Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3943 del 18/02/2010

Cassazione civile sez. III, 18/02/2010, (ud. 21/01/2010, dep. 18/02/2010), n.3943

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente –

Dott. MASSERA Maurizio – rel. Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 7563/2009 proposto da:

D.B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DEI

PARIOLI 93, presso lo studio dell’avvocato RULLI DIANA, rappresentato

e difeso dall’avvocato BARTOLI ANNA, giusta procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I VIAGGI DEL TURCHESE SRL, in persona dell’amministratrice delegata e

legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE LAZIO

20/C, presso lo studio dell’avvocato DOTTO MASSIMO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIAZZA MASSIMO, giusta

procura alla lite a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 715/2008 del TRIBUNALE di PESARO, depositata

il 21/10/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

21/01/2010 dal Consigliere Relatore Dott. MAURIZIO MASSERA;

è presente il P.G. in persona del Dott. IGNAZIO PATRONE.

La Corte letti gli atti depositati:

Fatto

OSSERVA

E’ stata depositata la seguente relazione:

1 – Con ricorso notificato il 18 marzo 2009 D.B.A. ha chiesto la cassazione della sentenza, non notificata, depositata in data 21 ottobre 2008 dal Tribunale di Pesaro che, in riforma della sentenza del Giudice di Pace, aveva dichiarato che la soc. Viaggi del Turchese aveva diritto al pagamento dell’indennità prevista dalle condizioni generali di vendita allegate al contratto e, per l’effetto, l’aveva condannato a restituire alla medesima Euro 3.568,07 ricevute in forza della sentenza di primo grado.

La società intimata ha resistito con controricorso.

2 – Occorre premettere sul piano generale che, considerata la sua funzione, l’art. 366 bis c.p.c., va interpretato nel senso che per, ciascun punto della decisione e in relazione a ciascuno dei vizi, corrispondenti a quelli indicati dall’art. 360 c.p.c., per cui la parte chiede che la decisione sia cassata, va formulato un distinto motivo di ricorso.

Per quanto riguarda, in particolare, il quesito di diritto, è ormai jus receptum (Cass. n. 19892 del 2007) che è inammissibile, per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, il ricorso per cassazione nel quale esso si risolva in una generica istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunziata nel motivo. Infatti la novella dei 2006 ha lo scopo di innestare un circolo selettivo e “virtuoso” nella preparazione delle impugnazioni in sede di legittimità, imponendo al patrocinante in cassazione l’obbligo di sottoporre alla Corte la propria finale, conclusiva, valutazione della avvenuta violazione della legge processuale o sostanziale, riconducendo ad una sintesi logico – giuridica le precedenti affermazioni della lamentata violazione.

In altri termini, la formulazione corretta del quesito di diritto esige che il ricorrente dapprima indichi in esso la fattispecie concreta, poi la rapporti ad uno schema normativo tipico, infine formuli il principio giuridico di cui chiede l’affermazione.

Quanto al vizio di motivazione, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione; la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cass. Sez. Unite, n. 20603 del 2007).

3. – Con il primo motivo il ricorrente lamenta contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata circa un fatto controverso e decisivo. A prescindere dalla mancanza di un motivo di sintesi formulato secondo il modello di cui alla premessa, è determinante il rilievo che la contraddittorietà della motivazione è ravvisabile solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la “ratio decidendi” che sorregge il “decisum” adottato. Invece il ricorrente lamenta che “le argomentazioni del giudice di secondo grado cozzano inesorabilmente con le richieste formulate dall’odierno ricorrente sino ad incidere sull’erronea ricostruzione dei fatti”. Pertanto non viene denunciata una contraddittorietà intrinseca alla sentenza impugnata, ma una discrasia tra essa e le richieste di parte (vizio da fare eventualmente valere sotto diverso profilo) che ha condotto al travisamento del fatto (vizio non suscettibile di sindacato di legittimità).

Con il secondo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 111, art. 7, lett. d, e art. 13.

La censura risulta inammissibile sia perchè il quesito proposto alla Corte è assolutamente astratto, poichè privo dei necessari riferimenti alla fattispecie concreta e alla motivazione della sentenza impugnata, sia perchè – come sostiene lo stesso ricorrente – la soluzione della questione trattata rende indispensabile l’esame e l’interpretazione del contratto all’origine della controversia.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 1463 c.c..

Facendo leva su una sentenza di questa stessa sezione, egli tratta il tema della sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione. Formula un quesito la cui astrattezza (mancanza di riferimenti al caso concreto) rende inammissibile la censura. Ma, soprattutto, si osserva che dalla lettura degli atti cui la Corte ha accesso diretto (ricorso, sentenza impugnata, controricorso) risulta la novità assoluta del riferimento all’art. 1463 c.c.. Trattasi, dunque, di ipotesi di violazione di legge che non ha formato oggetto di precedente disamina da parte del giudice di merito e che è stata sollevata per la prima volta in sede di legittimità. Ove ciò non fosse, il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione onerava il ricorrente di riferire in quale suo precedente atto avesse trattato il tema e di trascriverne testualmente nel ricorso le parti pertinenti. Con il quarto motivo il D.B. prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 1469 bis, ter e quinquies c.c., nonchè insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo. La questione agitata è l’omissione da parte della Corte territoriale di rapportare la clausola contrattuale posta a fondamento della decisione con altra clausola contrattuale che altera l’equilibrio contrattuale nel caso di recesso del tour operator dal contratto.

Anche questa censura tratta un tema diverso da quelli che risultano trattati in sede di merito, ove si è discusso solo del carattere intrinsecamente vessatorio della prima clausola. Inoltre il problema del bilanciamento delle due prestazioni oggetto del contratto non può trovare una soluzione automatica, ma esso dipende da un valutazione di merito del contenuto e della portata delle rispettive prestazioni e della posizione delle parti che debbono rispettivamente eseguirle.

Il quinto motivo ipotizza violazione del D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 111, artt. 6 e 7, e omessa motivazione sul punto. Il quesito rivela la medesima astrattezza evidenziata riguardo a precedenti censure. Il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello non si è pronunciata sulla domanda di declaratoria di nullità del contratto di viaggio per vizio di forma. L’omessa pronuncia su una domanda o eccezione di carattere sostanziale è censurabile sotto il diverso profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 4. La dizione “vizio di forma” è indubbiamente generica e risulta esplicitata solo in questa sede. Nei giudizi di merito non si è mai posto in dubbio che il contratto de quo rivestisse la forma scritta.

4.- La relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata ai difensori delle parti;

Il ricorrente ha presentato memoria; nessuna delle parti ha chiesto d’essere ascoltata in camera di consiglio;

Le argomentazioni addotte con la memoria si pongono in contrasto con i principi enunciati da questa Corte e, quindi, non inducono a statuizione diversa;

5.- Ritenuto:

che, a seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, il collegio ha condiviso i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione; che il ricorso deve perciò essere rigettato essendo manifestamente infondato; le spese seguono la soccombenza;

visti l’art. 380 bis c.p.c., e art. 385 c.p.c..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 1.000,00, di cui Euro 800,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2010

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