolo fondo da espropriare (Cass. sez. un. 125/2001 e succ.)” – ed in un secondo senso tenendo conto “che l’immobile da realizzare non poteva considerasi avulso dalla zona in cui avrebbe dovuto sorgere, ma doveva rispettarne la destinazione; la quale diviene altresì un limite all’edifica bilità (allorchè consentita:zona B1) importando che anche per stabilire il valore di trasformazione possa essere ipotizzata non qualsiasi tipologia di insediamento, ma soltanto quella espressamente prevista per la zona”, a ciò facendo seguire la conclusiva raccomandazione che “la Corte di rinvio dovrà provvedere ad una nuova valutazione delle aree occupate dal comune di Sant’Agnello attenendosi ai principi esposti”.

La mera lettura della parte motiva della sentenza resa da questa Corte – che si è sopra integralmente riprodotta per quanto qui di interesse – ove sono concentrati i principi di diritto ai quali il giudice del rinvio avrebbe dovuto attenersi, assicura, dunque, che non si rinviene tra essi nessuna enunciazione nel senso preteso della parte, non avendo la Corte preso posizione – e neppure potendo, del resto, come si vedrà – in ordine al fatto che il giudice del rinvio nel rinnovare il proprio apprezzamento di fatto alla stregua dei principi anzidetti avrebbe dovuto pure privilegiare una metodica valutativa in luogo di un’altra.

2.5. Nè, a tacitazione di ogni ulteriore riserva sul punto, indirizza a diversa conclusione osservare che, poco prima di scolpire nei termini riportati il compito del giudice ad quem, la Corte si soffermi sul metodo analitico-ricostruttivo adottato dal precedente giudicante, perchè il rilievo non riveste alcuna decisività nell’ottica auspicata del ricorrente essendo infatti diretto a sottolineare la fragilità ragionamento decisorio che ricorra al criterio di stima in parola senza previamente accertare la destinazione urbanistica del cespite usurpato.

2.6. Va poi ribadito, sempre nella stessa direzione, che, come questa Corte ha già sostenuto in passato, “nella verifica in ordine all’uniformazione del giudice di rinvio al principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, ove sia in discussione, in rapporto all’entità del “petitum” concretamente individuata dal giudice di rinvio, la portata del “decisum” della sentenza di cassazione, il giudice di legittimità deve interpretare la propria sentenza in relazione alla questione decisa e al contenuto della domanda proposta in giudizio dalla parte, con la quale la pronuncia rescindente non può essersi posta in contrasto” (Cass., Sez. 1, 30/09/2005, n. 19212). Sicchè, una volta preso atto che nella sentenza di cui si discute la Corte era stata sollecitata dal Comune ricorrente a cassare la sentenza impugnata perchè aveva divisato, in relazione ai fondi interessati, la “destinazione edificatoria senza considerare: a) che essi rientravano in una zona sottoposta dal Piano urbanistico territoriale dell’area (OMISSIS) a diversi vincoli di in edificabilità assoluta; b) che, in ogni caso erano compresi per la loro maggiore estensione in zona destinata a verde attrezzato e, comunque a verde pubblico, che lì rendeva anche sotto questo profilo inedificabili; c) che il calcolo del loro valore non poteva perciò essere compiuto tenendo conto della loro potenzialità edificatoria, essendo la stessa insussistente”, l’assunto che se ne deve trarre è che dal thema decidendi, come illustrato dal postulante, esulava totalmente la questione della metodica valutativa, tanto perciò da non potersi inferire alcun principio di diritto vincolante sul punto il giudice del rinvio.

2.7. Da ultimo va pure rimarcato, a conforto della neutralità in argomento del pregresso pronunciamento di questa Corte, che neppure intenzionalmente la Corte avrebbe potuto determinarsi diversamente – ed enunciare così un criterio di giudizio a cui avrebbe dovuto attenersi il giudice del rinvio – essendo suo convincimento, da tempo esternato, che potendo la determinazione del valore del fondo seguire indifferentemente la via del metodo sintetico-comparativo, volto ad individuare il prezzo di mercato dell’immobile attraverso il confronto con quelli di beni aventi caratteristiche omogenee, quanto quella del metodo analitico-ricostruttivo, fondato sull’accertamento del costo di trasformazione del fondo, non può stabilirsi tra i due criteri “un rapporto di regola ad eccezione”, essendo perciò “rimessa al giudice di merito la scelta di un metodo di stima improntato, per quanto possibile, a canoni di effettività” (Cass., Sez. 6-1, 31/03/2016, n. 6243). E, dunque, pretendere che il giudice del rinvio sarebbe stato sul punto vincolato dal precedente deliberato di questa Corte, neppure si accorda con la libertà di valutazione che al riguardo è invece stabilmente riconosciuta al giudice del merito.

