Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 386 del 11/01/2011

Cassazione civile sez. un., 11/01/2011, (ud. 26/10/2010, dep. 11/01/2011), n.386

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo Presidente Aggiunto –

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente di Sezione –

Dott. D’ALONZO Michele – rel. Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Dott. N.F. (nato a (OMISSIS)),

“Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Reggio

Calabria”, elettivamente domiciliato in Roma alla Via degli Appennini

n. 60 presso lo studio dell’avv. DI ZENZO Carmine insieme con l’avv.

Gianfranco IADECOLA che lo rappresenta e difende in forza di “mandato

in calce” al ricorso;

– ricorrente –

contro

(1) il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro

tempore, e (2) il Procuratore Generale presso la Corte Suprema di

Cassazione;

– intimati –

avverso l’ordinanza n. 81/10 pronunciata il 27 aprile 2010 e

depositata il 7 maggio 2010 dalla sezione disciplinare del Consiglio

Superiore della Magistratura.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 ottobre 2010

dal Cons. Dr. Michele D’ALONZO;

sentite le difese del ricorrente, svolte dall’avv. Gianfrancesco

IADECOLA;

udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dr. CENICCOLA

Raffaele, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 28 maggio 2010 presso la segreteria della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, il Dr. N.F., in forza di quattro motivi, chiedeva di cassare l’ordinanza (pronunciata il 27 aprile 2010 e) depositata il 7 maggio 2010 (consegnatagli alle ore 11,45 del 14 maggio 2010) con la quale detta sezione aveva disposto il suo “trasferimento provvisorio ad altro ufficio e ad altre funzioni” per la seguente incolpazione:

“illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. c), perchè, quale sostituto procuratore generale designato a rappresentare l’ufficio nel processo d’appello per l’omicidio di R.L., a carico di F. G.B. e altri, ometteva di astenersi nonostante che l’imputato M.M. fosse assistito dall’avv. Lorenzo Gatto, il quale era – ed era stato – anche suo difensore del magistrato in procedimenti penali, nonchè in procedimenti disciplinari, di cui uno ancora pendente dinanzi alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura” .

Il Ministero della Giustizia non svolgeva attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1 – L’ordinanza impugnata.

A. Nel provvedimento gravato la sezione disciplinare premette:

– “il Dott. N.” (“cliente dell’avv. Lorenzo Gatto con riferimento a diversi procedimenti giudiziari e disciplinari”) sosteneva “l’accusa in Corte d’Assise nel procedimento penale d’appello a carico di F.G. ed altri per il reato di rapina ed omicidio in danno della guardia giurata R.L.” “rocedimento seguito con particolare attenzione dall’opinione pubblica locale”;

– l'”avv.ssa … Dieni” (“difensore di parte civile”) aveva “rappresentato” l'”imbarazzo derivante” da tal fatto “inizialmente” alla “dott.ssa … S.” (“pubblico ministero in primo grado”) nonchè al “Procuratore della Repubblica Dott. …

P.” e “poi direttamente al … Dott. D.L.”;

– “il processo d’appello aveva avuto inizio nel luglio del 2009”; “il Dott. N. lo aveva seguito da settembre”; “la situazione si era fatta difficile a partire dalle udienze del novembre 2009 a seguito della richiesta di riapertura dell’istruttoria formulata anche dalla difesa di uno degli imputati (tale M., assistito proprio dall’avv. Gatto) e condivisa dal rappresentante della Procura Generale”;

– “prima dell’udienza del 26 novembre 2009 il Procuratore generale Dott. D.L. provvedeva alla sostituzione del Dott. N. con il Dott. Sc.” il quale, “in udienza”, “chiedeva alla Corte di riconsiderare i termini della disposta riapertura”: “il mutato atteggiamento veniva accompagnato da considerazioni da parte dell’imputato che venivano dal rappresentante della Pubblica accusa interpretate come di ostilità e di larvata minaccia”;

– l'”avv.ssa Dieni esternava le proprie preoccupazioni al Dott. D. L., fino a prospettare una rinuncia al mandato e a paventare possibili atti intimidatori nei propri confronti in conseguenza dell’associazione del suo nome, a seguito delle sue doglianze, con il cambio di delega per il processo d’appello”;

– “il (OMISSIS) avveniva il noto attentato consumato con la collocazione di un ordigno esplosivo davanti al portone della Procura Generale di Reggio Calabria e già il 7 ed 8 gennaio successive notizie di stampa mettevano in correlazione tale gesto proprio con la sostituzione del Dott. N., quale reazione di ambienti criminali al diverso atteggiamento che la Procura genera le aveva mostrato di voler tenere nel seguire i procedimenti d’appello contro esponenti di spicco della criminalità locale”.

B. Tanto premesso, il giudice, richiamata conferente giurisprudenza, osserva, quanto alla “sussistenza dell’illecito disciplinare in caso di mancata astensione da parte del pubblico ministero, anche quando ne ricorrano le condizioni”, che la “formulazione” dell’art. 52 c.p.p. (per la quale “l’astensione del pubblico ministero è …

prevista in linea generale solo quale facoltà … quando esistono gravi ragioni di convenienza”) “non può … essere interpretata nel senso che trovi applicazione per il pubblico ministero solo l’ipotesi residuale di cui all’art. 36 lett. h) e non sia configurabile,..

nelle precedenti ipotesi tipizzate” (“che nei confronti del giudice legittimano addirittura l’istanza di ricusazione”) perchè “essa è … coerente con i principi generali che governano il procedimento penale” (“per i quali l’istituto della ricusazione del pubblico ministero è incompatibile con il sistema, in ragione della particolare natura di parte pubblica ed in considerazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale”) ma non esclude che “anche il pubblico ministero eserciti le sue funzioni in posizione di riconosciuta e garantita imparzialità, in assenza di qualunque potenziale (conflitto di interessi o di condizioni che possano far ritenere che egli agisca per fini diversi da quelli di giustizia”:

“l’astensione del pubblico ministero”, pertanto, pur “non esigibile dalle parti attraverso la ricusazione” (“perciò prevista … come facoltà”), “si caratterizza in termini di doverosità non meno cogenti di quella del giudice quando ne sussistano in fatto le condizioni, quando cioè essa sia richiesta dalla doverosa necessità di preservare il valore della imparzialità e di impedire che influenze personali possano alterare il corso della giustizia, così salvaguardando il prestigio della funzione giudiziaria essendo questo il fondamento dell’istituto dell’astensione, comune e giudici e pubblici ministeri (sez. disc. 19 dicembre 2003 n. 138)”.

La “mancanza di strumenti di attivazione (la ricusazione) e di sanzione endoprocessuale della violazione (la violazione del dovere di astensione non determina nullità degli atti)”, quindi, riserva “esclusivamente al giudice della deontologia l’obbligo di sanzionare la consapevole alterazione del principio di terzietà che deve presidiare anche l’azione del pubblico ministero, parte del processo, ma esclusivamente nell’interesse pubblico”: “ogni diversa lettura incontrerebbe il limite del contrasto con il dettato costituzionale”.

