Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3898 del 17/02/2011

Cassazione civile sez. I, 17/02/2011, (ud. 28/09/2010, dep. 17/02/2011), n.3898

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – rel. Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.E. elettivamente domiciliato in Roma, via Nomentana

91, presso l’avv. Giovanni Beatrice, rappresentato e difeso dall’avv.

BEATRICE LUIGI per procura in atti;

– ricorrente –

contro

PREFETTURA DI ROMA, in persona del Prefetto pro tempore;

– intimata –

avverso il decreto del Giudice di Pace di Roma n. 768, in data 23

dicembre 2008. nel procedimento n. 2073/08 R.G.;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28

settembre 2010 dal relatore, cons. Dott. Stefano Schirò;

udito il P.M., in persona del sostituto procuralore generale, Dott.

CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del primo motivo con assorbimento degli altri.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con decreto del 23 dicembre 2008 il Giudice di Pace di Roma rigettava il ricorso proposto da M.E., di nazionalità liberiana, avverso il decreto di espulsione emesso nei suoi confronti dal Prefetto di Roma il 29 agosto 2008 ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, e art, 13, commi 2, lett. b, artt. 13 e 14. A fondamento della decisione, il Giudice di Pace osservava, per quel che rileva nel presente giudizio di legittimità, che la traduzione in lingua inglese del provvedimento di espulsione era autorizzata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, ed era stata ben motivata con l’impossibilità di reperire al momento un interprete della lingua conosciuta dal ricorrente, tenuto anche conto della particolare urgenza del provvedimento, da adottare entro termini perentori ristretti, e dell’impossibilità di sindacare le scelte di opportunità della Pubblica Amministrazione in quanto dettate da superiori interessi pubblici. Inoltre la presentazione della domanda di permesso per motivi umanitari non rappresentava una pregiudiziale all’accertamento del possesso del permesso di soggiorno e all’emissione del decreto di espulsione, in quanto non prevista dalla legge tra le cause di non espulsione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, tenuto conto, che se anche così fosse stato, lo straniero avrebbe potuto protrarre la sua permanenza illegale sul territorio sine die in caso di reiterate domande di permesso. Avverso tale decreto il M. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.

La Prefettura intimata non ha svolto difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente – denunciando violazione di legge e vizio di motivazione e premesso di aver intrapreso davanti al Tribunale di Roma un giudizio avverso il provvedimento di diniego dello status di rifugiato emesso dalla Commissione nazionale per il diritto d’asilo e di aver impugnato il provvedimento di espulsione, deducendo circostanze di fatto idonee a configurare il pericolo di una sua persecuzione per motivi politici e per differenze tribali nello stato di origine, sconvolto da una guerra civile caratterizzata da diffuse atrocità – si duole che il Giudice di pace abbia omessi totalmente di valutare la veridicità dei motivi di pericolo prospettati e di verificarne l’attendibilità, trascurando la denunciata violazione del principio del non refoulement. Afferma al riguardo il ricorrente che la Direttiva 2004/83/CE del Consiglio d’Europa del 29 aprile 2004 prevede le condizioni ed i requisiti oggettivi e soggettivi per l’attribuzione della cosiddetta protezione internazionale, la quale ha un ambito di applicazione distinto e separato dalla normativa convenzionale del rifugio ed impone agli Stati membri l’adozione di tutte le misure amministrative, legislative e giurisdizionali idonee ad evitare che soggetti bisognosi di protezione internazionale siano nuovamente immessi in contesti di elevato pericolo personale. Di conseguenza, ai fini dell’operatività del divieto di espulsione per il pericolo di persecuzione, è imprescindibile un rigoroso esame del materiale probatorio teso al raggiungimento della piena prova in ordine alla condizione personale del soggetto. Soggiunge ancora il M. che, nel proprio ricorso in opposizione al decreto di espulsione, egli ha chiesto di essere ascoltato personalmente per dar modo al Giudice di pace di verificare l’attendibilità dei pericoli denunciati, al fine di accertare se la sua presenza nel territorio italiano trovava titolo nella previsione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, e che invece il Giudice di pace con il decreto impugnato ha abdicato alla propria funzione di accertamento della situazione di fatto invocata, limitandosi ad una valutazione meramente formale del provvedimento impugnato. Formula infine quesito di diritto, chiedendo se il Giudice di pace debba esercitare i poteri istruttori e di indagine propri del processo di cognizione, al fine di accertare la sussistenza di situazioni ostative all’espulsione dello straniero ai sensi e per gli effetti di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione e si deduce che il provvedimento impugnato è illegittimo, in quanto non contiene alcun riferimento alle deduzioni sollevate dal ricorrente ed è totalmente privo di motivazione, mentre la prospettazione, da parte sua. di concreti rischi di persecuzione e di possibili pericoli di trattamenti inumani avrebbe richiesto un approfondito esame da parte del Giudice di pace, il quale avrebbe potuto avvalersi dei poteri di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, e artt. 737 e 738 c.p.c., ma anche “dedurre la situazione di pericolo attraverso un ragionamento di tipo inferenziale e con riferimento altresì al notorio”. Si formula quesito di diritto, con il quale si chiede se il Giudice di pace debba accertare la sussistenza di ragioni umanitarie tali da rendere necessario l’annullamento del provvedimento prefettizio di espulsione.

