Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3903 del 18/02/2010

Cassazione civile sez. III, 18/02/2010, (ud. 08/01/2010, dep. 18/02/2010), n.3903

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. FEDERICO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. URBAN Giancarlo – Consigliere –

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 27080/2005 proposto da:

F.F., elettivamente domiciliato in ROMA, L.GO DI

TORRE ARGENTINA 11, presso lo studio dell’avvocato LAZZARETTI ANDREA,

rappresentato e difeso dall’avvocato CAPRIOLI Lucio giusta delega in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

ENEL DISTRIBUZIONE SPA, (OMISSIS), in persona dell’Ing. G.

M.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA C MONTEVERDI

16, presso lo studio dell’avvocato CONSOLO GIUSEPPE, rappresentato e

difeso dagli avvocati LIBRATTI Giuseppe, CORLETO PASQUALE giusta

delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 449/2004 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

Sezione Seconda Civile, emessa il 21/05/2004, depositata il

19/07/2004; R.G.N. 245/2001.

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

08/01/2010 dal Consigliere Dott. CAMILLO FILADORO;

udito l’Avvocato RUGGIERI GIANFRANCO (delega CONSOLO GIUSEPPE);

udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. FEDELI

Massimo, che ha concluso per rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 21 maggio-19 luglio 2004. la Corte di appello di Lecce confermava la decisione del locale Tribunale dell’8 aprile 2000, la quale aveva accolto la domanda dell’ENEL, dichiarando risolto il contratto di somministrazione della energia elettrica stipulato da F.E. con la società, previo accertamento del grave inadempimento del convenuto, e condannato quest’ultimo a pagare la somma di L. 1.972.928 oltre interessi e rivalutazione.

I giudici di appello rigettavano l’eccezione di carenza di legittimazione attiva degli ingegneri P. e M. che avevano sottoscritto la procura speciale rilasciata a margine dell’originale dell’atto di citazione del dicembre 1990, utilizzata anche in grado di appello quando l’ente pubblico non era più esistente.

Rilevava la Corte territoriale che l’ENEL aveva dedotto, con l’atto introduttivo del giudizio, il grave inadempimento del F. ed aveva richiesto la risoluzione del contratto e la condanna al risarcimento dei danni, conseguenti alla fraudolenta sottrazione di energia elettrica, ottenuta mediante manomissione del misuratore dei consumi.

Fondandosi l’azione su un illecito contrattuale, precisavano i giudici di appello, termine di prescrizione doveva considerarsi quello decennale, con decorrenza dal momento in cui l’inadempimento ed il relativo danno si erano concretizzati e si erano resi riscontrabili.

Tale momento, nel caso di specie, doveva essere individuato nella verifica eseguita il 21 febbraio 1981, nel corso della quale era stata accertata la manomissione del contatore (che non era nella disponibilità dell’ente ma presso la abitazione del F.), poichè solo in quella occasione l’Ente aveva preso contezza del danno sopportato per la sottrazione continuata della energia elettrica da parte dell’utente.

Tenuto conto delle lettere interruttive della prescrizione, il termine decennale non era decorso alla data della notificazione dell’atto di citazione.

Neppure il termine quinquennale dell’azione contrattuale da inadempimento poteva dirsi, comunque, maturato, in considerazione del fatto che il F. aveva ricevuto due lettere di messa in mora dell’ENEL, in data 12 aprile 1985 e 24 febbraio 1990 (e che la sentenza penale applicativa dell’amnistia pronunciata nei confronti dell’imputato era divenuta definitiva il 22 febbraio 1985).

La Corte territoriale precisava, poi, che la sentenza del Tribunale penale di Lecce, divenuta irrevocabile, aveva concluso la vicenda processuale a carico del F., imputato di furto aggravato di energia elettrica, con l’applicazione del decreto di amnistia, solo dopo aver accertato che, a seguito della verifica effettuata nella sua abitazione, personale addetto dell’Ente aveva accertato “la forzatura della calotta del contatore e nell’interno la presenza di detriti di materiale plastico”.