C. “Accertata la configurabilità in astratto dell’illecito”, lo stesso giudice (“fatta salva ogni diversa conclusione … all’esito degli ulteriori accertamenti e della verifica dibattimentale”) ha ritenuto la “sussistenza nel caso concreto di un adeguato fumus di fondatezza” della “richiesta” affermando esistere “le condizioni che imponevano l’astensione non solo per l’esistenza di un consolidato e risalente rapporto professionale tra il Dott. N. e l’avv. Gatto” (“essendo il primo cliente del secondo con riferimento a una pluralità di procedimenti”) “ma anche perchè il procedimento disciplinare nel quale il professionista assisteva il magistrato si svolgeva presso il Consiglio Superiore simultaneamente al processo penale, tanto che tale rapporto veniva richiamato all’attenzione generale e reso di dominio pubblico proprio in conseguenza della pubblicazione sulla stampa dell’esito del procedimento disciplinare”:

“tale situazione”, per il giudice a quo, ha “determinato specifico disagio prima ed indipendentemente dai fatti avvenuti poi a (OMISSIS)” come “emerge con chiarezza da quanto riferito dal Procuratore Generale Dott. … D.L., dall’aggiunto Dott. … Sc., dal procuratore … P., dai sostituto … S. e dalla avv.ssa … Dieni”.

Secondo il giudice disciplinare, ancora, “il fatto che la catena dell’allarme derivante da quanto avveniva nell’aula della Corte d’assise d’appello sia riconducibile alle originarie dichiarazioni della avv.ssa Dieni” “che ne parlò prima con la Dott.ssa S. e con il Dott. … Mo. e in un secondo momento con il Dott. D.L., quando questo era già stato messo sull’avviso dal Dott. P. (a sua volta informato dalla Dott.ssa S.)” non “elide la pluralità delle fonti” perchè “una volta conosciuta la materialità dei fatti, ciascuna delle figure istituzionali coinvolte percepì in modo autonomo e convergente la grave inopportunità della situazione che si era determinata a causa della sua oggettiva rilevanza e non certo per le particolari modalità o stati d’animo riferiti dall’avv.ssa Dieni”;

all’uopo lo stesso giudice annota, “a mero titolo esemplificativo”:

– “la conversazione tra l’avvocatessa ed il Procuratore Generale avvenne dopo che la sostituzione era stata disposta”;

– “quando l’avvocatessa ebbe a parlare con la Dott.ssa S., questa era già stata messa in allarme, secondo quanto riferito dalla stessa avvocatessa Dieni, dalla Dott.ssa R., funzionario della squadra mobile che era presente in udienza ed aveva constato e riferito della particolare condiscendenza del Dott. N. rispetto alle richieste della difesa”;

– “la inopportunità della presenza del Dott. N. in udienza era stata … autonomamente rilevata anche dal presidente della corte, Dott. … I., che riferisce: la contemporanea presenza dei due, in un processo delicato e dalla vasta risonanza mediatica in sede locale, era un fatto che mi appariva inopportuno in qualche modo anche preoccupante, in quanto poteva determinare timore nella parte civile e aspettative negli imputali, anche se poi precisa di non aver ritenuto di segnalare la situazione e di non aver ricevuto lamentele da parte dell’avv.ssa di parte civile”;

D. La medesima sezione – “accertata … l’esistenza di specifiche disposizioni in ordine alle modalità cui i sostituti procuratori generali si dovevano attenere nel condurre gli accordi per pervenire a patteggiamenti in appello”; ritenuto “evidente anche come tale problematica fosse giustamente percepita come particolarmente sensibile, essendo necessario assicurare una linearità nella condotta dell’ufficio e una parità nel trattamento dei richiedenti tale da non ingenerare equivoci in ordine ai criteri adottati o determinare la sovraesposizione di singoli magistrati”; giudicato irrilevante (perchè “non modifica sostanzialmente … la contestazione”) accertare se la “condotta … riguardi 16 e non 18 procedimenti” -, di poi, afferma che “in numerosi casi il Dott. N. non ha osservato tali direttive e con riferimento a procedimenti che coinvolgevano protagonisti di primo piano delle vicende criminali del reggino”, spiegando:

– “le numerosi fonti testimoniali che ricollegano un diffuso disagio, espresso dai magistrati che avevano seguito il processo in primo grado e comunque circolanti nell’ambiente, appaiono allo stato adeguatamente articolate e convergenti e dovranno essere vagliate in sede dibattimentale ove sarà possibile verificare, nella dialettica dibattimentale, se tutte le lamentele ricevute dal Dott. D.L. fossero riferibili al comportamento del Dott. N. e sollecitare una più approfondita ricostruzione dei ricordi sulla loro fonte”;

– “nè in questa sede, nè in sede di cognizione piena, è certamente possibile sindacare nel merito la correttezza o meno delle richieste formulate dal pubblico ministero in udienza (valutazione possibile, in linea astratta, solo ove le si ipotizzasse come condotte integranti un reato) nè è consentito valutare la fondatezza delle ragioni addotte per richiedere la riapertura dell’istruttoria dibattimentale”: “rileva in questa sede esclusivamente registrare come si fosse di fatto realizzata proprio quella situazione per impedire la quale è previsto l’istituto dell’astensione e l’obbligo deontologico del magistrato di farvi ricorso” per cui “è del tutto privo di rilievo … che nel settembre precedente lo stesso Dott. D. L. avesse chiesto un rinvio per consentire al Dott. N. di essere presente in udienza” (“sia perchè lo stesso Dott. D.L. riferisce di aver messo a fuoco il rapporto intercorrente tra il sostituto ed il professionista solo dopo aver avuto notizia del proscioglimento del dott. N. in sede disciplinare dell’ottobre del 2009, sia perchè solo in un momento successivo al settembre del 2009 il procedimento ha avuto sviluppi che hanno oggettivamente enfatizzato una preesistente condizione di incompatibilità”) atteso che “l’istituto dell’astensione, per la sua ratio, non mira a consentire al magistrato di sottrarsi al processo quando, secondo una sua soggettiva salutazione e percezione, tema di non riuscire a mantenere, a causa di rapporti personali con uno dei difensori, il necessario distacco, ma tende ad impedire che, in una situazione oggettiva di conflitto di interessi e incompatibilità (quale quella nella quale egli sia al tempo stesso accusatore e cliente del difensore dell’accusato), indipendentemente contro la volontà del magistrato sia possibile che scelte processuali tecnicamente ineccepibili siano legittimamente interpretabili come condizionate da tali rapporti”.