3. Con il terzo motivo il M., denunciando violazione e mancata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, commi 3 e 7, e vizio di motivazione, si duole che il Giudice di pace abbia escluso l’illegittimità del decreto di espulsione, sebbene questo non fosse stato redatto in una lingua da lui conosciuta, con violazione del diritto dello straniero ad essere posto nella condizione di comprendere il contenuto di un atto idoneo a incidere su di un suo diritto soggettivo. Si formula quesito di diritto, chiedendo se l’impossibilità di traduzione del decreto di espulsione in una delle tre lingue veicolari previste dalla legge richieda una motivazione specifica e circostanziata, che dia conto dell’effettiva ignoranza della lingua italiana da parte dello straniero e della concreta impossibilità di rinvenire un interprete, o se sia sufficiente l’adozione di formule “stereotipate e generiche” che celino eventuali carenze organizzative della Prefettura.

4. Con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, si duole che il Giudice di pace non abbia valutato la ragionevolezza e la proporzionalità del provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale impartito dal Questore di Roma, accessorio al decreto di espulsione e incidente su diritti fondamentali dell’individuo, idoneo, in caso di sua ottemperanza, a esporre l’intimato a concreti pericoli di vita e di persecuzione nel paese di provenienza. Si formula quesito di diritto, con il quale si chiede se il Questore, in sede di emissione dell’ordine di allontanamento dal territorio nazionale, debba valutare i pericoli di vita denunciati in caso di rimpatrio nel paese di provenienza e la concreta possibilità di ottemperanza da parte dello straniero destinatario del provvedimento.

5. Il primo e il secondo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto attinenti a questioni strettamente connesse, sono fondati. Il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, dispone che “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”. A tale riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 2009/19393), con orientamento che il collegio condivide e a cui intende dare continuità, hanno affermato che “La situazione giuridica soggettiva dello straniero che richieda il permesso di soggiorno per motivi umanitari… gode quanto meno della garanzia costituzionale di cui all’art. 2 Cost.. sulla base della quale, anche ad ammettere, sul piano generale, la possibilità di bilanciamento con altre situazioni giuridiche costituzionalmente tutelate…” deve escludersi “…che tale bilanciamento possa essere rimesso al potere discrezionale della pubblica amministrazione, potendo eventualmente essere effettuato solo dal legislatore, nel rispetto dei limiti costituzionali. A tali conclusioni è pervenuta la giurisprudenza di questa Corte rispetto alle analoghe situazioni del diritto di asilo e di quello al riconoscimento dello status di rifugiato rispetto alle quali il provvedimento giurisdizionale non ha natura costitutiva, ma dichiarativa” (Cass. n. 4764/1997, 907/1999, 5055/2002, 8423 e 11441/2004).

