Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3888 del 08/02/2019

Cassazione civile sez. un., 08/02/2019, (ud. 25/09/2018, dep. 08/02/2019), n.3888

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Primo Presidente f.f. –

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente di sez. –

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente di sez. –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCRIMA Anonietta – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9054-2018 proposto da:

P.P.S., domiciliata in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

BRUNO GANINO;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA

GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 15/2018 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 23/01/2018;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/09/2018 dal Consigliere ANTONIETTA SCRIMA;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale

FINOCCHI GHERSI RENATO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione in data 26 settembre 2008 e il Ministro della Giustizia in data 9 ottobre 2008 promossero azione disciplinare nei confronti della dott.ssa P.P.S. “incolpata dell’illecito disciplinare di cui all’art. 1 in relazione al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 4, lett. d) per avere gravemente mancato ai doveri di magistrato – il cui status permane anche in periodo di sospensione delle funzioni – ed in particolare a quelli di correttezza, imparzialità ed equilibrio in un contesto territoriale corrispondente a quello dove aveva svolto le funzioni giurisdizionali ponendo in essere comportamenti, anche in violazione dei precetti penali, idonei a ledere l’immagine del magistrato mediante ripetuti episodi di aggressione verbale e minaccia a pubblico ufficiale in danno di agenti della Polizia di Stato e Carabinieri, che, nell’esercizio delle loro funzioni, si erano recati presso la sua abitazione in (OMISSIS), ove (la stessa) era astretta agli arresti domiciliari”.

Nel riportato capo di incolpazione si fa riferimento ai fatti commessi in (OMISSIS) e descritti nel decreto di citazione a giudizio del 7 maggio 2008 del Procuratore della Repubblica di Salerno competente ex art. 11 c.p.p. nel procedimento penale n. 6035/2007.

Con i quattro capi di imputazione, riprodotti nel provvedimento con il quale la Sezione Disciplinare dichiarò sospesi i termini del procedimento disciplinare per pregiudizialità penale il 28 ottobre 2009, si contestava, in particolare, quanto segue:

– con il capo a) il delitto di cui all’art. 337 c.p. perchè, per opporsi all’attività di controllo posta in essere dall’agente scelto della Polizia di Stato B.C. e dall’agente D.C.P., entrambi in servizio di volante di turno posto fisso di Polizia di Stato di Tropea nei confronti di P.P.S., all’epoca dei fatti sottoposta alla misura cautelare personale degli arresti domiciliari, la medesima profferiva nei confronti dei predetti ufficiali di Polizia Giudiziaria nell’esercizio delle loro funzioni, con tono minaccioso, la frase: “Dobbiamo finirla con queste porcate, io non sono una criminale, i criminali li mandavo in galera. I vostri superiori sono dei delinquenti, mi avete fatto fare due mesi e mezzo di galera, sono una persona onesta, le persone che venivano a trovarmi venivano soltanto per consigli e quello che avete trovato in garage erano dei regali, fatti da queste persone. A differenza dei miei colleghi sono ricca di famiglia, di provenienza benestante e superiore all’intelligenza dei miei colleghi. Andate a controllare”; etc.;

– con il capo b) il delitto di cui all’art. 337 c.p., perchè, per opporsi all’attività di controllo posta in essere dall’appuntato C.F., in servizio presso i Carabinieri di Tropea, servizio Radiomobile, la P. profferiva nei confronti di questi la frase: “A quest’ora, ma non è normale, questi controlli? Avete paura che scappo? Nemmeno ai pregiudicati si fanno questi controlli. Oggi è la terza volta che venite a controllarmi. Lo so perchè venite, so io a chi devo farlo presente”;

– con il capo c) il delitto di cui all’art. 337 c.p. perchè, per opporsi all’attività di controllo posta in essere dall’assistente della Polizia di Stato M.D. e dall’assistente M.F., entrambi in servizio di volante di turno, la medesima P. profferiva nei confronti dei citati ufficiali di Polizia Giudiziaria la frase: “Ma non sapete che non siete voi preposti al mio controllo? Ditelo a quei coglioni dei vostri superiori, adesso dovete pure entrare? Dai, forza sbrigatevi E secondo voi faccio entrare qualcuno? Perchè non andate a controllare i miei vicini? Ecco perchè poi sparano alla Polizia e vi sparano addosso. I vostri superiori fanno i ganzi con i mafiosi e io sono stata arrestata perchè sono stata troppo onesta. Quando esco non finisce qua, e adesso uscite”;