Per “questa ragione”, afferma ancora la sezione disciplinare, “l’obbligo di astensione, già sussistente, si faceva più cogente con riferimento alla piega che il procedimento andava prendendo” di tal che è “irrilevante che in passato potesse essere successo che l’avv. Gatto e il dott. N. si fossero trovati insieme in udienza senza che questo suscitasse scalpore o reazioni”; “peraltro il dott. N., proprio riferendo di aver in passato avanzato in più occasioni richiesta di astensione a causa dei suoi rapporti con l’avv. Gatto, mostra di essere stato ben consapevole della incompatibilità esistente in generale tra lui e il suo difensore, ma non sembra aver percepito lo specifico ed ulteriore imbarazzo istituzionale che la situazione di fatto aveva determinato, tanto che in un primo momento (v. dichiarazioni del Dott. Sc.: verso la seconda metà di novembre parlai con il dott. N. riferendogli il discorso a me fatto da D.L. e invitandolo a valutare l’opportunità che si astenesse dal procedimento, ciò al fine di evitare che il nostro ufficio fosse sottoposto a critiche sia dalla parte civile che dalla Procura. N. manifestò delle perplessità e non sembrò aderire al mio invito) sembrerebbe aver respinto la sollecitazione all’astensione e tanto che, in realtà, tale astensione non vi sia mai stata. Riferisce infatti il dott. R. F., sost. proc. gen. presso quell’ufficio: fui informato dal dott. D.L. che aveva convinto il dott. N. a lasciare il processo, senza ricorrere all’astensione ma attraverso una richiesta di ferie o adducendo un qualche impegno”: “gli atti confermano che fu adottata una soluzione di questo tipo”;

Secondo il giudice a quo, quindi, “anche con riferimento al secondo capo di incolpazione formulato dal Ministro appare sussistere un adeguato fumus di fondatezza della contestazione” in quanto “le condotte poste in essere dal dott. N. appaiono essersi protratte nel tempo, a partire dal 1999, data della più risalente delle sentenze elencate nell’incolpazione (…) e non oltre l’entrata in vigore della L. 24 luglio 2008, n. 125, che ha abrogato l’istituto del patteggiamento in appello” per cui “appare … corretta la formulazione della contestazione quale violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) ed n), non essendovi stata soluzione di continuità tra le condotte precedenti e quelle successive al 19 giugno 2006 e ben potendo, in linea di principio, la reiterata violazione delle disposizione organizzative e condotte scorrette nei confronti dei colleghi integrare gli estremi del previgente del R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 18 (SS.UU. 20 dicembre 2006 n. 27172)”.

E. Il giudice disciplinare – ricordato che “presupposti per l’applicazione della misura cautelare del trasferimento d’ufficio sono la sussistenza di gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e di motivi di particolare urgenza, quest’ultima da individuarsi, a tenore del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 13, comma 1, nella necessità di evitare che il disagio dell’ufficio si traduca in un danno immediato per l’andamento della giustizia … (sez. disc. 7 dicembre 2008 n. 122)”; precisato che “la verifica della fondatezza delle ipotesi investigative sviluppate sull’attentato ed adombrate non solo sulla stampa, ma anche dagli stessi magistrati dell’ufficio, è interamente rimessa ai competenti organi inquirenti e non riguarda in nessun modo il presente procedimento” -, infine, ritiene “pienamente documentate” le “ragioni di urgenza ai fini dell’adozione del provvedimento”, ravvisate “non solo nella gravità delle contestazioni mosse” “direttamente – afferenti profili essenziali dell’attività professionale demandata ai sostituti procuratori generali (che in udienza esauriscono la gran parte della loro funzione)” ma anche nella “grave situazione che si è determinata negli uffici giudiziari reggini, in parte imputabile a condotte consapevoli del dott. N.”, “situazione” che “non consente in nessun modo la prosecuzione della prestazione del servizio da parte sua in quella sede” in quanto:

– “la situazione di tensione e di contrasto all’interno dell’ufficio emerge con drammatica evidenza dagli atti dell’ispettorato”;

– “gli avvenimenti successivi all’avvenuta sostituzione del dott. N. in udienza, ed in particolare l’attentato incendiario del (OMISSIS), lungi dal costituire un post hoc, ergo propter hoc, rilevano, quali ineudibili dati di fatto, esclusivamente per la valutazione della necessità e dell’urgenza del provvedimento richiesto una volta preso atto che le indagini in corso hanno determinato un clima di sospetto e di timore che rinvia, sempre quale dato di fatto, a condotte disciplinarmente significative del dott. N.”.

Secondo il giudice a quo, quindi, “si è determinata … all’interno degli uffici giudiziari di Reggio Calabria una situazione di tensione, disagio e di reciproca diffidenza ampiamente riferita da molte delle persone sentite e che ha avuto ampia risonanza nella stampa nazionale oltre che, ovviamente, ripercussioni imponenti nell’opinione pubblica locale” per cui “la permanenza nella stessa sede e nello stesso ufficio del dott. N. è incompatibile con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia e se ne impone l’immediato allontanamento”.

Lo stesso giudice, considerato che le “condotte contestate” (“tenute nel tempo”) “sono … intrinsecamente connesse con i profili più peculiari dell’attività del pubblico ministero in appello” (di tal che “ove dovessero trovare piena conferma in sede di merito, determinerebbero con grande probabilità l’allontanamento del dott. N. dalle funzioni requirenti”) e che “il provvedimento cautelare, che in qualche misura anticipa in chiave prognostica il possibile esito del giudizio di merito, per il quale è ragionevole prevedere, in caso di raggiungimento pieno della prova di responsabilità, l’applicazione di una sanzione diversa dall’ammonimento e, la destinazione del magistrato ad altra funzione, deve perciò atteggiarsi in ugual guisa”, conclude:

“esercitando il dott. N. le funzioni in grado di appello, la sua destinazione all’attività giudicante in settori meno esposti, in una sede non raggiunta in modo troppo diretto dalle tensioni e dalle polemiche che accompagnano i processi di criminalità organizzata specie in alcune aree del paese, in un contesto nel quale l’attività giurisdizionale possa svolgersi senza l’ombra del condizionamento derivante da rapporti personali e professionali, appare indispensabile … per consentire ai dott. N. di esercitare le funzioni con la necessaria serenità e nelle condizioni indispensabili di prestigio e distacco connaturate al normale esercizio della giurisdizione”.

p.2 – Il ricorso del dr. N..

Il N. chiede di annullare il provvedimento in forza di quattro motivi.

A. Con il primo il ricorrente denunzia “violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. c), unitamente ad omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione, in ordine alla ritenuta giuridica configurabilità dell’illecito disciplinare previsto dalla suddetta norma quando trattisi di magistrati del pubblico ministero” sostenendo che in base all'”enunciato” di queste sezioni unite per il quale “sentenza … n. 15976/2009”) “perchè sia configurabile la violazione di un dovere di astensione è sufficiente che l’esercizio delle funzioni giudiziarie sia oggettivamente qualificabile come illecito penale”), occorre un “necessario ed imprescindibile collegamento tra la violazione disciplinare di cui si tratta e la esistenza di un obbligo di astensione di previsione normativa”, essendo “indiscutibile che il magistrato ha l’obbligo di legge di non integrare fattispecie penalmente rilevanti, ancorchè non punibili per mancanza dell’elemento psicologico”: secondo il ricorrente “non sembra proprio consentito” andare “al di là di questa estensione dell’obbligo di astensione del P.M., in presenza della espressa statuizione del citato art. 2 e con riferimento al tenore dell’art. 52 c.p.p.”.

