Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3871 del 14/02/2017


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Cassazione civile, sez. II, 14/02/2017, (ud. 16/09/2016, dep.14/02/2017),  n. 3871

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28126-2012 proposto da:

B.B., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

TEULADA 38/A, presso lo STUDIO LEGALE ASSOCIATO LOCATELLI MECHELLI

EMILI, rappresentato e difeso dall’avvocato PIETRO CAPPANNINI;

– ricorrente –

contro

M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA R. GRAZIOLI

LANTE 16, presso lo studio dell’avvocato PAOLO BONAIUTI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato VIRGINIA MARCHESINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 357/2012 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 12/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/09/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

udito l’Avvocato BONAIUTO Paolo, difensore della resistente che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Orvieto, con sentenza depositata l’11/5/2009, rigettata la domanda avanzata da B.B., con la quale era stata chiesta la declaratoria d’estinzione dell’usufrutto (art. 1015 c.c., comma 1) e in subordine l’ordine di prestare adeguata garanzia (art. 1015 c.c., comma 2) e, “in via ulteriormente subordinata”, la condanna alla restituzione, accolta la domanda incidentale, avanzata da M.A., revocò la donazione della nuda proprietà dell’immobile, sul quale la donante si era riservato il diritto di usufrutto.

L’appello, proposto dal B. venne rigettato dalla la Corte di Perugia, con sentenza depositata il 12/9/2012.

2. Per quel che rileva e tenuto conto del perimetro decisorio di legittimità, la vicenda può essere riassunta nei termini salienti che seguono.

Il B. aveva chiamato in giudizio la di lui madre ( M.A.) esponendo che la convenuta, venuta meno all’obbligo, gravante sull’usufruttuario, di assicurare la manutenzione ordinaria dell’immobile, ne aveva procurato grave stato di degrado. La convenuta aveva, a sua volta, dopo aver contestato i presupposti della domanda, avanzato, in via riconvenzionale, domanda di revocazione per ingratitudine del donatario, il quale, con l’azione intrapresa, palesemente infondata, e con altri comportamenti, aveva recato grave ingiuria alla donante.

3. Con ricorso del 29/11/2012 il B. chiede l’annullamento della sentenza d’appello.

Resiste con controricorso del 7/1/2013 la M..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorso deduce violazione di legge in ordine alla statuizione concernente la domanda riconvenzionale.

Secondo l’interpretazione, oramai risalente, dell’art. 801 c.c., suggellata da plurime statuizioni rese in sede di legittimità, afferma il ricorrente, l’intrapresa di un’azione giudiziaria non integra la grave ingratitudine posta a base della revocazione della donazione. Nel caso di specie, per altro, sussistevano le irregolarità edilizie che il B. aveva denunciato all’autorità amministrativa, al fine di ottenere esonero da concorso in responsabilità, nonchè la condizione di abbandono dell’intero edificio, precipitosamente in parte sanata dopo l’inizio dell’azione giudiziaria. Non aveva fondamento probatorio l’apodittico asserto rinvenibile nell’impugnata sentenza, secondo il quale lo scopo del ricorrente era quello disdicevole di “buttare fuori di casa” l’anziana genitrice.

1.1. Il motivo non ha pregio.

La Corte di Perugia risulta aver preso in considerazione il complesso degli argomenti sviluppati sul punto dall’odierno ricorrente (la negazione di ripercussioni, non solo morali, ma anche fisiche sulla madre per le azioni intraprese dal figlio; la contestazione che il mero esercizio dell’azione civile contro il donante integrasse l’ingratitudine; l’azione intrapresa era diretta a tutelare la nuda proprietà; la denunzia ai VV UU della madre per i dedotti abusi edilizi era diretta a sollevare lo stesso denunziante da pari responsabilità), concludendo per il rigetto della doglianza con argomenti che non contrastano con la nozione d’ingratitudine condivisa in sede di legittimità.

