Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3875 del 17/02/2020

Cassazione civile sez. I, 17/02/2020, (ud. 05/12/2019, dep. 17/02/2020), n.3875

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15134/2018 proposto da:

A.A.R., elettivamente domiciliato in Roma, presso

la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato Filippo Finocchiaro del Foro di

Catania, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Prefetto della Provincia Catania;

– intimato –

avverso l’ordinanza n. 965/2017 del GIUDICE DI PACE di CATANIA,

depositata il 21/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/12/2019 da Dott. IOFRIDA GIULIA;

udito l’Avvocato Ciervo Antonello, con delega, per il ricorrente;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO IMMACOLATA, che ha concluso per la rimessione alle Sezioni

Unite o, in subordine, per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Giudice di Pace di Catania, con ordinanza n. cronol. 965/2017, depositata in data 21/11/2017, ha respinto il ricorso di A.A., cittadino dello (OMISSIS), avverso il decreto, emesso in data 15/5/2017 dalla Prefettura di Catania, notificato lo stesso giorno, con il quale è stata disposta l’espulsione dal territorio nazionale dello straniero, con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica.

In particolare, i giudici d’appello hanno rilevato che: a) il decreto era stato ritualmente emesso dal Vice Prefetto; b) lo stesso era stato tradotto in lingua inglese, stante l’impossibilità, attestata nella relata di notifica del provvedimento, redatta dalla Questura, di reperire un interprete della lingua conosciuta dallo straniero e, peraltro, il richiedente nel “foglio notizie ha affermato di conoscere la lingua italiana e ha poi rilasciato e sottoscritto le sue dichiarazioni in tale lingua”; c) l’espulsione era stata disposta ai sensi dell’art. 13, comma 2, lett. a T.U.I. e, quanto ai divieti di espulsione di cui agli artt. 19 e 20 cit. legge, nel giudizio di opposizione, non era possibile verificare “la presenza dei requisiti che comportano il divieto di espulsione se non in presenza del provvedimento che dispone le misure di protezione temporanea decise dall’autorità politica”, nella specie insussistenti nei confronti di cittadini provenienti dallo (OMISSIS); d) il richiedente, ricevuta l’informativa, nelle lingue italiano, inglese, francese e spagnolo, circa la possibilità di richiedere termine per la partenza volontaria, non aveva chiesto il termine e comunque era stato escluso, motivatamente, che tale termine potesse essere concesso, in presenza di rilevante pericolo di fuga, ai sensi dello stesso art. 13, commi 4 e 4 bis (pericolo configurabile “in mancanza di fonti lecite di reddito e dell’assenza di attività lavorativa regolare”).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 2, comma 6 e art. 13, comma 7 e D.P.R. n. 394 del 1999, art. 3, comma 2 in relazione alla mancata traduzione del decreto di espulsione nell’unica lingua compresa dal ricorrente ed in assenza di adeguata motivazione sia sui motivi dell’omessa traduzione e quindi sulle ragioni tecnico-organizzative dell’impossibilità di predisporre formulari nella lingua conosciuta (il singalese o cingalese, idioma non raro nella provincia di Catania, essendovi una folta comunità di cingalesi) o di reperire un interprete sia sulla effettiva conoscenza della lingua italiana da parte dello straniero, avendo invece il giudice di Pace dedotto la conoscenza da semplice sottoscrizione di dichiarazioni rese in lingua italiana da parte dello straniero, trattandosi di un formulario prestampato redatto dalla guardia di finanza; 2) con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10, comma 4 e art. 19, comma 1 per avere il Giudice di Pace erroneamente ritenuto di non potersi pronunciare sul divieto di espulsione in ragione di motivi umanitari e della pendenza della domanda di asilo, spettando solo all’autorità di governo una valutazione sulla concessione di misure di protezione umanitaria temporanea, laddove era stata comunque fornita prova documentale della presentazione da parte del richiedente di una domanda di protezione internazionale, pendente, ed il giudice avrebbe dovuto, invece, verificare la sussistenza di condizioni ostative di cui ai citati artt. 10 e 19 e del concreto rischio personale, in caso di rientro nel Paese d’origine, dedotto dal richiedente (appartenente alla minoranza tamil, di religione cristiana, arrestato dalle autorità locali con l’accusa di attività sovversiva); 3) con il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di fatto decisivo, rappresentato dalla richiesta di protezione internazionale a fronte del pericolo di persecuzioni; 4) con il quarto motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, commi 4, 4 bis e 5 e art. 7 Direttiva CE n. 115/2008, in relazione alla mancata concessione del termine per la partenza volontaria, avendo il Giudice di Pace omesso di valutare la circostanza che il richiedente, stante la mancata traduzione in lingua a lui comprensibile, non era stato informato sulla possibilità di richiedere la partenza volontaria, avendo tra l’altro egli fornito indicazioni di un domicilio ove avrebbe potuto essere rintracciato.