B. Con il secondo motivo il N. – “ammessa … l’astratta configurabilità dell’illecito in questione con riguardo a magistrati del pubblico ministero” – denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza …

dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. c)” adducendo, “quanto … al profilo oggettivo della pretesa violazione disciplinare”, che “la Sezione Disciplinare”;

“per un verso, non ha potuto esimersi dall’ammettere la totale impossibilità, in sede disciplinare, di sindacare nel merito la correttezza o meno delle richieste formulate dal pubblico ministero in udienza” (“in particolare, di valutare la fondatezza delle ragioni addotte per richiedere la riapertura dell’istruttoria dibattimentale”) e “per altro verso, … non ha in alcun modo dimostrato” che la sua “partecipazione … al processo”, “in sè e per sè considerata”, “fosse stata o dovesse necessariamente essere stata considerata nell’ambiente locale come comportamento disdicevole” avendo ammesso (“ammettendo”) che “la catena dell’allarme su quanto avveniva nell’aula di udienza era riconducibile alla sola iniziativa dell’avv.ssa Dieni, legale della parte civile” “la quale era andata dalla dr.ssa S. per segnalare quanto avvenuto all’udienza del 18 novembre 2009”).

Secondo il ricorrente il giudice disciplinare “ha così implicitamente riconosciuto che proprio dal merito della posizione assunta in detta udienza da esso dr. N. era poi derivata la sollecitazione a quest’ultimo, da parte del dr. D.L., perchè lasciasse il processo”, quindi che “l’addebito disciplinare” mossogli “si fonda non sulla dimostrata necessità che egli, indipendentemente dagli sviluppi del processo (assunti invece come decisivi nell’ordinanza impugnata) si astenesse ab origine dal parteciparvi, ma soltanto sulla reazione che una delle parti processuali aveva ad un certo punto assunto a fronte della ritenuta non condivisibilità, nel merito, di una scelta, in sè e per sè del tutto legittima, adottata nel corso del processo da esso dott. N., quale avrebbe potuto essere adottata da qualsiasi altro magistrato, nell’ambito del largo ed insindacabile margine di discrezionalità proprio della funzione esercitata” (“quella scelta”, peraltro, “nonostante fosse poi stata sconfessata dal dr. Sc., succedute a lui … nella successiva udienza, era stata … in gran parte condivisa dall’organo giudicante, avendo questo ammesso l’esame di due dei tre imputati che avevano reso le dichiarazioni spontanee e, tra essi, proprio del M.”).

Il N. aggiunge che “la stessa avv.ssa Dieni, nel corso della sua audizione da parte degli ispettori ministeriali in data 4 febbraio 2010, aveva dichiarato di aver trovato convincenti le argomentazioni sulla base delle quali il dr. N., in un incontro con lei avuto, le aveva spiegato il perchè della sua adesione alle richieste delle difesa”.

“Con riguardo, poi, al profilo soggettivo (non meno rilevante del primo, atteso che detta violazione, per espresso dettato normativo, dev’essere consapevole)” il ricorrente – ricordato “che era stato lo stesso dr. D.L., all’udienza del 23 settembre 2009, in cui era fisicamente presente, come difensore, tra gli altri, l’avv. Gatto, a chiedere il rinvio del processo perchè ad esso potesse partecipare il titolare, indicato appunto in esso dr. N.” – osserva che “la Sezione Disciplinare, per escludere la rilevanza di tale elemento, si limita a richiamare quanto sostenuto dallo stesso dr. D.L.” (“cioè che questi avrebbe messo a fuoco il rapporto intercorrente tra il sostituto ed il professionista solo dopo aver avuto notizia del proscioglimento del dr. N. in sede disciplinare nell’ottobre del 2009”) “in tal modo … totalmente” ignorando “quanto, a precisa e documentata confutazione della pretesa ignoranza, da parte del dr. D.L., del risalente rapporto professionale tra il dr. N. e l’avv. Gatto, era stato segnalato nella … memoria del 26 aprile 2010, con richiamo ad una serie di dichiarazioni rese da altri magistrati reggini agli ispettori ministeriali”, “in particolare, delle dichiarazioni di I. (questi rapporti erano effettivamente notori e si sapeva che Gatto era il difensore di N. in procedure penali, civili e amministrative), R.F. (so che l’avv. Gatto ha difeso il dott. N. nel processo penale connesso al processo Sa. e nel procedimento disciplinare, com’è noto nell’ambiente locale), G. (so … per essere fatto notorio, del quale si parlava anche negli ambienti giudiziari, che l’avv. Gatto, difendesse il dott. N. in procedimenti che lo riguardavano)”.

C. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) ed n)” – “reiterata violazione delle disposizioni interne all’ufficio con riferimento ai parametri cui attenersi per accedere ai patteggiamenti in appello, essendo risultato che il dott. N. in numerosi casi, analiticamente nei 18 casi elencali nell’incolpazione, aveva dato il consenso a patteggiamenti in limiti assai vantaggiosi per gli imputati senza informarne l’ufficio, nonostante una deliberazione interna prevedesse che nel caso in cui il patteggiamento in appello prevedesse l’abbattimento della pena in misura superiore al terzo, la scelta dovesse essere discussa con il procuratore generale o l’avvocato generale, che dovevano essere informati” – ed espone che la “totale inconsistenza” della motivazione addotta “a sostegno della ritenuta sussistenza di tale illecito” dalla “Sezione Disciplinare” (che, si assume, “si è limitata a richiamare quelle che definisce le numerose fonti testimoniali che ricollegano un diffuso disagio, espresso dai magistrati che avevano seguito il processo in primo grado e comunque circolanti nell’ambiente, qualificandole come allo stato adeguatamente articolate e convergenti, pur con la riserva che esse dovranno essere vagliate in sede dibattimentale ove sarà possibile verificare, nella dialettica dibattimentale, se tutte le lamentele ricevute dal dr. D.L. fossero riferibili al comportamento del dr. N. e sollecitare una più approfondita ricostruzione dei ricordi sulla loro fonte”) “appare ictu oculi, ove si consideri …

l’assoluta genericità ed incontrollabilità dei riferimenti in essa contenuti tanto alle non meglio precisare fonti testimoniali ed ai non meglio indicati magistrati che, avendo seguito il processo (quale?) in primo grado, avrebbero poi espresso (a chi?) il loro disagio, quanto alle voci circolanti nell’ambiente, a proposito delle quali non sembri un fuor d’opera richiamare anche il disposto di cui all’art. 194 c.p.p., comma 3, nella parte in cui pone espresso divieto che i testimoni depongano su voci correnti nel pubblico”.

