Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3900 del 11/02/2019

Cassazione civile sez. lav., 11/02/2019, (ud. 17/10/2018, dep. 11/02/2019), n.3900

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16272-2014 proposto da:

F.LLI F. DI F.R. & C. S.N.C., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

GIULIO CESARE 71, presso lo studio dell’avvocato ALOISIA BONSIGNORE,

rappresentata e difesa dall’avvocato CHRISTIAN CONTI, giusta procura

speciale notarile in atti;

– ricorrente –

contro

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO

CESI 72, presso lo studio dell’avvocato PAOLO DE ANGELIS,

rappresentato e difeso dall’avvocato SERGIO INDELICATO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

i avverso la sentenza n. 615/2014 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 12/05/2014 r.g.n. 2701/2011;

Il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

Fatto

RILEVATO

CHE:

La Corte D’appello di Palermo con sentenza del 12.5.204 ha confermato la sentenza del tribunale Sciacca del 2011 che aveva accolto la domanda di A.A. diretta a far accertare il diritto al pagamento di differenze retributive relative al rapporto di lavoro intercorso con la F.LLI F. snc per lavoro subordinato svolto dal 20.1.2004 al 29.7.2005.

Per la corte erano infondati i motivi di gravame svolti dalla società sia con riferimento all’inquadramento spettante, che risultava essere dalle stesse buste paga prodotte quello di carpentiere di 3 livello, sia con riferimento alla maggiorazione per il lavoro straordinario la cui sussistenza non poteva essere esclusa da documentazione che tardivamente la società aveva richiesto di produrre e non acquisita.

Ha ritenuto infine infondato la corte distrettuale l’ulteriore motivo di appello relativo al mancato accoglimento della domanda riconvenzionale svolta dalla società di risarcimento per danno che l’ A. avrebbe causato alla società in violazione dell’art. 2104 c.c. in relazione vizi di costruzione contestati da un cliente. Sono stati altresì respinti gli ulteriori motivi di appello relativi al rigetto in primo grado dell’ulteriore domanda riconvenzionale riferita alla restituzione di somme per le quali la società non aveva provato che fossero state trattenute dall’ A..

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la F.lli F. snc affidato a sei motivi, a cui ha opposto difese con controricorso l’ A..

Sono state depositate conclusioni dal Pm in data 24.9.2018.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

I motivi di ricorso hanno riguardato: 1) l’omesso esame, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, della circostanza che l’ A. era stato dichiarato fallito alla data di introduzione del ricorso di primo e grado e dunque l’omesso esame dell’eccezione di incompetenza funzionale essendo competente il Tribunale fallimentare. Per la ricorrente il difetto di legittimatio ad causam del fallito, dedotto nell’atto di appello era rilevabile d’ufficio e la corte di merito ne ha del tutto omesso l’esame; 2) la violazione a falsa applicazione dell’art. 75 c.p.c., commi 1 e 2, della L. n. 276 del 1942, art. 42, comma 2 e art. 43, comma 1 per non aver rilevato la corte di merito che l’ A., fallito, non avrebbe potuto iniziare il giudizio dinanzi al Tribunale del lavoro, spettando solo al curatore l’esercizio dell’azione; 3) la violazione delle norme sulla competenza con riferimento alla L. Fall., art. 24, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 2, essendo competente in tribunale che ha dichiarato il fallimento; 4) l’omesso esame, art. 360 c.p.c, comma 1, n. 5 in relazione all’art. 421 c.p.c., n. 2 e art. 437 c.p.c., comma 2, del mancato accoglimento da parte del primo giudice della richiesta della società all’udienza di discussione di acquisizione in giudizio della documentazione offerta dalla società, che avrebbe fornito la prova delle annotazioni effettuate dallo stesso A. su tutti i registri dei cantieri circa le sue effettive presenze. Si trattava a dire della ricorrente di documenti relativi a fatti già tempestivamente allegati e per l’accertamento dei quali il giudice avrebbe dovuto esercitare i suoi poteri officiosi ex art. 421 c.p.c.; 5) la violazione e falsa applicazione degli artt. 2104 e 1218 c.c. in relazione alla prova dell’inadempimento dell’ A. nella prestazione lavorativa che aveva comportato la sua responsabilità per i danni procurati al cliente per vizi di costruzione, tenuto conto di quelle che erano le precipue mansioni dell’ A. capocantiere che, implicando obblighi di programmazione, direzione e vigilanza del lavoro in cantiere, non lo rendevano estraneo alla produzione di tali vizi.

Egualmente avrebbe errato la corte di merito nel ritenere che non spettasse all’ A. fornire la prova di non aver trattenuto somme di danaro che risultavano dal medesimo incassate dalla società cliente ma non restituite alla datrice di lavoro; 6) la violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2967 c.c. ed omesso esame, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la corte escluso che fosse idonea a dimostrare l’avvenuto pagamento della retribuzione del mese di aprile 2005 la dizione contenuta sulla busta paga rilasciata la dipendente di “ricevuta”e non “per quietanza”.

