Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 392 del 13/01/2020

Cassazione civile sez. I, 13/01/2020, (ud. 26/11/2019, dep. 13/01/2020), n.392

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 24957/2018 r.g. proposto da:

F.R., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso, giusta

procura speciale allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato Marta

Di Tullio, presso il cui studio elettivamente domicilia in Roma,

alla Via Emilio Faà Di Bruno n. 15-001.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del

Ministro pro tempore.

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE DI CALTANISSETTA depositato in data

01/08/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

26/11/2019 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese.

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Con “decreto” reso 11 agosto 2018, il Tribunale di Caltanissetta confermò il provvedimento reiettivo delle istanze di protezione – internazionale ed umanitaria – emesso dalla competente Commissione Territoriale nei confronti del cittadino pakistano F.R.. In particolare: i) ritenne assolutamente non credibili le sue dichiarazioni; ii) considerò che in Pakistan, regione del Kasmir, zona di provenienza del richiedente protezione, non esisteva alcuna situazione di “conflitto armato interno o internazionale” nel senso fatto proprio dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la sentenza Diakitè del 30 gennaio 2014; iii) giudicò insussistenti i presupposti per la concessione della protezione umanitaria.

2. Contro il descritto “decreto” F.R. propone ricorso per cassazione, affidato a sette motivi. Il Ministero dell’Interno è rimasto solo intimato.

2.1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:

I) la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, per non essere state acquisite e valutate le informazioni circa la situazione del Paese di provenienza dell’odierno ricorrente;

II) la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 17 e art. 2, lett. g), per avere il tribunale nisseno ritenuto insussistente, per il medesimo ricorrente, il rischio di subire un grave danno in caso di rientro nel suo Paese;

III) la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, lett. f), per essere il tribunale a quo venuto meno al suo obbligo di cooperazione istruttoria nel disattendere la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria;

IV) la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 15, commi 1 e 2, artt. 16 e 17, per la inesistenza delle cause di esclusione della protezione sussidiaria alla luce dei principi costituzionali e della giustizia Europea;

V) la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 251 del 2008, art. 32, comma 3, in relazione al mancato riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari;

VI) la violazione dell’art. 3 Cost.;

VII) l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

3. Gli esposti motivi sono suscettibili di una trattazione congiunta, atteso che quelli recanti violazioni di legge sono tutti parzialmente affetti dal medesimo vizio di inammissibilità, per difetto di specificità, rivelandosi, per il resto, infondati, così come il settimo motivo, che lamenta un vizio motivazionale, alla stregua di argomentazioni comuni.

3.1. Invero, va immediatamente ricordato che costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (cfr., ex multis, Cass. n. 22717 del 2019, resa in una controversia del tutto analoga a quella odierna; Cass. n. 24298 del 2016; Cass. n. 5353 del 2007).

3.1.1. Nella specie, invece, le diverse censure rappresentate nei primi sei motivi si risolvono, in larghissima parte, nella generica indicazione di alcune disposizioni di legge che si assumono violate, senza una precisa identificazione delle affermazioni in diritto del “decreto” impugnato che si pretendono contrastanti con le norme regolatrici della fattispecie e senza l’illustrazione di motivate ragioni dell’ipotizzato contrasto e, quindi, in una mera ed apodittica contrapposizione delle tesi del ricorrente a quelle desumibili dal “decreto” predetto.

3.2. Inoltre, le uniche argomentazioni difensive svolte tendono, sostanzialmente, ad una riconsiderazione della situazione imperversante nel contesto di origine del richiedente, recando valutazioni che, impingendo nel merito, sono inammissibili nel giudizio di legittimità, che non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonchè le più recenti Cass. n. 8758 del 2017 e Cass. n. 22717 del 2019, resa, come si è già rimarcato, in una controversia assolutamente analoga a quella odierna).

3.2.1. Dette argomentazioni, infatti, investono la mancata acquisizione di informazioni sulla situazione socio-politica-economica del Paese di provenienza del ricorrente, la valutazione di non credibilità delle dichiarazioni di quest’ultimo, ritenuta espressione di un giudizio soggettivo ed arbitrario, non fondato su elementi oggettivi, il non essersi applicati i principi sull’onere della prova affermati costantemente dalla giurisprudenza sovranazionale e di legittimità con riferimento alla materia della protezione internazionale.