Per il ricorrente, inoltre, la “motivazione” si presenta “priva di collegamento logico con il fatto posto a base dell’incolpazione” (“pretesa inosservanza delle disposizioni interne dell’ufficio in materia di patteggiamenti in appello”) perchè:

– “la dimostrazione di una tale inosservanza” non può (“non si vede … come possa”) “farsi derivare, anzichè da fonti interne all’ufficio stesso” (“le quali siano quindi in grado di riferirne con cognizione di causa”) “da altre fonti, le quali, secondo quanto asserito nell’ordinanza, non avrebbero in alcun modo attestato (…) che quell’inosservanza vi fosse stata, ma si sarebbero limitate a parlare di un disagio che, evidentemente, siccome derivante da quella che, a loro giudizio, per quanto visibile e percepibile dalla posizione esterna in cui esse si trovavano, sarebbe stata una inadeguata gestione del processo in sede di appello da parte della procura generale, avrebbe potuto prodursi, o non prodursi, indipendentemente dalla circostanza che la gestione stessa fosse stata o meno concordata tra il sostituto d’udienza ed i vertici dell’ufficio di procura generale”;

– il “richiamo … alle lamentele ricevute dal dr. D.L.” non “fornisce … la benchè minima indicazione circa la provenienza ed il contenuto di dette lamentele”.

Il N. adduce, ancora:

– “la candida ammissione” (“contenuta nell’ordinanza impugnata”) per le quali “le lamentele in questione potrebbero anche non avere avuto ad oggetto il comportamento del dr. N., come eventualmente potrebbe emergere all’esito della verifica dibattimentale” lascia “interdetti, a fronte del chiaro disposto normativo secondo cui il trasferimento in via cautelare richiede la sussistenza di gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare” perchè quell’affermazione “equivale ad ammettere la totale inconsistenza, allo stato, di quello che, contraddittoriamente, viene però indicato come grave elemento indiziario a carico dell’incolpato”;

– “l’ordinanza impugnata lascia del tutto senza risposta quanto sul punto in discorso era stato contro-argomentato nella memoria del 26 aprile 2010 …: … b) Con riguardo all’affermazione del dott. D. L. circa le diffuse lamentele di cui egli sarebbe stato destinatario da parte di giudici d’appello, trattasi di affermazione che non solo non ha trovato il benchè minimo riscontro in altre risultanze dell’indagine ispettiva (essendosi peraltro lo stesso dott. D.L. dichiarato non in grado di indicare nominativamente neppure uno dei suddetti giudici), ma è risultata platealmente smentita da tutti i magistrati che risultano essere stati specificamente interpellati sul punto”.

D. Con il quarto (ultimo) motivo il N. denunzia “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle ragioni di urgenza” (“ricollegata”, sostiene, “essenzialmente al clima di sospetto e di timore che, ingeneratosi nell’ufficio della procura generale di Reggio Calabria a seguito del noto attentato dinamitardo del (OMISSIS), rinvia … quale dato di fatto, a condotte disciplinarmente significative di esso dott. N.”) assumendo “non esser dato comprendere … come possa accreditarsi quale dato di fatto la pretesa riconducibilità del clima di sospetto e di timore alle suddette condotte” atteso che “non risultano in alcun modo accertate l’origine e la causale dell’attentato dal quale quel clima sarebbe derivato”.

Il ricorrente, ancora, osserva che dall'”affermazione, … contenuta nell’ordinanza impugnata” (per la quale “la verifica, affidata ai competenti organi inquirenti, delle ipotesi investigative sviluppale sull’allentato ed adombrale non solo dalla stampa ma anche dagli stessi magistrati dell’ufficio non riguarda in nessun modo il presente procedimento”) si dovrebbe “ragionevolmente desumere” che la sua “responsabilità disciplinare … resterebbe comunque configurabile pur se risultasse definitivamente esclusa la fondatezza delle suddette ipotesi (che, in realtà, meglio sarebbe definire come pure e semplici illazioni, prive come risultano essere, allo stato, del benchè minimo riscontro oggettivo), secondo cui (…) l’attentato sarebbe da porre in correlazione con la sostituzione di esso … dr. N. nel processo R., costituendo esso una reazione di ambienti criminali al diverso atteggiamento che la procura generale aveva mostrato di voler tenere nel seguire i procedimenti d’appello contro esponenti di spicco della criminalità locale”.

Lo stesso ricorrente aggiunge:

– “anche ad ammettere che l’attentato fosse stato la risposta della criminalità organizzata locale alla non gradita sostituzione di esso dr. N. nel processo R., rimarrebbe da spiegare (…) per quale ragione quella risposta sarebbe mancata ove esso dr. N. si fosse tempestivamente astenuto, cosi ponendo in essere la condotta la cui omissione gli viene rimproverata come addebito disciplinare”;

“l’accoglimento della richiesta di astensione”, infatti, “altro non avrebbe potuto produrre se non, appunto, quella stessa sostituzione asseritamente e presuntivamente data come causa della risposta malavitosa”);

– “la risposta in questione sarebbe semmai da riconnettere non all’avvenuta sostituzione di esso dr. N., in sè e per sè considerata, ma piuttosto al fatto che l’orientamento da lui espresso all’udienza del 18 novembre 2009 era stato ribaltato (benchè senza grande risultato) dal magistrato che lo aveva sostituito all’udienza successiva”.

“Ma allora”, conclude il ricorrente, “si torna al punto già illustrato nel precedente motivo sub B, dal momento che la colpa di esso dr. N. sarebbe consistita non nel non essersi astenuto, ma nell’aver adottato, nel corso del processo, una determinata condotta poi non condivisa da chi comunque avrebbe dovuto sostituirlo;

condotta che però … la stessa Sezione Disciplinare ha espressamente riconosciuto come non sindacabile in questa sede”.

p.3 – La decisione del ricorso.

Il ricorso deve essere respinto perchè infondato.

A. In via preliminare va evidenziato che – al pari di quanto statuito da queste sezioni unite con le ordinanze 31 luglio 2007 n. 16873 e 5 ottobre 2007 n. 20844) in ordine all’impugnazione delle sentenze della sezione disciplinare del C.S.M. – anche i provvedimenti (quale quello qui gravato) emessi in materia di sospensione di cui agli artt. 21 e 22 nei procedimenti disciplinari promossi successivamente al 19 giugno 2006 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 109 del 2006), sono impugnabili secondo la disciplina a regime introdotta del detto D.Lgs. n. 109, art. 24, come modificalo dalla L. n. 269 del 2006, art. 1, comma 3, ovverosia secondo la disciplina con la quale il legislatore ha scisso la fase di proposizione del ricorso …

dalla sua prosecuzione e trattazione fino alla decisione (giudizio a struttura c.d. bifasica o mista): la prima soggetta alla normativa processuale penale (in cui è perciò operante il sistema normativo risultante dagli artt. 544, 548, 581, 582, 584 e 585 cod. proc. pen.) atteso che il riferimento dell’art. 24 ai termini ed alle forme del procedimento penale sia a significare la necessità di applicare tutte quelle regole che il cod. proc. pen., riserva alla fase di proposizione del ricorso le altre, invece, governate necessariamente dal rito del giudizio civile di cassazione.