L’identità di natura giuridica del diritto alla protezione umanitaria, del diritto allo status di rifugiato e del diritto costituzionale di asilo, in quanto situazioni tutte riconducibili alla categoria dei diritti umani fondamentali, trova riscontro nell’espressa disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, il quale individua la situazione che impone il divieto di espulsione e respingimento (e che pertanto legittima il diritto al soggiorno per un motivo che non può non definirsi di natura umanitaria) con riferimento alla possibilità che lo straniero subisca persecuzioni per le ragioni dalla norma indicate, con formulazione solo marginalmente diversa da quella utilizzata dalla convenzione di Ginevra per descrivere i presupposti per la concessione dello status di rifugiato. Nè contraddice tali rilievi la circostanza che, secondo un orientamento di questa corte (Cass., n. 4725/2007, 3732/2004), la disposizione dell’art. 19 dovrebbe essere letta in connessione con il successivo art. 20, il quale prevede, come limite all’apprezzamento del giudice, l’avvenuta adozione del decreto del presidente del consiglio dei ministri, d’intesa con tutti i ministri interessati, di misure temporanee da adottarsi, anche in deroga della disciplina generale dell’immigrazione, per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità.

Infatti, tale orientamento non appare univocamente seguito (v.

infatti Cass. n. 16417/2007, che ha ritenuto del tutto autonomo l’accertamento della sussistenza del fatto persecutorio) e ha formato oggetto di persuasivi rilievi da parte della dottrina la quale ha evidenziato che l’art. 20 riguarda situazioni collettive ed autorizza deroghe alla ordinaria disciplina dell’immigrazione in favore della generalità di soggetti nei cui confronti si siano verificati gli eventi indicati nella disposizione, mentre l’art. 19 ha ad oggetto situazioni meramente individuali.

“L’identità della natura giuridica di tutte le situazioni soggettive inquadrabili nella categoria dei diritti umani fondamentali, che deve essere affermata sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina interna vigente ancor prima del 20 aprile 2005…” (data di entrata in vigore del regolamento approvato con D.P.R. n. 303 del 2004, che all’art. 21, ha previsto espressamente che le richieste di riconoscimento dello status di rifugiato proposte anteriormente al 20 aprile 2005 sono decise in applicazione della disciplina previgente) “… ha, inoltre, trovato espressa conferma nelle norme interne di attuazione delle direttive 2004/83/CE e 2005/85/CE, di cui, rispettivamente, al D.Lgs. n. 251 del 2007, e D.Lgs. n. 25 del 2008 (parzialmente modificato con il D.Lgs. n. 159 del 2008). L’art. 32 del primo testo normativo ha attribuito le vai illazioni relative ai presupposti per la concessione dei permessi di soggiorno umanitari alle stesse commissioni territoriali competenti per l’accertamento dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato e la concessione della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, lett. e), mentre l’art. 34, ha stabilito l’equivalenza degli effetti delle dette misure di protezione sussidiaria e dei permessi di soggiorno per ragioni umanitarie. Appare evidente che la ratio di entrambe le norme è individuabile proprio nell’accertata identità di natura delle situazioni giuridiche e che la nuova disciplina appare, sul punto, avere più una funzione ricognitiva e chiarificatrice che innovativa.

In conclusione, la situazione giuridica dello straniero che richieda il rilascio di permesso per ragioni umanitarie ha consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali garantiti dall’art. 2 Cost.” (v. anche, in senso conforme, Cass. 2010/10636).