– con il capo d) ancora il delitto di cui all’art. 337 c.p. perchè, per opporsi all’attività di controllo posta in essere dal carabiniere Tronchese e dal carabiniere scelto Mo., in servizio presso i Carabinieri Stazione di Tropea, l’imputata profferiva nei confronti dei citati ufficiali la frase: “Vergognatevi, andate a controllare i pregiudicati. Chi vi manda lo so chi è, è quel coglione di R., non voglio dire altro, vergognatevi. Due ore fa è venuta a controllarmi la Polizia, quando ritornerò ad essere chi ero una volta la pagherete cara voi, chi vi manda e quell’altro coglione. Poi vedrete, vergognatevi, e adesso andatevene da casa mia”.

Il procedimento penale si concluse con la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Salerno, depositata il 7 settembre 2015, passata in giudicato il 1 febbraio 2016, che, in riforma della decisione del Tribunale di Salerno, che aveva condannato la P. alla pena di sei mesi di reclusione, assolse la predetta dalle imputazioni di cui ai capi a) e b) perchè il fatto non sussiste, mentre, avuto riguardo ai capi c) e d) della imputazione, riqualificati i fatti contestati e ritenuto il reato di cui all’art. 612 c.p., art. 61 c.p., n. 10, dichiarò non doversi procedere nei confronti di P.P.S. per difetto della necessaria condizione di procedibilità.

All’esito del citato procedimento penale, in data 8 maggio 2009, il Procuratore Generale della Corte di Cassazione chiese alla Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura la fissazione della data della discussione orale del procedimento disciplinare nei confronti della dott.ssa P. già iniziato e poi sospeso, come sopra indicato.

La Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza n. 15/2018, depositata il 23 gennaio 2018, ha dichiarato “la dott.ssa P.P.S. responsabile della incolpazione disciplinare a lei ascritta limitatamente ai fatti di cui ai capi c) e d) del decreto di citazione a giudizio del 7 maggio 2008 nel procedimento penale Procura di Salerno n. 6035/07 – mod. 21, integralmente richiamato nel capo di incolpazione” e l’ha condannata alla sanzione della censura; ha assolto la dott.ssa P. dagli ulteriori addebiti per essere gli stessi rimasti esclusi.

Avverso tale sentenza della Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura la dott.ssa P. ha proposto ricorso per cassazione con atto depositato presso il Tribunale di Vibo Valentia in data 28 febbraio 2018, basato su tre motivi.

Nessuno ha svolto attività difensiva per le controparti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo è così rubricato: “Nullità della sentenza CSM nr 15/2018 ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett e) in riferimento agli errori in essa contenuti, che la rendono intrinsecamente contraddittoria e manifestamente illogica e non rispondente ai fatti oggetto di giudizio, nonchè violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) per contrasto con il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 4, lett. d) e in riferimento all’omessa motivazione circa l’eventuale sussistenza di ipotetico e non percorribile reato di minaccia, contro l’art. 546 c.p.p., lett. e)”.

Sostiene la ricorrente che vi sarebbe contraddizione tra la parte relativa allo “svolgimento del processo” della sentenza impugnata (pag. 2), in cui è scritto che il PG e il Ministro promossero azione disciplinare nel 2008 “nei confronti della dott.ssa P.P.S., incolpata dell’illecito disciplinare di cui all’art. 1 in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett. d) per avere mancato ai doveri di magistrato e in particolare a quelli di correttezza, imparzialità ed equilibrio in un contesto territoriale corrispondente a quello dove aveva svolto le funzioni, giurisdizionali…”, e quanto indicato “in dispositivo dove si richiamano le imputazioni penali di resistenza i fatti di cui, ai capi C e D del decreto di citazione a giudizio del 7 maggio 2008 nel procedimento penale di Salerno nr 6035/2007 – mod 21 -, imputazioni penali e non disciplinari, dalle quali comunque la dott.ssa P. è stata assolta”.