Il Giudice dell’appello scrive che, anche a non voler tenere conto della predetta denunzia, con l’azione civile intrapresa il donatario, “ben in grado di comprendere che non si trattava di inadempienze gravi fino al punto di giustificare la decadenza dall’usufrutto e che perciò avrebbe dovuto limitarsi a proporre al più la relativa domanda di adempimento (…) mirava a privare la convenuta, anziana e malata, della sua abitazione proprio nell’immobile la cui nuda proprietà essa aveva donato all’attore”. Ciò, per quella Corte, aveva reso irrilevante “che all’offesa morale non si (fosse) aggiunta un’offesa fisica”.

Trattasi di apprezzamento logico e aderente alla ratio legis, come tale non censurabile in questa sede (cfr. sulla non sindacabilità, Sez. 1, n. 754 del 16/3/1973, Rv. 362991 – 01). Nonostante la varietà delle situazioni venute al vaglio giudiziario resta ferma, nell’interpretazione di questa Corte che la qualifica d’indegnità debba attribuirsi a quella condotta del donatario configurante una aggressione morale, che nella sua consistenza esprima un reale sentimento di avversione nei confronti del donante, contrastante con quel naturale sentimento di riconoscenza che dovrebbe connaturare i suoi atteggiamenti (cfr., Sez. 2, n. 22013 del 31/10/2016, Rv. 641570 – 01; Sez. 2, n. 7487 del 31/3/2011, Rv. 617365 – 01; Sez. 2, n. 17188 del 24/6/2008, Rv. 604075 01; Sez. 2, n. 14093 del 28/5/2008, Rv. 603506 – 01). L’avere intrapreso un’azione, incensurabilmente giudicata manifestamente infondata ed in parte addirittura vessatoria, allo scopo, peraltro evidente, di privare l’anziana e malata genitrice della casa d’abitazione, della cui nuda proprietà costei si era fatta donante, integra condotta che non può dirsi estranea al paradigma normativo evocato.

2. Con il secondo motivo viene denunziata insufficienza e contraddittorietà della motivazione su un punto controverso e decisivo.

Assume il ricorrente che il rigetto della domanda, fondato sulle non condivisibili conclusioni della CTU, non aveva tenuto conto della vasta congerie di documenti prodotta, dalla quale era agevole inferire che al momento dell’esercizio dell’azione l’immobile appariva versare in pessimo stato (muri infiltrati dall’umidità, modifiche interne, ammasso di masserizie e materiali pericolosi e abusive realizzazioni di baracche nella corte) e che ad una parte degli inconvenienti la genitrice aveva posto frettoloso rimedio dopo la chiamata in giudizio. Chiamata che, precisa il B., era stata preceduta da numerosi solleciti, che non avevano sortito effetto. Nè poteva assegnarsi concludenza alla giustificazione addotta in sentenza, in quanto l’età avanzata non avrebbe potuto impedire alla M. di rivolgersi alle competenze di estranei.

2.1. Il motivo è infondato.

Come reiteratamente affermato in questa sede, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 prima dell’ulteriore modifica di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile “ratione temporis”), il quale implica che la motivazione della “quaestio facti” sia affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che si presentasse tale da determinarne la logica insostenibilità (cfr., Sez. 3, n. 17037 del 20/8/2015, Rv. 636317). Con l’ulteriore corollario che il controllo di legittimità del giudizio di fatto non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Con la conseguenza che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr. Sez. 6, ord. n. 5024 del 28/3/2012, Rv. 622001). Da qui la necessità che il ricorrente specifichi il contenuto di ciascuna delle risultanze probatorie (mediante la loro sintetica, ma esauriente esposizione e, all’occorrenza integrale trascrizione nel ricorso) evidenziando, in relazione a tale contenuto, il vizio omissivo o logico nel quale sia incorso il giudice del merito e la diversa soluzione cui, in difetto di esso, sarebbe stato possibile pervenire sulla questione decisa (cfr. Sez. 5, n. 1170 del 23/1/2004, Rv. 569607).