3.2.2. Rileva, però, il Collegio che, come ancora recentemente chiarito da Cass. n. 22717 del 2019, Cass. n. 31481 del 2018 e da Cass. n. 16295 del 2018, in tema di valutazione della credibilità soggettiva del richiedente e di esercizio, da parte del giudice, dei propri poteri istruttori ufficiosi rispetto al contesto sociale, politico e ordinamentale del Paese di provenienza del primo, la valutazione del giudice deve prendere le mosse da una versione precisa e credibile, benchè sfornita di prova (perchè non reperibile o non richiedibile), della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine (cfr. Cass. Cass. n. 21668 del 2015; Cass. n. 5224 del 2013. Principio affatto analogo è stato, peraltro, ribadito dalla più recente Cass. n. 17850 del 2018). Infatti, le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (cfr. Cass. n. 16295 del 2018; Cass. n. 7333 del 2015). Inoltre, Cass. n. 30105 del 2018 ha sancito che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati…”, deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo, per contro, addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte.

3.2.3. Nella specie, il tribunale nisseno ha espresso un giudizio negativo sulla credibilità del richiedente (cfr., amplius, pag. 3-4 del decreto impugnato) sulla base di plurimi elementi ritenuti rilevatori dell’inverosimiglianza ed incoerenza della sua narrazione, in maniera del tutto conforme ai parametri cui l’autorità amministrativa e, in sede di ricorso, quella giurisdizionale, sono tenute ad attenersi ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5. Si tratta, come appare evidente, di accertamenti in fatto, che non possono essere in questa sede messi in discussione se non denunciando, ove ne ricorrano i presupposti (qui, invece, insussistenti), il vizio di omesso esame ex art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnato un decreto reso in data 1 agosto 2018), come delimitato, quanto al suo concreto perimetro applicativo, da Cass., SU, n. 8053 del 2014.

3.2.4. In relazione, infine, alla censura di mancata valutazione del generale contesto politico e ordinamentale del Paese di provenienza, deve rilevarsi che, in ogni caso, la riferibilità soggettiva ed individuale del rischio di subire persecuzioni o danni gravi rappresenta un elemento costitutivo del rifugio politico e della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, ex lett. a) e b), escluso il quale dal punto di vista dell’attendibilità soggettiva, non può riconoscersi il relativo status (cfr. Cass. n. 31481 del 2018).

3.2.5. Inoltre, la decisione oggi impugnata ha, sebbene sinteticamente, esaminato la situazione socio-politica del luogo (Pakistan, regione del Kashmir) di provenienza del richiedente, specificamente indicando le fonti informative a tal fine consultate, onde i motivi in esame sono insuscettibili di accoglimento, in quanto, sostanzialmente, sono volti ad ottenere la ripetizione del giudizio di fatto, attività qui preclusa in virtù della funzione di legittimità.

3.2.6. Circa, infine, la invocata protezione umanitaria, – e premettendosi che tale doglianza va scrutinata alla stregua della disciplina, da ritenersi applicabile ratione temporis (cfr. Cass., SU, nn. 29459-29461 del 2019), di cui al D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6 – va soltanto rimarcato che il tribunale siciliano ha affermato non essere state dedotte gravi ragioni di protezione o situazioni soggettive specifiche, e che questa Corte ha già avuto occasione di chiarire (cfr. Cass. n. 17072 del 2018; Cass. n. 22979 del 2018), che, se assunto isolatamente, il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel paese di provenienza non integra, di per sè solo ed astrattamente considerato, i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, in quanto “il diritto al rispetto della vita privata – tutelato dall’art. 8 CEDU (…) – può soffrire ingerenze legittime da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione ed il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero (…) non goda di uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale (cfr. Corte EDU, sent. 08.04.2008, ric. 21878/06, caso Nnyan.zi c. Regno Unito, par. 72 ss.)”.

4. Il ricorso va, dunque, respinto, senza necessità di pronuncia sulle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, e dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 23535 del 2019 – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2020

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