Inoltre, la ricorrente sostiene che vi sarebbe “palese forzatura ed errata applicazione dell’art. 1 Legge sugli illeciti disciplinari, i quali richiedono che le condotte del soggetto si riferiscano ad esercizio attuale di funzioni giurisdizionali, – o ad esse correlate laddove la sentenza fa riferimento a condotte pregresse ai fatti di cui alle imputazioni penali e dunque irrilevanti al momento delle stesse”; evidenzia che la dott.ssa P., alla stregua delle norme disciplinari in vigore, mai avrebbe potuto essere nuovamente destinata a funzioni giurisdizionali a Vibo Valentia e che, nel testo definitivo della riforma in tema di procedimento disciplinare dei magistrati, privilegiandosi un sistema di tipicizzazione secca o integrale, è stata abrogata la norma di chiusura che consentiva la configurazione di un illecito disciplinare generico del magistrato che non fosse incluso nelle previsioni di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 2 e 3.

La ricorrente denuncia, altresì, la nullità della sentenza impugnata per contraddittorietà interna e difetto assoluto di motivazione con riferimento al punto 3.4 della decisione (vedasi pag. 6), in cui si afferma, per escludere la sussistenza dell’art. 3-bis D.Lgs. citato, “che la condotta disciplinare irrilevante va identificata una volta accertata la realizzazione della fattispecie tipica”, in quanto sostiene la P. che, nella fattispecie all’esame, nell’ambito della pronuncia disciplinare, nulla risulterebbe accertato per le ritenute ipotesi di minaccia di cui alla derubricazione, evidenziando che sarebbe la stessa sentenza impugnata a ritenere necessaria una verifica dei fatti ascritti onde escludere la causa di esclusione di punibilità di cui all’art. 3-bis già indicato.

Infine, la ricorrente rappresenta che, nel dispositivo, la sentenza impugnata dichiara l’incolpata “responsabile della incolpazione disciplinare a lei ascritta limitatamente ai fatti di cui ai capi C e D del decreto di citazione a giudizio del 7 maggio 2008 nel procedimento penale della Procura della Repubblica di Salerno n 6035/07 mod 21, integralmente richiamato nel capo di incolpazione…”, senza avvedersi che i delitti di resistenza a pubblico ufficiale ascritti originariamente sub capi C) e D) della imputazione penale erano stati derubricati in minaccia, sicchè sussisterebbe anche a tale riguardo nullità della pronunzia ed omissione di motivazione.

2. Il secondo motivo è così rubricato: “Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. a) e b), in relazione al denegato difetto di giurisdizione in capo al CSM, in funzione disciplinare nella vicenda de qua, che riguardava un magistrato sottoposto a processo penale, per questo sospeso dal servizio, per condotte riferibili all’ambito della vicenda penale, il tutto in contrasto con il D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 1, 2 e 3. Violazione art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza di motivazione”.

Sostiene la ricorrente che, come già evidenziato dinanzi al CSM, a suo avviso “la fattispecie concreta esula dalle ipotesi di giurisdizione consentita al CSM, poichè non risponde ad alcun parametro di cui agli artt. 1, 2 e 3 Legge Disciplinare”, essendo escluse da ogni possibile giurisdizione disciplinare le condotte private del magistrato non tipizzate secondo i parametri di cui agli artt. 2 e 3, difettando nella specie l’esercizio delle funzioni in atto al momento del fatto, che la ricorrente qualifica come vera e propria condizione di procedibilità.

Sostiene la ricorrente che la risposta fornita dal CSM alle sue doglianze a tale riguardo (v. punto 3.3 della sentenza impugnata “… il presupposto dell’esercizio della potestà punitiva è l’appartenenza all’ordine giudiziario, che non cessa con la sospensione o con il conseguente collocamento fuori ruolo”, anche in rapporto alle funzioni che il magistrato potrà tornare a svolgere) sarebbe contraddetta dalle norme in vigore, avendo la L. n. 269 del 2006 cancellato il comma 2 del Decreto Mastella, art. 1 che prevedeva che “il magistrato, anche fuori dall’esercizio delle funzioni non deve tenere comportamenti, ancorchè legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria” ed essendo stato altresì abrogato l’art. 2, comma 1, lett. i) relativo agli illeciti extrafunzionali che sanzionava “ogni altro comportamento, tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato anche sotto il profilo dell’apparenza (art. 3, lett. I)”.