2. La prima censura è inammissibile.

Il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13 prevede che la notifica del decreto di espulsione all’interessato è effettuata ai sensi dell’art. 3 commi 3 e 4 del Regolamento, emanato con D.P.R. n. 394 del 1999, il quale prevede che il provvedimento doveva essere comunicato allo straniero, mediante consegna a mani proprie o notificazione del provvedimento scritto e motivato, contenente l’indicazione delle eventuali forme di impugnazione, effettuate con modalità tali da assicurare la riservatezza del contenuto dell’atto, e debba essere accompagnato, se lo straniero non comprende la lingua italiana, da una sintesi del suo contenuto, redatta anche mediante appositi formulari sufficientemente dettagliati, in una lingua a lui comprensibile o, se ciò non è possibile per indisponibilità di personale idoneo alla traduzione del provvedimento in tale lingua, in una delle lingue inglese, francese o spagnola, secondo la preferenza indicata dall’interessato.

Questa Corte ha già statuito (Cass.14733/2015; conf. Cass.13323/2018; Cass. 8369/2019)) che “è nullo il provvedimento di espulsione tradotto in lingua veicolare per l’affermata irreperibilità immediata di traduttore nella lingua conosciuta dallo straniero, salvo che l’amministrazione non affermi, ed il giudice ritenga plausibile, l’impossibilità di predisporre un testo nella lingua conosciuta dallo straniero per la sua rarità ovvero l’inidoneità di tale testo alla comunicazione della decisione in concreto assunta”.

In tema di espulsione amministrativa dello straniero, grava, invero, sull’amministrazione l’onere di provare l’eventuale conoscenza della lingua italiana o di una delle lingue c.d. veicolari da parte del destinatario del provvedimento di espulsione, quale elemento costitutivo della facoltà di notificargli l’atto in una di dette lingue, ed è compito del giudice di merito accertare in concreto se la persona conosca la lingua nella quale il provvedimento espulsivo sia stato tradotto, a tal fine valutando gli elementi probatori del processo (Cass., 15/05/2018, n. 11887). Si è anche chiarito (Cass. 2953/2019) che ” l’omessa traduzione del decreto di espulsione nella lingua conosciuta dall’interessato, o in quella c. d. veicolare, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, comporta la nullità del provvedimento espulsivo, salvo che lo straniero conosca la lingua italiana o altra lingua nella quale il decreto è stato tradotto, circostanza accertabile anche in via presuntiva e costituente accertamento di fatto censurabile nei ristretti limiti dell’attuale disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5″.

Il Giudice di Pace ha dato atto sia dell’impossibilità, dedotta dall’amministrazione, di predisporre un testo nella lingua conosciuta dallo straniero per la sua rarità, ma soprattutto ha accertato la conoscenza della lingua italiana, da parte dello straniero, in quanto il richiedente nel “foglio notizie ha affermato di conoscere la lingua italiana e ha poi rilasciato e sottoscritto le sue dichiarazioni in tale lingua”.

Tale seconda statuizione non risulta efficacemente censurata, essendo limitato il ricorrente a lamentare di appartenere alla minoranza tamil (ma di conoscere l’idioma cingalese non quello tamil) e di non essere scolarizzato e che il giudice di merito avrebbe “presunto” la conoscenza della lingua italiana da una semplice sottoscrizione di dichiarazioni rese in lingua italiana.

Peraltro, tale foglio notizie, per quanto dedotto dallo stesso ricorrente, era tradotto in lingua italiana ed in lingua inglese ed è noto che tra le lingue ufficiali dello (OMISSIS) vi è l’inglese.