Da qui ancora appare evidente che il vizio di insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, si configura nella ipotesi di carenza di elementi, nello sviluppo logico del provvedimento, idonei a consentire la identificazione del criterio posto a base della decisione, ma non anche quando vi sia difformità tra il significato ed il valore attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati, e le attese e deduzioni della parte al riguardo. Parimenti, il vizio di contraddittoria motivazione, che ricorre in caso di insanabile contrasto tra le argomentazioni logico – giuridiche addotte a sostegno della decisione, tale da rendere incomprensibile la “ratio decidendi”, deve essere intrinseco alla sentenza, e non risultare dalla diversa prospettazione addotta dal ricorrente (Sez. 2, n. 3615 del 13/04/1999, Rv. 525271). Con l’ulteriore implicazione che il vizio di contraddittorietà della motivazione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non può essere riferito a parametri valutativi esterni, quale il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio Sez. 1, n. 1605 del 14/02/2000, Rv. 533802). Peraltro, osservandosi che il vizio di insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, resta integrato solo ove consti la carenza di elementi, nello sviluppo logico del provvedimento, idonei a consentire la identificazione del criterio posto a base della decisione, ma non anche quando vi sia difformità tra il significato ed il valore attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati, e le attese e deduzioni della parte al riguardo; mentre il vizio di contraddittoria motivazione, che ricorre in caso di insanabile contrasto tra le argomentazioni logico – giuridiche addotte a sostegno della decisione, tale da rendere incomprensibile la “ratio decidendi”, deve essere proprio della sentenza, e non risultare dalla diversa prospettazione addotta dal ricorrente (Sez. L., n. 8629 del 24/06/2000, Rv. 538004; Sez. 1, n. 2830 del 27/02/2001, Rv. 544226).

Si è condivisamente ulteriormente precisato, così da scolpire nitidamente l’ambito di legittimità, che il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Sez. L, n. 2272 del 02/02/2007,Rv. 594690). Proprio per ciò non è ammesso perseguire con il motivo di ricorso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, finalità sicuramente estranea alla natura e allo scopo del giudizio di cassazione. Infatti, il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., fra le tante, Sez. L., n. 9233 del 20/4/2006, Rv. 588486 e n. 15355 del 9/8/2004, Rv. 575318).

La spiegazione alternativa proposta con il ricorso, fronteggiante una insanabile contraddittorietà della motivazione, deve essere tale da apparire l’unica plausibile e la deduzione di un vizio di motivazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì il solo potere di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr., fra le tante, Sez. 3, n. 20322 del 20/10/2005, Rv. 584541; Sez. L., n. 15489 dell’11/7/2007, Rv. 598729). Lo scrutinio di merito resta, in definitiva, incensurabile, salvo l’opzione al di fuori del senso comune (Sez. L., n. 3547 del 15/4/1994, Rv. 486201); la stessa omissione non può che concernere snodi essenziali del percorso argomentativo adottato (cfr., Sez. 2, n. 7476 del 4/6/2001, Rv. 547190; Sez. 1, n. 2067 del 25/2/1998, Rv. 513033; Sez. 5, n. 9133 del 676/2012, Rv. 622945, Sez. U., n. 13045 del 27/12/1997, Rv. 511208).

Quanto poi all’apporto di sapere proveniente dalla CTU va ribadito che se, per un verso, il giudice del merito, ove dia mostra di aver conosciuto e apprezzato le conclusioni del consulente, non è tenuto a fornire alcuna ulteriore motivazione, è altrettanto evidente che il ricorrente non può limitarsi a dissentire dalle predette conclusioni in sede di legittimità, ricadendo su di lui l’onere di puntualmente controdedurre, riportando i singoli passaggi della relazione e le specifiche ragioni poste a suo tempo in contrapposizione. In altri termini, è necessario che la parte alleghi di avere rivolto critiche alla consulenza stessa già dinanzi al giudice “a quo”, e ne trascriva, poi, per autosufficienza, almeno i punti salienti onde consentirne la valutazione in termini di decisività e di rilevanza, atteso che, diversamente, una mera disamina dei vari passaggi dell’elaborato peritale, corredata da notazioni critiche, si risolverebbe nella prospettazione di un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità. La parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione (cfr., Sez. 1, n. 11482 del 03/06/2016, Rv. 639844; Sez. 1, n. 16368 del 17/07/2014, Rv. 632050; Sez. 1, n. 3224 del 12/02/2014, Rv. 630385).