5.1. Il decreto del Giudice di Pace di Roma in questa sede impugnato – nell’affermare che la presentazione della domanda di permesso per motivi umanitari non rappresentava una pregiudiziale all’accertamento del possesso del permesso di soggiorno e all’emissione del decreto di espulsione, in quanto non prevista dalla legge tra le cause di non espulsione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, tenuto conto, che se anche così fosse, lo straniero potrebbe protrarre la sua permanenza illegale sul territorio sine die in caso di reiterate domande di permesso, e nell’omettere di pronunciarsi sul concreto pericolo, prospettato dall’opponente, di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di espulsione nel paese di origine, pericolo concreto che, se accertato, avrebbe comportato una situazione ostativa all’espulsione dello straniero – non si è uniformato al disposto del citato D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, e ai principi di diritto in precedenza enunciati, atteso che l’istituto del divieto di espulsione o di respingimento previsto dalla richiamata disposizione costituisce una misura di protezione umanitaria a carattere negativo, che conferisce, al beneficiario il diritto di non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale, spettando al giudice di valutare in concreto la sussistenza delle allegate condizioni ostative all’espulsione o al respingimento (Cass. 2004/8423;

2010/10636).

6. Il terzo motivo è invece infondato. Premesso che il quesito di diritto che illustra la censura contiene un errore materiale, in quanto fa riferimento all’impossibilità “di traduzione del decreto di espulsione dal territorio nazionale in una delle tre lingue veicolari previste dalla legge”, mentre risulta dal decreto impugnato che il provvedimento di espulsione è stato tradotto in lingua inglese e la doglianza svolta nel motivo di ricorso qui esaminalo attiene alla mancata comunicazione all’interessato di detto provvedimento in lingua da lui conosciuta, ritiene il collegio che, in tema di espulsione amministrativa dello straniero, l’obbligo dell’autorità procedente di tradurre la copia del relativo decreto nelle lingua conosciuta dallo straniero stesso è derogabile tutte le volte in cui detta autorità attesti e specifichi le ragioni tecnico – organizzative per le quali tale operazione sia impossibile, e si imponga, per l’effetto, la traduzione nelle lingue predeterminate dalla norma di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, (francese, inglese, spagnolo), tale attestazione essendo, nel contempo, condizione non solo necessaria, ma anche sufficiente a che il decreto di espulsione risulti immune da vizi di nullità, non specificando il citato art. 13 i casi di impossibilità, ovvero i parametri generali ai quali essa va ragguagliata, e non potendo il giudice di merito sindacare le scelte della P.A. (Cass. 2003/5732;

2003/18040; 2004/10567; 2004/20779; 2010/17572). Il decreto impugnato – nell’affermare che la traduzione in lingua inglese del provvedimento di espulsione era autorizzata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, ed era stata ben motivata con l’impossibilità di reperire al momento un interprete della lingua conosciuta dal ricorrente, tenuto anche conto dell’impossibilità di sindacare le scelte di opportunità della Pubblica Amministrazione in quanto dettate da superiori interessi pubblici – si è uniformato al principio sopra enunciato e si sottrae pertanto alle infondate censure del ricorrente.

7. E’ infine inammissibile il quarto motivo di ricorso, in quanto il quesito di diritto che lo illustra si riferisce all’ordine di allontanamento dello straniero disposto dal Questore di Roma, ma non al decreto del Giudice di pace, ed è quindi privo di attinenza con la decisione impugnata.

Le considerazioni che precedono conducono all’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, al rigetto del terzo motivo e alla dichiarazione d’inammissibilità del quarto, con conseguente annullamento del decreto impugnato in ordine alle censure accolte.

Poichè sono necessari ulteriori accertamento di fatto in ordine alla sussistenza degli allegati elementi ostativi all’espulsione del M., la causa deve essere rinviata ad altro giudice, che si individua nel Giudice di Pace di Roma in persona di diverso giudicante, che riesaminerà il ricorso alla luce dei principi in precedenza enunciati e provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi due motivi, rigetta il terzo e dichiara inammissibile il quarto. Cassa il decreto impugnato in ordine alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al Giudice di pace di Roma in persona di diverso giudicante.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2011

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