Secondo la ricorrente, all’attualità, gli illeciti sono stati tipicizzati solo con enunciazione dei doveri nell’esercizio delle funzioni ex art. 1 (“Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio”) e ciò al fine di non limitare oltre ogni misura la libertà del cittadino magistrato che si tradurrebbe in un vulnus alle sue libertà fondamentali, tutelate costituzionalmente.

Quindi, ad avviso della ricorrente, sarebbero escluse da ogni possibile giudizio disciplinare le condotte private del magistrato non tipicizzate secondo i parametri di cui agli artt. 2 e 3.

Secondo la P., “il dato delresercizio delle funzioni” in atto al momento del fatto – e non di quelle eventuali future o di quelle passate come si legge nella decisione disciplinare nr. 15/20018 -, che si ritiene illecito extra funzionale, non costituisce anche alla luce della legge delega del D.Lgs. n. 109 del 2006 un dato meramente classificatorio rispetto alla tripartizione di illeciti funzionali ex art. 2, extra funzionali ex art. 3 e da illecito penale ex art. 4, ma una vera e propria condizione di procedibilità dell’azione disciplinare”.

In realtà, ciò che rileverebbe e costituirebbe – secondo la ricorrente – “il discrimine circa la sfera di giurisdizione non è la semplice appartenenza all’ordine giudiziario, che costituisce una precondizione necessaria dell’azione disciplinare, ma l’esercizio attuale di funzioni giurisdizionali o che sono comunque connesse alla qualità di magistrato, dunque un’appartenenza alla magistratura, qualificata da funzioni in atto”.

La ricorrente lamenta, quindi, sul punto una carenza motivazionale.

3. Con il terzo motivo “in linea gradata rispetto alle due prime questioni, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), si eccepisce l’inconfigurabilità in concreto della fattispecie L. n. 209 del 2006, ex art. 4, lett. d) la mancanza di motivazione sulla consistenza delle minacce e l’erronea applicazione del principio di diffusività della notizia, nonchè mancata menzione delle modalità arbitrarie dei controlli”.

Sostiene la ricorrente che, comunque, sarebbe “non configurabile, non provata e non motivata la condanna per l’incolpazione ex art. 4, lett. d), anche in riferimento al contesto di aperta esagerazione e per l’assenza di diffusività della notizia”.

Lamenta la P. che la motivazione della sentenza impugnata non spenderebbe neppure una parola sulla circostanza della totale esclusione, in sede penale, delle ipotesi di resistenza, anche per le imputazioni sub c) e d) della rubrica penale nella sentenza definitiva che costituirebbe il presupposto sine qua non del procedimento disciplinare in oggetto, il che renderebbe inapplicabili le ipotesi ex art. 4, lett. a), b) e c) e potrebbe rendere anche nullo ed inconfigurabile l’addebito disciplinare che sarebbe stato modulato rispetto ai reati indicati nella citazione penale.

Assume poi la ricorrente che l’addebito, come elevato nel decreto di fissazione dell’udienza disciplinare – che fa riferimento alle originarie imputazioni penali di resistenza, anzichè all’esito del procedimento penale, che le ha totalmente escluse e dunque non avrebbe potuto neppure così formularsi, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett. d) – sarebbe “connotato da nullità dando origine anche alla nullità del dispositivo”.

Deduce poi la ricorrente che, mentre nelle ipotesi di condanna, l’illecito disciplinare ex art. 4, lett. a) sarebbe automaticamente integrato per i delitti dolosi e sarebbe da valutare per i delitti colposi e le contravvenzioni, nel caso della lettera d) occorrerebbe sempre, per la sua ricorrenza, che i fatti-reato siano accertati o dal giudice penale o da quello disciplinare; sostiene che, nella specie, il teorico fatto-reato di minacce non sarebbe stato minimamente accertato dal giudice penale per difetto della querela, nè si rinverrebbe alcuno spunto motivazionale nella pronunzia impugnata in questa sede.

Sostiene la P. che la fattispecie concreta, per la quale non esiste un procedimento su tale reato, avrebbe meritato una congrua motivazione circa la consistenza di minacce, a suo avviso inconfigurabili e lamenta, quindi, il difetto di qualunque motivazione sul punto (a parte il riferimento “al tenore minatorio”) nella sentenza impugnata, il che la renderebbe nulla.