Quanto alla normativa processuale penale applicabile alla fase di proposizione del ricorso, è opportuno, nel caso, richiamare in particolare) il disposto della lett. c) dell’art. 581 c.p.p. per il quale l’impugnazione si propone con atto scritto nei quale … sono enunciati …c) i motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta:

il rispetto di tal norma (siccome afferente alle forme dell’impugnazione) imposto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 24, infatti, richiede (Cass., un., 21 gennaio 2010 n. 967) che il motivo di ricorso per Cassazione … contenga l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto dai quali la censura trae fondamento, ovvero che sia autosufficiente, al fine di permettere al giudice di legittimità di verificare, da un lato, l’effettiva assenza di una pronuncia esplicita od implicita su di esse e, dall’altro, la rilevanza della loro soluzione ai fini della decisione”.

L'”applicabilità”, “anche in sede penale”, del “principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione” (affermata da “Cass. sez. fer. 13 settembre 2007 n. 37368” e da “Cass. pen., sez. 1^, sent. 18 marzo 2008, n. 16706) è stata ribadita:

da Cass., pen., 4^, 26 giugno 2008 n. 37982 (depositata il 3 ottobre 2008, secondo cui “… deve essere recepita ed applicata anche in sede penale la regola della cosiddetta autosufficienza del ricorso costantemente affermata, in relazione al disposto di cui all’art. 360 c.p.p. (recte: c.p.c.), n. 5, dalla giurisprudenza civile, con la conseguenza che, quando si lamenti la omessa valutazione o il travisamento del contenuto di specifici atti del processo penale, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi in modo da rendere possibile l’apprezzamento del vizio dedotto”) nonchè:

da Cass., pen., 6^, 8 luglio 2009 n. 31765 (depositata il 31 luglio 2009), la quale affermato che per le “modifiche all’art. 606 c.p.p., lett. e), apportate dalla L. n. 46 del 2006, la mancanza, contradditiorietà o manifesta illogicità della motivazione, oltre che dal lesto del provvedimento impugnato può essere desunta anche da altri atti del processo” ha ulteriormente precisato che, in osservanza di quel principio, “è onere del ricorrente, che si avvalga di detto vizio”; ovverosia che deduca un “vizio” riconducibile al paradigma normativo di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), di “allegare gli atti non esaminali” (“dovendosi comunque il sollecitato controllo coordinarsi con la necessaria specificità del gravame, a cui presidio è anche il principio di autosufficienza del ricorso”), con la precisazione che “quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente indicati posto che anche in sede penale – in virtù de principio di autosufficienza del ricorso sopra richiamato – deve ritenersi precluso a questa Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso”.

B. In secondo luogo si deve rilevare che, come “ripetutamente affermato” da queste sezioni unite (cfr. sentenza 21 gennaio 2010 n. 968, che richiama, “da ultimo”, “Cass. civ. sez. un., sent. 9 novembre 2009, n. 23671”) “non è consentito in sede di legittimità sindacare sul piano del merito le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte di Cassazione limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, adeguatezza ed assenza di vizi logici della motivazione che ne sorregge la decisione”: “l’accertamento all’uopo compiuto dalla sezione disciplinare”, infatti (Cass., un., 24 marzo 2010 n. 7000), “ha natura valutativa e si sottrae a censura in sede di giudizio di legittimità, ove la relativa motivazione non risulti incongrua o de tutto carente”.

Specificamente (excerpta da Cass, un., 21 dicembre 2009 n. 26825, tra le recenti):

– “il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratto decidendi, e cioè l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione adottata (Cass. 3 agosto 2007, n. 17076)”;

– la “carenza di motivazione” (“nella sua duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente”) si ha “solo quando il giudice del merito omette di indicare nella sentenza gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, ovvero indica tali elementi senza però una approfondita disamina logica e giuridica, ma non anche nel caso di valutazione delle circostanze probatorie in senso difforme da quello preteso dalla parte”;

– “si ha motivazione insufficiente nella ipotesi di obiettiva deficienza del criterio logico che ha indotto il giudice del merito alla formulazione del proprio convincimento ovvero di mancanza di criteri idonei a sorreggere e a individuare con chiarezza la rado decidendi, ma non anche quando vi sia difformità rispetto alle attese e alle deduzioni della parte sul valore o sul significato attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati”;

– “il ricorso avverso le decisioni della Sezione Disciplinare non può essere rivolto … ad un riesame dei fatti che hanno formato oggetto di accertamento e di apprezzamento da parte della Sezione stessa” perchè questa Corte “deve limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, adeguatezza e logicità della motivazione che sorregge la decisione (Cass., sez. un., 23 marzo 2007, n. 7102;

Cass.. sez. un., 5 maggio 2006, n. 10313; Cass., sez. un., 12 ottobre 2004, n. 20133; Cass., sez. un.. 23 luglio 2004, n. 13904)”.

C. Il D.Lgs. n. 109 del 2006 – che “disciplina” gli “illeciti disciplinari dei magistrati”, ovverosia (argomentando dall’art. 30 secondo cui il “decreto non si applica ai magistrati amministrativi e contabile”) le fattispecie costituenti “illeciti” punibili con una delle “sanzioni” previste dal suo art. 5 se poste in essere della persona fisica investita (ai sensi del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12) dell'”autorità” di esercitare la “giustizia” (c.d. ordinaria) -, in coerenza (peraltro) con il disposto dell’art. 107 Cost., comma 3, per il quale “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”, non contiene nessuna disposizione che consenta di inferire (od anche di ipotizzare) l’esistenza di una qualche differenziazione legislativa, a fini disciplinari, tra i comportamenti previsti nell’art. 2 (costituenti “illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni”) a seconda delle “funzioni” svolte dall’incolpato, in particolare in base alla summa divisio tra “giudici” e “pubblico ministero” (volgarmente, quindi, tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti): i “magistrati” ordinari, pertanto, sono obbligati tutti (“giudici” e “pubblico ministero”) ad osservare i medesimi “doveri” indicati nel primo comma dell’art. 2 del D.Lgs., nonchè e di conseguenza, ad evitare di tenere i “comportamenti” specificamente considerati nell’art. 2 (al pari di quelli del successivo art. 3).

C.1. Per quanto interessa la fattispecie, va evidenziato che la rilevanza disciplinare del “comportamento” previsto dalla lett. c) dell’art. 2 (“consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge”) non è affatto riducibile ad una funzione per così dire servente (ancillare) – ovverosia di mero rafforzamento – dell’obbligo di astensione dall’esercizio (altrimenti doveroso) della “funzione” posto dalle norme processuali (artt. 51 e 73 c.p.c., rispettivamente per i “giudici” e per i “magistrati del pubblico ministero che intervengono nel giudizio civile”; artt. 36 e 52 del vigente c.p.p. per il “giudice” e per il “magistrato del pubblico ministero”): la violazione dell’obbligo di astensione dall’esercizio della “funzione”, infatti, trova un autonomo, proprio rimedio nel processo, ex se, con la afferente regolamentazione dei vizi degli atti compiuti in violazione, oltre che, se concorrono le condizioni di legge, con la responsabilità patrimoniale o, in estrema ipotesi, penale del magistrato inosservante.