Pertanto, il predetto giudice penale aveva accertato la sussistenza del fondamento della imputazione, verificando la ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi del reato, in quanto presupposto logico ed indispensabile per l’applicazione dell’amnistia.

L’autorità del giudicato penale, nel caso di specie, si estendeva al giudizio civile, con la conseguenza che doveva ritenersi provato, anche in questa sede, il fatto concretizzante l’illecito che aveva determinato l’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto e la condanna del F. al risarcimento dei danni.

Nel caso di specie, proseguivano i giudici di appello, sussistevano tutti gli elementi di cui all’art. 1564 c.c., per la declaratoria di risoluzione del contratto per grave inadempimento del F.:

quest’ultimo, infatti, aveva posto in essere una azione fraudolenta, concretizzatasi nella continuata sottrazione di energia elettrica, approfittando della custodia del contatore, e minando gravemente la fiducia del somministrante in ordine alla esattezza dei successivi adempimenti.

L’obbligo di contrarre – stabilito dalla legge a carico degli imprenditori che esercitino servizi di interesse generale in regime di monopolio giuridico – comporta che l’imprenditore debba stipulare il contratto con chiunque faccia richiesta del servizio, usando parità di trattamento a tutti i contraenti in ciascun gruppo di contratti omogenei, secondo le condizioni generali all’uopo previste e risultanti o direttamente dalla legge ovvero dall’atto di concessione ovvero dalla predisposizione, da parte del monopolista, di schemi contrattuali standardizzati, rispondenti al meccanismo di cui agli artt. 1341 e 1342 c.c..

Ciò non esclude, tuttavia, che il contratto rimanga disciplinato dal codice civile, con la conseguenza che è da ritenersi assolutamente efficace e vincolante la clausola risolutiva espressa convenzionalmente prevista per il caso in esame e che poteva farsi ricorso alla normativa di cui all’art. 1564 c.c., per ottenere la risoluzione del contratto.

Per ciò che riguarda la quantificazione del danno, in mancanza di una prova storica inequivoca, i consumi di energia elettrica non registrati per gli ultimi cinque anni – che, in effetti, costituivano la voce più rilevante del danno riportato dall’ENEL a seguito dell’illecito commesso, non potevano che essere calcolati, in via presuntiva, sulla base delle tabelle UTIF, sicuramente affidabili, in quanto provenienti da un pubblico ufficio ed elaborate, nel rigoroso rispetto del principio di normale fabbisogno, dettato nell’ambito del contratto di somministrazione, dall’art. 1560 c.c..

Avverso tale decisione il F. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da sei motivi, illustrati da memoria.

Resiste l’ENEL Distribuzione s.p.a. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente ribadisce le censure già formulate in sede di appello in ordine alla inesistenza di una valida procura, sul rilievo che quella rilasciata a margine dell’atto di citazione nel giudizio di primo grado non poteva estendere la propria efficacia al giudizio di appello.

In altre parole, ad avviso del ricorrente, la procura rilasciata in primo grado ai dirigenti P. e M. dall’ENEL, non sarebbe più utilizzabile in grado di appello, una volta che era intervenuta la trasformazione dell’ente pubblico in società privata, prima ENEL s.p.a. e poi ENEL Distribuzione s.p.a..

Il motivo è privo di fondamento.

La procura alle liti, conferita dall’organi rappresentativo d’una persona giuridica, conserva la propria efficacia quand’anche, nel corso del giudizio, l’organo che aveva rilasciato la procura venga soppresso e sia sostituito da altro e differente organo rappresentativo.