Evidenzia, altresì, la ricorrente che la Sezione Disciplinare, forse anche fuorviata dall’errata incolpazione, che si riferiva alle originarie imputazioni penali e non, come dovuto – trattandosi di illecito disciplinare da reato – all’esito del processo penale, avrebbe obliterato il dato fondamentale del difetto di querela in relazione al reato di minaccia, il che renderebbe “ex se difficilmente configurabile persino in teoria l’addebito ex art. 4, lett. d)”.

Infine, rappresenta la P. che un altro elemento necessario per integrare l’incolpazione ex art. 4, lett. d) sarebbe la diffusività della notizia e che nella specie non si sarebbe verificata alcuna divulgazione giornalistica su carta o on line, il processo per le resistenze si è celebrato a Salerno, dove nessuno del pubblico conosceva la dott.ssa P. nè ha capito che trattavasi di un magistrato, sicchè la notizia sarebbe rimasta nella sfera privata dell’interessata. Pertanto, ad avviso della ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe “distonica rispetto al concetto di diffusività che richiede una potenzialità espansiva generalizzata nei consociati, fuori controllo, totalmente avulsa dal caso di specie” e, quindi, “anche per tal verso non sussiste(bbe) l’addebito ex art. 4, lett. d)”.

4. Va anzitutto rilevato che permane tuttora l’interesse della ricorrente alla decisione del ricorso all’esame e, quindi, l’ammissibilità di quest’ultimo, nonostante l’intervenuta sentenza di queste Sezioni Unite n. 22427, depositata il 21/09/2018, con cui è stato dichiarato inammissibile il ricorso proposto personalmente dalla P. e rigettato quello proposto dal difensore della stessa avverso la sentenza della Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura n. 113/2017, depositata il 28 luglio 2017, con cui la ricorrente è stata condannata alla sanzione della rimozione, non risultando, alla data della decisione della presente sentenza, se sia già stato emesso il decreto del Presidente della Repubblica di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 11 come evidenziato dal P.G. nella discussione orale (Cass., sez. un., 12/06/2017, n. 14552).

5. I tre motivi proposti, che, per connessione, possono essere esaminati congiuntamente, sono tutti infondati.

5.1. Seguendo l’ordine logico va esaminata per prima la questione di “giurisdizione” sollevata con il secondo motivo.

Le doglianze proposte al riguardo sono infondate in base agli assorbenti rilievi che seguono. Queste sezioni Unite hanno già avuto modo di precisare (Cass., sez. un., 23/12/2009, n. 27292, in tema di responsabilità disciplinare di magistrati collocati fuori ruolo) che “le due norme (n.d.r., D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 2 e 3) non hanno se non in modo molto limitato la funzione di distinguere, a fini disciplinari, i magistrati a seconda dell’esercizio o meno delle funzioni giudiziarie, ma il diverso senso di prevedere ipotesi di responsabilità disciplinare che possono rilevare a prescindere dal fatto che il magistrato che le ponga in atto eserciti o meno le funzioni stesse, senza peraltro escludere che chi in atto non eserciti funzioni giudiziarie non possa essere per ciò solo chiamato a rispondere delle ipotesi di cui agli artt. 1 e 2 decreto ricordato…, ciò che rileva, ai fini della responsabilità disciplinare, è lo status dell’appartenenza all’Ordine giudiziario, che non viene meno per il fatto che al magistrato siano state conferite funzioni amministrative, segnatamente in ragione del fatto che, nel caso che ne occupa, come si rilevava dianzi, solo la qualifica di magistrato ha consentito il conferimento di tali funzioni.

La stessa Corte costituzionale (v. sentenza n. 224 del 2009), come del resto le Sezioni unite penali di questa Corte (v. sentenza n. 7992 del 2005), hanno chiaramente ribadito, sotto profili diversi ma in definitiva convergenti, il concetto secondo cui il magistrato collocato fuori ruolo mantiene tutte le connotazioni tipiche del suo status e pertanto non può essere considerato, nel suo operare, come non esercitante le funzioni caratterizzanti l’appartenenza in atto all’Ordine giudiziario”.

Pertanto, il mancato esercizio in atto delle funzioni giudiziarie al momento dei fatti di cui si discute in causa, per intervenuta sospensione del magistrato dall’esercizio di tali funzioni, a maggior ragione non rileva in relazione agli illeciti disciplinari di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4 e ai fini che qui contano.