2.8. Nè, per converso, può inferirsi che il punto sia coperto da giudicato interno, non essendo stata la statuizione in ordine alla metodica valutativa a suo tempo adottata dal giudice d’appello travolta dalla pronuncia rescindente di questa Corte. E ciò per la decisiva ragione, resa ancora più concreta da quanto appena rilevato in ordine alla libertà di scelta di cui gode il giudice di merito nell’adottare l’una o l’altra metodica – o nessuna delle due, come fatto qui dal nostro decidente – ai fini dell’aestimatio richiestagli, che la decisione della Corte, come la stessa ha precisato con l’assorbimento del 4 motivo del ricorso principale relativo al criterio di valutazione del fondo (sintetico-comparativo, piuttosto che analitico-ricostruttivo) utilizzato dalla sentenza impugnata, assorbiva la relativa questione, onde su di essa non può essersi formato alcun giudicato vincolante per il giudice del rinvio.

3.1. Entrambi i ricorrenti, rispettivamente con il terzo motivo del ricorso principale e con la prima parte del primo motivo e con il secondo motivo del ricorso incidentale, contestano il criterio adottato dal giudice del rinvio ai fini dell’aestimatio, sostenendo, il D.L., che, violando l’art. 113 c.p.c. e artt. 2056 e 1226 c.c., la sentenza è pervenuta “senza specifica ed apprezzabile motivazione ad una stima incongrua rispetto al caso concreto e alla determinazione del relativo e principale danno, in termini palesemente sproporzionati per difetto”; i M., che il procedimento logico seguito dal decidente per pervenire a tale conclusione “è del tutto ignoto”, tanto da rendere “la valutazione equitativa compiuta dalla Corte d’Appello del tutto priva di motivazione”.

3.2. Espunta per evidente inconferenza la doglianza riferita alla pretesa violazione dell’art. 113 c.p.c. – a cui peraltro neppure lo stesso deducente sembra credere (“anche a voler prescindere dalla denunziata violazione dell’art. 113 c.p.c., comma 1”, si legge a pa. 26 del ricorso) – per l’intuitiva ragione che “l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa” (Cass., Sez. 3, 30/04/2010, n. 10607) e ricordato previamente che, soggiacendovi la specie ratione temporis, il novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ha ridotto al minimo costituzionale il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione, va detto che le residue doglianze che i ricorrenti argomentano con riferimento alle violazioni di diritto sono invece fondate e meritano perciò di essere accolte.

3.3. E’ dirimente in proposito la considerazione che, sebbene, come si è dianzi rammentato, il giudice di merito goda di un’ampia libertà di scelta nell’adozione dei criteri e delle metodiche di stima ai fini della determinazione del valore dei beni espropriati, nondimeno il giudizio a cui egli perviene non può deflettere dal fondamentale postulato, ancora da ultimo ribadito dalla Corte (Cass., Sez. 3, 25/05/2017, n. 13153), secondo cui qualora proceda alla liquidazione del danno in via equitativa, il giudice di merito è tenuto ad indicare i criteri seguiti per determinare l’entità del risarcimento, diversamente scivolando la sua decisione nel limbo dell’arbitrarietà (Cass., Sez. 3, 4/04/2013, n. 8213), di modo che la lamentata violazione non sussiste solo se la motivazione del provvedimento adottato dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo (Cass., Sez. 4, 7/01/2009, n. 50).