La disposizione disciplinare in esame, tenuto conto dell’effetto deterrente proprio della previsione di una pena a danno dell’inosservante, per sua natura e funzione, costituisce, invece, un rafforzamento dell’obbligo, proprio di tutti i magistrati (quindi a prescindere dalle funzioni in concreto esercitate), di osservare i “doveri” posti singolarmente a carico di ognuno, solo e ci esclusivamente in considerazione della qualità personale, “nell’esercizio delle funzioni” (cioè, ognuno della propria) dall’art. 1, comma 1, ovverosia (per quanto qui rileva) dei “doveri” di “imparzialità”, “correttezza”, “riserbo” e rispetto “delle persone”.

C.2. La natura e, soprattutto, la funzione svolta dalla norma, in una con l’aderente tenore testuale (nel quale non si rinviene alcun riferimento idoneo), quindi, non consentono di porre nessuna limitazione del dovere di astensione del magistrato alle sole previsioni processuali: non è legittimo, pertanto, ridurre i “casi” di obbligo di astensione “previsti dalla legge” (ai quali fa riferimento la disposizione disciplinare) alle sole (innanzi richiamate) ipotesi di astensione previste (per il giudice o per il magistrato del pubblico ministero) dalle norme processuali.

Per effetto della disposizione, quindi, la fattispecie disciplinare in esame deve essere ravvisata in tutti i “casi” in cui una qualsiasi norma di legge imponga al magistrato (svolga esso le funzioni di “giudice” o di “pubblico ministero”) di astenersi dal compiere la funzione di cui e investito: pertanto, non assume nessuna forza logica ostativa la c.d. “tipizzazione … dell’illecito disciplinare” – invocata anche dal ricorrente e già disattesa, sia pure per le ulteriori e condivisibili ragioni esposte da queste sezioni unite nella decisione 25 novembre 2009 n. 24758, per le quali “la avvenuta tipizzazione dell’illecito disciplinare non può influire in una materia in cui sia la giurisprudenza della Sezione disciplinare del CSM che quella di questa Corte ha avuto modo di chiarire in maniera inequivoca che se la previsione costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale (ed il conseguente rischio di paralisi della stessa) sono alla base della prudenza della disposizione normativa che si pone in termini di facoltà e non di obbligo di richiesta di astensione, pure, vadano valutate, caso per caso, le circostanze eventualmente idonee a far apparire l’attività giudiziaria compiuta da un magistrato, anche del P.M. come dettata da fini diversi da quelli di giustizia” – atteso che l’obbligo di astensione disciplinarmente rilevante nasce proprio dalla “tipizzazione” (come innanzi individuata) operata dal legislatore disciplinare.

Da tanto discende, quindi, l’erroneità della tesi che tende a circoscrivere la violazione dell’obbligo di “astensione” disciplinarmente sanzionato dalla norma de qua alle sole ipotesi di astensione obbligatoria previste dalle norme di procedura proprie del processo in cui il magistrato svolge la sua funzione e, quindi, nella sostanza, ad affermare che non è è illecito senza un obbligo (imposto dalle norme di procedura) di astensione, con il conseguente corollario che porta ad escludere esistenza di un qualsiasi obbligo di astensione a carico dei magistrati che svolgono funzioni di pubblico ministero sol perchè l’art. 52 del vigente c.p.p. prevede per lo stesso unicamente la “facoltà di astenersi”, peraltro soltanto “quando esistono gravi ragioni di convenienza”.

C.3. In proposito sembra opportuno precisare che la qualità di “parte” del processo attribuita dalle vigenti disposizioni processuali penali al “pubblico ministero” (talvolta addotta anche a giustificazione del mancato esercizio della “facoltà” di astensione) non significa affatto (e mai) che lo stesso sia titolare di un interesse personale: quel magistrato, quindi, essendo tenuto (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1) a svolgere, sempre, le sue funzioni con “imparzialità” e con “equilibrio”, non può subordinare o mescolare, ad uno proprio, l’interesse pubblico che deve rappresentare al giudice e, di conseguenza, non può mai giustificare la violazione di quella imparzialità o di quell’equilibrio opponendo a “scudo” la disposizione processuale (di sola “prudenza”) che gli attribuisce una facoltà, mai un obbligo, di astenersi, peraltro (Cass., un., 25 novembre 2009 n. 24758) sempre e solo per l’interesse pubblico ad evitare il “rischio di paralisi” dell’obbligatorio esercizio e svolgimento dell’azione penale.

C.4. Siffatta lettura è altresì (non già ostacolata ma) imposta dall’inciso della lettera a) del comma 1 dell’art. 1 “fatto salvo quanto previsto dalle lettere b) e c)” perchè la precisazione “fatto salvo” vuoi solo intendere la non necessità (per la ravvisabilità delle successive fattispecie di incolpazione) che i “comportamenti” violatori dei “doveri di cui al comma 1” (previsti da quelle fattispecie) arrechino (“arrecano”) “ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti” non già che la violazione di quei doveri sia disciplinarmente rilevante unicamente se gli stessi arrechino “ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti”.

C.5. L’esposta esegesi mostra, ove necessario, il pieno fondamento dei principi sul tema della responsabilità disciplinare del magistrato del pubblico ministero che abbia omesso di astenersi dalla partecipazione a processi a lui affidati, affermati da queste sezioni, per i quali (sentenza 11 dicembre 2007 n. 25815, che richiama una “giurisprudenza più che consolidata” data da “Cass. sez., un., 24 gennaio 2003, n. 1088, nonchè Cass., sez. un., 29 gennaio 2007, n. 1821; Cass. 26 febbraio 1999, n. 106)”) “ancorchè l’art. 52 c.p.p., preveda che “il magistrato del pubblico ministero ha la facoltà di astenersi …” il magistrato del p.m., svolgendo nel processo penale funzioni di parte pubblica, tenuta ad agire esclusivamente per il perseguimento dei fini istituzionali di giustizia ad essa assegnati dati ordinamento, ha il dovere, sul piano deontologico e disciplinare, di fare formale istanza di astensione a norma dell’art. 52 c.p.p., tutte le volte che nel processo in cui interviene si manifestino situazioni obiettivamente suscettibili di far ipotizzare che la sua condotta possa essere ispirala a fini diversi da quelli di istituto”.

Tale principio, inoltre, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, non è affatto contrario (o, comunque, diverso) da quello sussumibile dalla decisione (8 luglio 2009 n. 15976) di queste stesse sezioni unite perchè in essa si è bene spiegato che nella fattispecie ivi esaminata non veniva “in discussione … la semplice facoltà di astensione per gravi ragioni di convenienza da un procedimento in corso” ma il “dovere di astensione” perchè “l’esercizio delle funzioni giurisdizionali” era “oggettivamente qualificabile come illecito penale”.