Infatti l’atto contenente il conferimento di procura, una volta che sia stato legittimamente emesso, non è più atto di un organo, bensì dell’ente in cui il primo si immedesima in base al c.d.

rapporto organico, senza che rilevi che tale organo non sia più esistente al momento dell’inizio del procedimento in cui si utilizza l’atto pubblico, in quanto sostituto da un organo diverso (Cass. n. 9992 del 1994. Cass. S.U. n. 761 del 1999). Pertanto, la trasformazione di ente pubblico economico in società per azioni o in altro tipo previsto dalla legge configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale non incide minimamente sui rapporti sostanziali e processuali che ad esso fanno capo.

Ne consegue che le procure alle liti rilasciate dai direttori compartimentali dell’ENEL ovvero dal Presidente dell’ente, in epoca anteriore alla trasformazione dell’ente in società per azioni, conservano la loro efficacia nel giudizio per il quale furono conferite, sebbene conclusosi successivamente alla suddetta trasformazione (Cass. 2679 del 1998).

Costituisce, poi, principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello per cui la procura speciale al difensore rilasciata in primo grado “per il presente giudizio” (o processo, causa, lite etc.) senza alcuna indicazione delimitativa esprime la volontà – seppur implicitamente espressa – della parte di estendere il mandato all’appello, quale ulteriore grado in cui si articola il giudizio stesso, e, quindi, implica il superamento della presunzione di conferimento solo per detto primo grado, di cui all’art. 83 cod. proc. civ., u.c..

Tale norma, infatti, deve considerarsi operante solo quando vengano utilizzati termini assolutamente generici ovvero quando la procura si limiti a conferire la rappresentanza processuale senza alcuna altra indicazione (Cass. n. 2432 del 1999, cfr. Cass. S.U. n. 5528 del 1991).

Il primo motivo deve, pertanto, essere rigettato.

Con il secondo motivo, il F. denuncia la violazione di norme di legge (art. 2935 c.c., art. 2943 c.c., u.c., artt. 1219, 2946 e 2947 c.c.) nonchè contraddittorietà tra motivazione ed effettive risultanze documentali, motivazione inesistente, insufficiente e contraddittoria su punti decisivi della controversia, illegittima valutazione del risultanze processuali (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

In ordine alla eccezione di prescrizione estintiva il giudice di appello, per un verso, si era uniformato acriticamente alle tesi sostenute dall’ENEL; dall’altro, era andato al di là delle ragioni esposte dalla società appellata, così incorrendo, persino, nel vizio di extrapetizione.

L’ENEL non aveva mai richiamato la prescrizione decennale, ma solo quella quinquennale (nel caso di specie interamente decorsa).

Le ricevute delle lettere raccomandate inviate dalla società non recavano la firma del F. nè quella di persone della sua famiglia.

La Corte territoriale aveva errato anche individuando la data di decorrenza della prescrizione, poichè aveva richiamato la sentenza penale che, in realtà, si era limitata a dichiarare la intervenuta amnistia senza entrare nel merito della commissione del fatto.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., ossia del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, violazione dell’art. 429 c.p.c., u.c., ossia violazione del principio di acquiescenza su parte non impugnata della sentenza (rectius art. 329 c.p.c.).

Il primo giudice aveva fatto chiaro riferimento al termine quinquennale di prescrizione, precisando che lo stesso era stato interrotto dalle lettere raccomandate e dalla notificazione dell’atto di citazione.

Questo punto della decisione del Tribunale non aveva formato oggetto di specifica impugnazione incidentale da parte dell’ENEL, che sul punto aveva manifestato la propria acquiescenza.

Pertanto, ritenendo la applicabilità del termine decennale di prescrizione, i giudici di appello avevano introdotto, inammissibilmente, una questione del tutto nuova.

Il secondo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi tra di loro.

Gli stessi non sono fondati.

Con accertamento che sfugge a qualsiasi censura in questa sede, in quanto esente da vizi logici ed errori giuridici, la Corte territoriale ha rilevato che il termine decennale di prescrizione (applicabile per la azione di illecito contrattuale) decorrente dall’accertamento del fatto non era interamente decorso alla data di instaurazione del giudizio civile di primo grado.