La decisione impugnata ha manifestamente disatteso questo principio, poichè, pur giustificando il ricorso alla liquidazione equitativa del pregiudizio sofferto dai ricorrenti con l’inidoneità dei metodi tradizionalmente impiegati in materia ad offrire un responso “affidabile” – e quindi assolvendo l’obbligo motivazionale commessogli con riguardo alla premessa della liquidazione equitativa operata in concreto -, ha poi sic et simpliciter ritenuto che tanto bastasse non solo a legittimare la scelta compiuta, ma pure ad esaurire il compito motivazionale demandatole, in tal modo cedendo all’errata convinzione che a questo fine fosse bastevole richiamarsi al “quadro di riferimento costituito da non decisivi, ma comunque significativi, dati storici all’uopo utilizzabili come parametri orientativi”. Quei dati, al contrario, possono, infatti, al più, aiutare a dare conto del “perchè” procedere ad una valutazione equitativa, ma non già a chiarire il “come” di quella valutazione, che abbisogna, al contrario, di indicazioni concrete, specifiche e determinate e non può accontentarsi dal mero rinvio ad essi, tanto più se quei dati, in difetto di ogni più sicuro elemento per pervenire alla loro identificazione, debbano essere estrapolati da un panorama di considerazioni valuiative che si dilunga per oltre 20 pagine di motivazione (da pag. 40 a pag. 61 per l’esattezza) e che, lasciando in definitivinterprete arbitro di sè stesso, non chiariscono e non giustificano l’aestimatio in concreto qui operata dal giudice d’appello.

4. Cassandosi, dunque, l’impugnata decisione in parte qua, restano conseguentemente assorbiti anche il quinto motivo del ricorso principale ed il quarto motivo del ricorso incidentale, entrambi intesi a censurare la decisione laddove questa ha ritenuto di premettere alla aestimatio a cui era stata chiamata dal rescindente verdetto di questa Corte il vincolo imposto dal divieto di reformatio in peius.

5.1. Il quarto motivo del ricorso principale e, così pure il terzo motivo dell’incidentale, adombrano una contrarietà dell’impugnata decisione al D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 42-bis, non essendo stato accordato, insieme al ristoro del danno patrimoniale, anche il ristoro per il danno non patrimoniale stabilito dalla norma nella misura forfetaria del valore venale dei beni.

5.2. Il motivo si presta ad un preliminare rilievo di inammissibilità quanto alla deduzione che ne fanno i M., trattandosi, invero, di questione nuova che non costa sia stata sottoposta tempestivamente al vaglio dei pregressi gradi di merito, che sarebbe in ogni caso priva di autosufficienza, non essendo indicato il quomodo ed il quando della sua introduzione e che, ove se ne volesse vedere il pretesto nella deduzione fattane dal solo D.L. – e solo da lui, come rimarca il decidente – renderebbe, in ogni caso evidente il difetto di interesse degli istanti.

5.3. Il motivo è invece infondato quanto al D.L..

La Corte partenopea ha chiarito, ricusando l’argomento che la richiamata disciplina dell’art. 42-bis citato sarebbe applicabile anche oltre i limiti testuali, che “la previsione è applicabile ai soli casi in cui l’immobile illegittimamente occupato e trasformato per scopi di pubblica utilità sia oggetto di un provvedimento di acquisizione sanante che nella specie non risulta adottato dal Comune di Sant’Agnello”, intendendo in tal modo ribadire – in adesione, del resto, ad un convincimento già esternato da questa Corte secondo cui il provvedimento ex art. 42-bis è volto a ripristinare (con effetto “ex nunc”) la legalità amministrativa violata e non già il rimedio rispetto ad un illecito (Cass., Sez. 1, 31/05/2016, n. 11258) – limiti e finalità specifici del rimedio rispetto alla generale previsione della tutela risarcitoria.

Nè è peraltro ravvisabile sotto questo profilo la pure denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c., giacchè le considerazioni in contrario sviluppate dal decidente secondo cui il D.L. “non aveva mai chiesto nei precedenti gradi di giudizio” il risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c., non trovano replica negli atti di parte e, quando mai vi si volesse vederne traccia nella generica postulazione di una condanna del convenuto “al pagamento di ogni altro danno comunque connesso all’occupazione de qua”, la difforme statuizione di primo grado è coperta dal giudicato risultante dal combinato disposto degli artt. 324 e 329 c.p.c., non constando che di essa ne sia avvenuta l’impugnazione.

6. Accogliendosi dunque i ricorsi di entrambe le parti nei limiti di cui in motivazione, la sentenza impugnata va debitamente cassata e la causa va rinviata avanti al giudice a quo ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma 1 e art. 384 c.p.c., comma 2.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa l’impugnata sentenza nei limiti anzidetti e rinvia la causa avanti alla Corte d’Appello di Napoli che, in altra composizione, provvederà pure alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 4 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2018

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