3. La seconda censura è, in parte, infondata ed, in parte, inammissibile.

Il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 7 infatti, prevede e disciplina il diritto del richiedente di rimanere nel territorio dello Stato (salvo che non si tratti di stranieri che, alla luce delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 142 del 2015, art. 25, comma 1, lett. f), n. 1 debbono essere estradati verso altro Stato in virtù degli obblighi previsti da un mandato di arresto Europeo o consegnati alla Corte o ad un Tribunale internazionale o avviati verso un altro Stato UE per l’esame dell’istanza di protezione internazionale ovvero che, nel testo ulteriormente modificato dal D.Lgs. n. 132 del 2018, entrato in vigore il 4/12/2018, di conversione con modifiche del D.L. n. 118 del 2018, abbiano “presentato una prima domanda reiterata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale” o abbiano manifestato la volontà di presentare un’altra domanda reiterata a seguito di una decisione definitiva che abbia considerato inammissibile una prima domanda reiterata o dopo una decisione definitiva che abbia respinto la prima domanda) durante l’esame della domanda di protezione internazionale, che egli ha parimenti diritto di formulare in sede di accesso: il richiedente è autorizzato a rimanere nel territorio dello Stato; ai sensi del D.Lgs. cit., art. 3 le autorità competenti all’esame delle domande di protezione internazionale sono le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui all’art. 4, mentre le questure e gli uffici di polizia sono solo competenti a ricevere la domanda.

Il diritto del richiedente asilo di non essere allontanato è altresì sancito dall’art. 9, comma 1, della Direttiva 2013/32/UE, il quale stabilisce che “i richiedenti (protezione) sono autorizzati a rimanere nello Stato membro, ai fini esclusivi della procedura, fintantochè l’autorità accertante non abbia preso una decisione secondo le procedure di primo grado (…). Il diritto a rimanere non dà diritto a un titolo di soggiorno”.

Il ricorrente si duole, nella sostanza, della mancata valutazione da parte del Giudice di Pace, ai fini del giudizio di legittimità del decreto di espulsione, sia della pendenza di una domanda di protezione internazionale sia della sussistenza delle condizioni ostative di cui all’art. 19, comma 1 e art. 10, comma 4 T.U.I..

Ora, con riguardo al primo profilo e quindi alla questione relativa all’asserita illegittimità del decreto di espulsione, essendo stata allegata dallo straniero la presentazione di una domanda di protezione internazionale, il ricorrente, anzitutto, non chiarisce nel ricorso quando (prima o dopo il decreto di espulsione prefettizio del 15/5/2017, notificatogli in pari data) sia stata presentata la domanda (si dice solo che la prova documentale della sua presentazione è stata fornita all’udienza del 7/11/2017) e se e come questa procedura si sia conclusa; il difensore, su delega, presente alla pubblica udienza, ha riferito di non conoscere quale sia stato l’esito della richiesta di protezione internazionale.

La doglianza, pertanto, al di là del contrasto rilevato nell’ordinanza interlocutoria tra le pronunce nn. 19819/2018 e 28860/2018 (peraltro, ritenuto insussistente nella successiva sentenza n. 27077/2019 di questa Corte, che ha statuito nel senso che la proposizione di una domanda di protezione successiva all’emissione di un decreto di espulsione a carico del richiedente non comporta ipso iure la illegittimità o nullità sopravvenuta di quest’ultimo), risulta priva della necessaria rilevanza nel presente giudizio, in difetto di specifica allegazione dell’attualità dell’interesse.

Quindi, superata la questione relativa agli effetti, sulla legittimità del provvedimento di espulsione, della pendenza della domanda di asilo, risulta inammissibile l’ulteriore censura, presente in ricorso, volta a colpire la statuizione del Giudice di Pace in ordine alla impossibilità per lo stesso giudice di pronunciarsi sul divieto di espulsione in ragione di motivi umanitari, spettando solo all’autorità di governo una valutazione sulla concessione di misure di protezione umanitaria temporanea.

Le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 22217/2006 hanno chiarito che il provvedimento di espulsione dello straniero è provvedimento obbligatorio a carattere vincolato, sicchè il giudice ordinario dinanzi al quale esso venga impugnato è tenuto unicamente a controllare l’esistenza, al momento dell’espulsione, dei requisiti di legge.

Tuttavia, la norma invocata in ricorso è l’art. 19, comma 1 T.U.I., il quale, sotto la rubrica: “Divieti di espulsione e di respingimento. Disposizioni in materia di categorie vulnerabili”, stabilisce che: “In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”.