Non sussiste, pertanto, neppure il vizio di ultrapetizione denunciato.

Allorquando la parte abbia tempestivamente eccepito prescrizione, così manifestando la propria volontà di avvalersi dell’effetto estintivo del trascorrere del tempo, al giudice è rimessa la identificazione della norma di diritto sulla durata della prescrizione, con riferimento alla fattispecie sostanziale, così come la qualificazione giuridica di quest’ultima.

Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, la riserva alla parte del potere di sollevare l’eccezione implica che ad essa sia fatto onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell’effetto, non anche di indicare direttamente o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell’inerzia) le norme applicabili al caso di specie, l’identificazione delle quali spetta al potere – dovere del giudice, di guisa che, da un lato, non incorre nelle preclusioni di legge la parte che, proposta originariamente un’eccezione di prescrizione quinquennale, invochi nel successivo corso del giudizio la prescrizione ordinaria decennale, o viceversa; e, dall’altro lato, il riferimento della parte ad uno di tali termini non priva affatto il giudice del potere officioso di applicazione (previa attivazione del contraddittorio sulla relativa questione) di una norma di previsione di un termine diverso. (Cass. S.U. n. 10955 del 2002, 3126 del 2003). Con la conseguenza che deve escludersi che, in ipotesi del genere, il giudice possa incorrere nel vizio di ultrapetizione, applicando un tipo di prescrizione in luogo di un’altra, espressamente invocata dalla parte.

I giudici di appello hanno, inoltre, accertato che le lettere di messa in mora del 12 aprile 1985 e 24 febbraio 1990 erano state regolarmente ricevute, ed hanno ricordato che la sentenza penale applicativa dell’amnistia pronunciata nei confronti del F. era divenuta esecutiva in data 22 febbraio 1985. Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, il principio ex art. 183 cod. pen., comma 1, secondo cui, ove il fatto illecito generatore del danno sia considerato dalla legge come reato, la prescrizione (biennale o quinquennale) dell’azione civile risarcitoria decorre, in caso di estinzione del reato per amnistia, dal giorno dell’emanazione del provvedimento di clemenza e non da quello della pronuncia giudiziale (meramente dichiarativa) di applicazione del beneficio, trova deroga nell’ipotesi in cui tale applicazione consegua ad una derubricazione dell’originaria imputazione a seguito dell’esercizio dei poteri decisori del giudice penale.

Di tali principi ha fatto corretta applicazione la Corte territoriale.

Gli stessi giudici hanno, infatti, concluso che quando il F. aveva ricevuto il 5 dicembre 1990 la notifica dell’atto di citazione, neppure la prescrizione quinquennale (applicabile nel caso in cui si fosse voluta ravvisare nel caso in esame una azione risarcitoria da fatto illecito) poteva dirsi maturata interamente.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., artt. 2697, 2943 e 1219 c.c., nonchè motivazione assente, carente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Il F. aveva sempre contestato di avere ricevuto le lettere interruttive della prescrizione e la idoneità delle stesse ad interrompere la prescrizione, sia con riferimento al contenuto che in relazione al mittente.

I giudici di appello avevano ignorato del tutto tali contestazioni, dando per scontate sia la ricezione che la idoneità delle stesse.

Queste censure sono inammissibili, ancor prima che infondate.

I giudici di appello hanno accertato che le lettere di messa in mora risultavano regolarmente ricevute dal F., secondo le ricevute di ritorno prodotte.

Si tratta di accertamento di merito, ampiamente motivato.

In ogni caso, nel caso prospettato dalla parte ricorrente, si verte in un’ipotesi di errore revocatorio, da rimuovere a mezzo dello specifico strumento di impugnazione disciplinato dall’art. 395 cod. proc. civ. (revocazione), rimanendo esclusa la possibilità di avvalersi del ricorso per cassazione che, se proposto, deve essere dichiarato inammissibile (Cass. 5450 del 2006).