Come evidente l’obbligo del magistrato (anche del pubblico ministero) di astenersi dallo svolgimento della “funzione” affidatagli se e perchè quello svolgimento costituisce “illecito penale” (affermato in tale decisione) non nasce affatto da una afferente norma processuale ma (come la disposizione disciplinare considera) trova la sua fonte in norme di altre “leggi” (ivi da quelle che vietano di aprire “un procedimento … per farsi ragione da sè” e di compiere “atto di ritorsione”).

C.6. In definitiva, va affermato che:

tutti i magistrati ordinari (“giudici” e “pubblico ministero”) sono destinatari dell'”obbligo di astensione” previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. c), “nei casi previsti dalla legge” e che i “casi” di astensione obbligatoria “previsti dalla legge” non sono soltanto quelli enunciati nelle disposizioni dei vigenti codici di procedura (sia civile che penale) ma vanno desunti anche in forza da altre disposizioni di “legge”, quindi pure nelle norme (medesimo D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1) che prevedono i “doveri” di tutti i magistrati, indipendentemente dalla funzione esercitata.

Ogni magistrato (“giudici” e “pubblico ministero”), pertanto, è obbligato ad astenersi dallo svolgimento della sua “funzione” tutte le volte che quello svolgimento si concretizzi in “comportamenti” che violano uno o più dei doveri indicati nell’art. 1.

D. In fatto, poi ed infine, va esclusa la sussistenza, nel provvedimento impugnato, di qualsivoglia vizio motivazionale in ordine all’affermato obbligo di astensione da parte del dr. N. avendo il giudice disciplinare adottato lo stesso in base ad un ragionamento logico pienamente coerente con i principi giuridici indicati nei punti che precedono e in tutto aderente al complesso degli elementi di fatto in suo possesso.

D.1. La sezione, infatti, ha evidenziato che “le condizioni che imponevano l’astensione” del ricorrente sono costituite (1) dall'”esistenza di un consolidato e risalente rapporto professionale tra il dott. N. e l’avv. Gatto” (“essendo il primo cliente del secondo con riferimento a una pluralità di procedimenti”) e (2) dalla pendenza, presso “il Consiglio Superiore”, di un “procedimento disciplinare nel quale il professioni sta assisteva il magistrato”, che “si svolgeva simultaneamente al processo penale”, ovverosia dallo “specifico disagio” determinato (“prima ed indipendentemente dai fatti avvenuti poi a (OMISSIS)”) dal complesso “rapporto professionale” intercorrente tra il dr. N. ed il difensore di un imputato in un processo nel quale lo stesso rappresentava la pubblica accusa, “disagio” emergente “con chiarezza da quanto riferito dal Procuratore Generale dott. … D.L., dall’aggiunto dott. … Sc., dal procuratore … P., dal sostituto … S.”, oltre che dall'”avv.ssa …

Dieni”.

Non è, quindi, vero che l'”addebito disciplinare” si fondi sulla “reazione” di una delle parti processuali (nel caso, del “legale di parte civile”) ad una “scelta” di esso dr. N. “adottata nel corso del processo” perchè, come ulteriormente specificato dal giudice disciplinare (che ha richiamato “a mero titolo esemplificativo” sia la “conversazione”, avvenuta dopo la sostituzione, “tra l’avvocatessa ed il Procuratore Generale” che quanto “constatato e riferito” dalla “dott.ssa R., funzionario della squadra mobile … presente in udienza” nonchè il giudizio del “presidente della corte” di appello sulla “inopportunità della presenza del dott. N. in udienza”), “una volta conosciuta la materialità dei fatti, ciascuna delle figure istituzionali coinvolte percepì in modo autonomo e convergente la grave inopportunità della situazione che si era determinata a causa della sua oggettiva rilevanza e non certo per le particolari modalità o stati d’animo riferiti dall’avv.ssa Dieni”.

Vaie appena segnalare l’assoluta irrilevanza, sul piano del “profilo soggettivo”, del fatto (addotto da ricorrente) che il dr. D.L. (Procuratore Generale) avrebbe “messo a fuoco il rapporto intercorrente tra il sostituto ed il professionista solo dopo aver avuto notizia del proscioglimento del dr. N. in sede disciplinare nell’ottobre del 2009” perchè per la norma disciplinare è necessaria e sufficiente la consapevolezza del solo magi strato (non anche di altri, anche preposti) di essere parte di una situazione personale che sia (come quella in cui versava il dr. N.) oggettivamente incompatibile con l’espletamento della funzione assegnata allo stesso in consonanza con l’osservanza dei doveri posti a carico del medesimo dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1.

D.2. La “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d) ed n)” (punto C. del par. 2: “reiterala violazione delle disposizioni interne all’ufficio con riferimento ai parametri cui attenersi per accedere ai patteggiamenti in appello”) denunziata dal ricorrente, poi, è inammissibile (giusta i principi richiamati al punto A del par. 3) per carenza espositiva sia del contenuto delle “disposizioni interne all’ufficio” (la cui “esistenza” è stata accertata dal giudice disciplinare) che dei necessari, elementi fattuali concernenti i “18 casi elencati nell’incolpazione”: tale carenza, infatti, non consente in alcun modo di apprezzare la conferenza delle ragioni esposte dal ricorrente nella sua censura, in particolare quanto alla valenza giuridica delle “lamentele” dallo stesso criticamente evocate.

in proposito, ancora, va rilevato che la salvezza, richiamata dal giudice disciplinare, dell'”esito della verifica dibattimentale” non costituisce “candida ammissione” di “totale inconsistenza” del fatto ascritto nell’incolpazione ma solo una ovvia, lecita e logica riaffermazione della natura meramente delibatoria dell’accertamento di quel fatto da esso compiuto unicamente al fine della necessaria verifica delle sussistenza delle condizioni (“fatti rilevanti sotto il profilo disciplinare, che per la loro gravità, siano incompatibili con l’esercizio delle funzioni”) richieste dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22, per l’adozione di un provvedimento di “sospensione cautelare” a carico dell’incolpato nelle more della decisione definitiva.

D.3. Le “ragioni di urgenza” che per il giudice a quo legittimano l’adozione del provvedimento impugnato, infine, risultano confermate proprio dalle osservazioni conclusive del ricorrente (“l’accoglimento della richiesta di astensione altro non avrebbe potuto produrre se non … quella stessa sostituzione … data come causa della risposta malavitosa”; questa “risposta … sarebbe semmai da riconnettere” all'”orientamento … espresso all’udienza del 18 novembre 2009 ribaltato … dal magistrato che lo aveva sostituito”): in queste, infatti, il dr. N. riconosce univocamente che comunque lo svolgimento da parte sua della funzioni di ufficio nella medesima sede è divenuta “incompatibile” come la norma richiede.

4. Nessun provvedimento deve essere adottato in ordine alle spese del giudizio di legittimità non avendo le parti pubbliche intimate svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 ottobre 2010.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2011

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