Nel caso di specie la Corte umbra ha apprezzabilmente chiarito le questioni che con il ricorso il B. s’industria di riproporre. Manca la prova che lo stato dei luoghi sia stato modificato dalla resistente dopo la citazione in giudizio, salvo l’intervento di liberazione da masserizie varie dell’area esterna di pertinenza e la potatura degli alberi.

In ogni caso le registrate, modeste manchevolezze (peraltro giustificate dall’età avanzata e dallo stato di malattia) non assumono significanza tale da giustificare l’azione diretta alla cessazione dell’usufrutto. La cessazione o decadenza in parola, infatti, sanziona la colpevole condotta dell’usufruttuario, il quale, abusando della sua relazione di fatto con la cosa, ponga in concreto pericolo il diritto del nudo proprietario alla futura consolidazione. Di conseguenza deve trattarsi di azioni od omissioni, caratterizzate dalla specifica consapevolezza dell’illiceità, che l’art. 1015 c.c., comma 1, evoca ricorrendo al sostantivo abuso, tali da gravemente compromettere le legittime aspettative del nudo proprietario. Le ipotesi individuate dalla legge sono più che eloquenti: affianco all’alienazione, sono previsti i casi del volontario deterioramento o della radicale e insistita omissione di manutenzione, tale da lasciare “andare in perimento” il bene.

Una tale lettura trova conferma nel fatto che per le trasgressioni meno gravi dell’usufruttuario la legge stessa prevede, nel secondo comma della norma citata, rimedi meno rigorosi di carattere non repressivo, ma semplicemente cautelari a tutela preventiva del nudo proprietario (cfr. Sez. 2, n. 699 del 02/03/1976, Rv. 379349 – 01).

3. Con il terzo ed ultimo motivo il ricorrente denunzia vizio di ultrapetizione con riguardo alla domanda riconvenzionale.

3.1. Il B. con il motivo al vaglio contesta l’interpretazione operata dal giudice del petitum della domanda riconvenzionale. La M. aveva concluso nei termini seguenti: “In via principale rigettare le domande di parte attrice in quanto infondate in fatto come in diritto; in via subordinata: revocare la donazione”. La Corte di merito aveva ritenuto che l’indicazione “in via subordinata” doveva considerarsi “frutto di un lapsus calami”, dovendosi intendere che la parte avesse voluto scrivere “in via riconvenzionale”. Una tale interpretazione, secondo il ricorrente, “supera le stesse intenzioni di parte avversa intervenendo non solo a rettificare le conclusioni spiegate sin dal primo atto del giudizio ma addirittura interpretandone il senso grammaticale, logico e giuridico”.

Trattasi di doglianza manifestamente priva di fondamento e largamente riproduttiva del corrispondente motivo d’appello, motivatamente rigettato dalla Corte locale, la quale ha incensurabilmente interpretato la domanda della M., la quale, all’evidenza, stante la sua natura (revoca della donazione) non potevasi intendere subordinata all’accoglimento della domanda avversa di estinzione dell’usufrutto, che avrebbe implicato il suggello delle buone ragioni del donatario, incompatibili, ovviamente, con la contro domanda di revoca della donazione.

All’epilogo consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese legali in favore della controparte nella misura di cui in dispositivo, tenuto conto della natura e del valore della causa, nonchè delle svolte attività.

PQM

Rigetta la domanda e condanna il ricorrente al pagamento delle spese legali in favore della controparte, che liquida nella complessiva somma di Euro 4.700,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 16 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 02017

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