Con il quinto motivo si deduce motivazione inesistente, insufficiente e contraddittoria riguardo ad un punto decisivo della controversia, violazione delle norme di diritto, artt. 2697 e 2729 c.c., art. 191 c.p.c., artt. 115 e 116 c.p.c., art. 651 c.p.p., art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

L’ENEL non aveva mai provato i fatti posti a fondamento delle domande. Ciò nonostante i giudici di appello avevano condannato il F. a pagare somme che non avevano alcun riscontro in consumi non registrati.

Solo alla sentenza penale di condanna, ai sensi dell’art. 651 c.p.c., è attribuita la efficacia del giudicato nel giudizio civile di danno.

Non vi era prova alcuna del fatto che calotta e misuratore del contatore fossero stati manomessi.

Gli stessi rilevatori dell’ENEL avevano escluso di aver visto corpi estranei nella calotta ed avevano dato atto che il consumo di energia elettrica vi era stato ed era stato misurato.

Le censure formulate con questo mezzo di impugnazione non colgono nel segno.

Di regola, il proscioglimento per estinzione del reato per amnistia, in quanto prescinde dall’accertamento dei fatti, non pregiudica in alcun modo gli interessi civili del danneggiato: estinto il reato per amnistia, il giudice civile, adito per le restituzioni e il risarcimento del danno, conserva piena ed autonoma facoltà non solo di ricostruire il fatto, ma anche di accertare, agli effetti dell’art 2059 cod. civ., se in esso ricorrano gli elementi costitutivi del reato.

Tale principio incontra, tuttavia, un limite allorchè l’accertamento di merito del giudice penale – come nel caso di specie – sia stato necessario ai fini dell’applicazione dell’amnistia, conseguente all’esclusione di circostanze aggravanti, o al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti. (Cass. Pen. S. 6^, 666 del 1977). Il Tribunale penale di Lecce non si era affatto limitato ad un accertamento in astratto della ricorrenza delle circostante attenuanti, invocate dall’imputato F., ma aveva proceduto ad una attenta verifica della “sussistenza del fondamento della imputazione, verificando la ricorrenza degli elementi, costitutivi del reato, in quanto presupposto logico ed indispensabile per l’applicazione dell’amnistia” (pag. 8 sentenza impugnata), concludendo, infine, che lo stesso giustificava appieno la domanda di risoluzione per grave inadempimento e la condanna del F. al risarcimento dei danni.

In ogni caso, la Corte d’appello civile ha esaminato, sia pure incidentalmente, il fatto contestato al F. concludendo che, in effetti, doveva ritenersi provato il fatto illecito contestatogli in sede penale (furto o sottrazione di energia elettrica continuata).

Con il sesto motivo il ricorrente denuncia violazione di norme di diritto, motivazione carente e contraddittoria su punto decisivo della controversia, art. 1455 c.c. e norme commesse, artt. 115 e 116 c.p.c., art. 2697 c.c..

La sentenza di appello, ad avviso del ricorrente, era del tutto illogica e contraddittoria, nella parte in cui aveva confermato un interesse concreto dell’ENEL alla risoluzione del contratto di somministrazione per grave inadempimento del F..

Il motivo è inammissibile.

Anche in questo ultimo motivo di ricorso, il ricorrente censura una valutazione compiuta dai giudici di merito che appare pienamente motivata.

Si richiama il consolidato insegnamento di questa Corte, secondo il quale, in materia di responsabilità contrattuale, la valutazione della gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive ai sensi dell’art. 1455 cod. civ., costituisce questione di fatto, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, ed è insindacabile in sede di legittimità ove sorretta – come nel caso di specie – da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 1.200,00 (milleduecento/00) di cui Euro 1.000,00 (mille/00) per onorari di avvocato, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2010

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