Questa Corte (Cass.9762/2019) ha ribadito, anche di recente, che “in materia di protezione internazionale dello straniero, l’istituto del divieto di espulsione o di respingimento previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, postula che il giudice di pace, in sede di opposizione alla misura espulsiva, esamini e si pronunci sul concreto pericolo, prospettato dall’opponente, di subire persecuzione o trattamenti inumani e/o degradanti in ipotesi di rimpatrio nel paese di origine”. Conforme principio era stato già affermato con la pronuncia n. 3898/2011: “in materia di protezione internazionale dello straniero, l’istituto del divieto di espulsione o di respingimento previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1 impone al giudice di pace, in sede di opposizione alla misura espulsiva, di esaminare e pronunciarsi sul concreto pericolo, prospettato dall’opponente, di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di rimpatrio nel paese di origine, in quanto la norma di protezione introduce una misura umanitaria a carattere negativo, che conferisce al beneficiario il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale, qualora tale condizione venga positivamente accertata dal giudice”.

La recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea del 14 maggio 2019, nelle cause riunite C-391/16, C-77/17 e C-78/17, ha ribadito i principi fondamentali che gli Stati membri dell’Unione Europea sono tenuti a rispettare quando decidono di respingere o rimpatriare persone cui siano state negate o revocate misure di protezione ai sensi della Direttiva 2011/95/UE; in particolare, la Corte UE ha precisato che l’art. 21, par. 2, della Direttiva 2011/95, sulle garanzie relative al respingimento, deve essere interpretato e applicato in osservanza dei diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in particolare dei suoi artt. 4 e 19, par. 2, che vietano in termini perentori la tortura nonchè le pene e i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dal comportamento dell’interessato, così come l’allontanamento verso uno Stato in cui esista un rischio serio di essere sottoposto ai trattamenti vietati, cosicchè il principio di non refoulement non può soffrire eccezioni nemmeno nel caso in cui lo straniero sia un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico o abbia commesso gravi reati.

Ora, la motivazione del provvedimento qui impugnato deve essere quindi parzialmente corretta, laddove il Giudice di Pace ha ritenuto che fosse necessario comunque un provvedimento dell’autorità politica che disponesse misure di protezione temporanea (nella specie non applicate nei confronti di cittadini dello (OMISSIS)), mentre è sufficiente, al di là di una formale richiesta di protezione internazionale, che vi sia l’allegazione da parte dello straniero opponente del concreto pericolo del medesimo di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di rimpatrio nel paese d’origine, in quanto la norma di protezione sopra indicata introduce una misura umanitaria a carattere negativo, che conferisce al beneficiario il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale.

La conclusione cui è pervenuto il Giudice di Pace è, però, conforme a diritto. Invero, il suddetto divieto di respingimento o espulsione implica, pur sempre, che sussista il concreto pericolo attuale, per il richiedente, di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti, in caso di rimpatrio nel paese di origine, ed il rischio in oggetto deve essere dunque accertato con riferimento ad elementi reali e concreti allegati dal richiedente.

Il ricorrente si è limitato a dedurre di avere esposto, in sede di opposizione al decreto di espulsione, di provenire dallo (OMISSIS), di essere di minoranza (OMISSIS) e (OMISSIS) e di essere espatriato a causa delle violenze perpetrate dalle autorità governative filo cingalesi, in quanto egli, “nonostante la fine del conflitto nel 2009”, era stato “sospettato, per il solo fatto di appartenere alla minoranza (OMISSIS), di attività sovversiva ” ed aveva subito “due arresti e violenze alla persona”.

Ora, il provvedimento impugnato non tratta in effetti la questione ma il ricorrente non chiarisce per quali ragioni sussiste un rischio concreto ed attuale di persecuzione in caso di rimpatrio nello (OMISSIS).

4. Il terzo motivo, implicante vizio motivazionale, ex art. 360 c.p.c., n. 5, è inammissibile in quanto il ricorrente si limita a lamentare l’omesso esame delle circostanze “comprovanti il pericolo di persecuzione del ricorrente”; il motivo si rivela del tutto generico ed aspecifico.

5. Il quarto motivo è del pari inammissibile. Esso si ricollega alla lagnanza oggetto del primo motivo, in quanto si lamenta che il Giudice di Pace abbia omesso di valutare la circostanza che il richiedente, stante la mancata traduzione in lingua a lui comprensibile, non era stato informato sulla possibilità di richiedere la partenza volontaria.

Ma il Giudice di Pace ha accertato che lo straniero, ricevuta l’informativa, nelle lingue italiano, inglese, francese e spagnolo – ed egli aveva dichiarato di conoscere la lingua italiana -, circa la possibilità di richiedere termine per la partenza volontaria, non aveva chiesto il termine.

6. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva. Essendo il procedimento esente, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2020

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