I primi tre motivi di ricorso che, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente, non meritano accoglimento.

Va preliminarmente rilevato che il fallito conserva la capacità processuale per tutti i rapporti che non sono acquisibili alla massa; non sono infatti compresi nel fallimento – L. n. 267 del 1992, art. 46, comma 1, n. 2 gli stipendi relativi ad attività lavorativa, sia pure nei limiti di quanto occorre per il sostentamento familiare. Peraltro come statuito da questa Corte (cfr Cass. n. 5571/2011, Cass. n.13991/2017) la perdita della capacità processuale del fallito, conseguente alla dichiarazione di fallimento relativamente ai rapporti di pertinenza fallimentare, essendo posta a tutela della massa dei creditori, ha carattere relativo e può essere eccepita dal solo curatore, salvo che la curatela abbia dimostrato il suo interesse per il rapporto dedotto in lite, nel qual caso il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto ed è perciò opponibile da chiunque e rilevabile anche d’ufficio. Nel caso in esame non risulta che vi sia stato alcun interesse mostrato dalla curatela per la vicenda processuale di cui è causa.

Tardiva è peraltro l’eccezione di incompetenza funzionale ai sensi della L. Fall., art. 24, che risulta svolta solo in grado di appello nel corso della proposizione dell’istanza di sospensiva ai sensi dell’art. 431 c.p.c. da parte della società.

Comunque le azioni attratte nella competenza del tribunale fallimentare sono soltanto quelle promosse da curatore fallimentare per rivendicare diritti di credito vantati dal fallimento, atteso che i diritti di credito vantati dal fallito nei confronti di terzi e quelli che devono essere accertati o divenire oggetto di pronunce di condanna, costituiscono situazioni giuridiche che non derivano dalla procedura concorsuale, sicchè le relative azioni – la cui legittimazione si trasferisce dal fallito al curatore – vanno esercitate o proseguite davanti al giudice ordinariamente competente, senza che, relativamente ad esse, eserciti efficacia la speciale competenza del giudice fallimentare, prevista dalla L. Fall., art. 24(così Cass. n.520/1999, Cass. n.1218/1999).

Il quarto motivo di ricorso risulta inammissibile per difetto di specificità nella sua formulazione, perchè si lamenta un vizio di omesso esame in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, mentre in realtà la ricorrente si duole della violazione degli artt. 421 e 437 c.p.c. per avere la corte distrettuale confermato il giudizio di tardività, già espresso da giudice di prime cure, dell’istanza della società di produzione di documentazione afferente alla riconducibilità all’ A. di attestazioni che provavano le effettive presenze nei cantieri. La censura è comunque inammissibile anche per difetto di autosufficienza, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 non essendo stati trascritti i documenti citati nel ricorso di legittimità al fine di valutarne la sostenuta decisività, ma neanche si è indicata la loro precisa collocazione nei fascicoli dei precedenti gradi di giudizio, onde consentirne comunque un agevole reperimento (Cfr Cass. n. 195/2016).

Egualmente deve formularsi un giudizio di inammissibilità con riferimento alla censure di cui al quinto motivo, atteso che nella sua pur concisa motivazione la corte di merito, ben individuando la causa petendi delle domande risarcitorie svolte dalla odierna ricorrente, ha precisato quanto alla prima domanda che la società non aveva dedotto specificatamente e provato le denunciate inadempienze – consistite in vizi di costruzione in danno del cliente – dell’ A. nello svolgimento delle proprie mansioni. Quanto alla seconda censura la corte territoriale ha precisato che era onere delle società provare che l’ A. si fosse appropriato delle differenze delle somme ricevute dai committenti, non utilizzate per pagare gli operati.

Le doglianze della società in realtà non hanno ad oggetto un’ errata applicazione delle norme – art. 2014 e 1218 c.c. – indicate come violate, ma di fatto censurano le argomentazioni della corte che vengono ritenute insufficienti e finiscono per richiedere un inammissibile riesame del merito.

Deve infine ritenersi infondato anche il sesto motivo di ricorso. La prova del pagamento della retribuzione può essere data solo attraverso una documentazione che attesti effettivamente l’avvenuto pagamento. Ed infatti come statuito da questa corte (cfr Cass. n. 9588/2001) non esiste una presunzione assoluta di corrispondenza della retribuzione percepita dal lavoratore rispetto a quella risultante dai prospetti di paga ed è sempre possibile l’accertamento della insussistenza del carattere di quietanza anche delle sottoscrizioni eventualmente apposte dal lavoratore sulle bust paga.

In particolare è stato poi precisato (così Cass. n. 6767/1998) che la sottoscrizione “per ricevuta” opposta dal lavoratore alla busta paga non implica, in maniera univoca, l’effettivo pagamento della somma indicata nel medesimo documento, e pertanto la suddetta espressione non è tale da potersi interpretare alla stregua del solo riscontro letterale, imponendo invece il ricorso anche agli ulteriori criteri ermeneutici dettati dagli artt. 1362 c.p.c. e segg.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato, seguendo la condanna della ricorrente soccombente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 17 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2019

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