E’ indubbio, infatti, che, pur se sospesa, la P., all’epoca dei fatti di cui si discute, continuava ad appartenere all’ordine giudiziario, sicchè rilevando lo status dell’appartenenza del magistrato all’Ordine giudiziario, che non viene meno per il fatto che il magistrato stesso sia stato sospeso, sussisteva nella specie, quella che in modo atecnico la ricorrente indica come “giurisdizione del CSM” e sul punto la sentenza impugnata, contrariamente a quanto dedotto dalla P., è motivata.

5.2. Risultano pure infondate le censure veicolate con il primo motivo, atteso che il dispositivo della sentenza impugnata si riferisce proprio ai fatti di cui al decreto di citazione a giudizio.

Non vi è, quindi, alcuna contraddizione tra la motivazione e quel dispositivo proprio perchè proprio in relazione ai medesimi fatti vi è stata derubricazione da resistenza a pubblico ufficiale a minaccia. Inoltre, la Sezione Disciplinare del CSM ha pure evidenziato che la mancanza della condizione di procedibilità non esimeva quella Sezione, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, comma 1, lett. d) dall’esame dei comportamenti oggetto di quelle contestazioni e tanto al fine di apprezzarne la rilevanza disciplinare e a tale riguardo ha sottolineato, valutandole autonomamente, la veemenza dell’atteggiamento della P. e la valenza intimidatoria delle invettive indirizzate alle Forze dell’ordine, e ha posto, peraltro, in rilievo che, pur considerando la condizione psicologica dell’incolpata, che si riteneva ingiustamente perseguita, tale condizione non potesse giustificare una condotta indicativa, tra l’altro, di scarso controllo della propria impulsività e di aggressività verbale, platealmente lesiva non solo della dignità di soggetti che agivano nell’esercizio delle loro pubbliche funzioni ma anche del decoro del magistrato e dell’immagine stessa della Magistratura.

Nè rileva che all’epoca la P. fosse sospesa dall’esercizio delle funzioni nè che, come sostenuto dalla stessa ricorrente, non potesse ritornare a svolgere le sue funzioni a Vibo Valentia, tenuto conto della sua perdurante appartenenza all’ordine giudiziario e della diffusività della condotta evidenziata dalla Sezione Disciplinare del CSM.

Quest’ultima Sezione, come risulta dalla stessa motivazione della sentenza impugnata (v. p. 4 e 5 di tale atto), ha ben tenuto conto dell’intervenuta derubricazione; ha ben delineato la fattispecie concreta (da ricondurre nell’illecito tipizzato di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett d)) al p. 3.1. di quella sentenza; ha autonomamente valutato i fatti sul piano disciplinare e ha al p. 3.4 escluso l’applicazione dell’art. 3-bis per la ritenuta compromissione dell’immagine dell’incolpata, con ricaduta sul prestigio dell’intera Magistratura, tenuto conto della “diffusività” ravvisabile nella condotta dell’incolpata.

5.3. Parimenti infondate risultano le ulteriori doglianze sollevate con l’ultimo motivo, alcune delle quali già dedotte con gli altri due mezzi e già sopra vagliate da questo Collegio.

Va ribadito che la Sezione Disciplinare del CSM ha, infatti, evidenziato che, nella specie, la condotta posta in essere dalla P., idonea a gettare discredito sull’esercizio dell’attività giudiziaria, aveva avuto diffusione esterna, tenuto conto, tra l’altro, del numero degli agenti delle forze dell’ordine coinvolto, con sicura ricaduta sul prestigio dell’intera Magistratura; ha tenuto ben presente la derubricazione dei fatti in sede penale; ha, in sostanza, ritenuto configurabile nella specie il reato di minaccia; ha pure considerato che non è stata proposta querela (v. sentenza impugnata p. 5), evidenziandosi che comunque il suo difetto, ai fini disciplinari, non è decisivo così come non decisiva risulta, ai fini che qui rilevano, la “mancata menzione delle modalità arbitrarie dei controlli”, di cui pure si duole la ricorrente.

5.4. La sentenza impugnata risulta peraltro motivata, in relazione alle questioni sottoposte all’esame della Sezione disciplinare del CSM, in modo sufficiente e non contraddittorio sicchè, conclusivamente, deve ritenersi che non sussistono i lamentati vizi motivazionali.

6. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

7. Non vi è da provvedere sulle spese processuali.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2019

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