Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3856 del 17/02/2020

Cassazione civile sez. II, 17/02/2020, (ud. 28/11/2019, dep. 17/02/2020), n.3856

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28744/2015 proposto da:

V.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA n. 86,

presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI RANALLI, che lo rappresenta

e difende;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI TERNI, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e

difeso dall’avvocato PAOLO GENNARI e domiciliato presso la

cancelleria della Corte di Cassazione;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 494/2015 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 14/08/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione ritualmente notificato V.R. evocava in giudizio il Comune di Terni innanzi il Tribunale di Terni, invocandone la condanna alla riconsegna di alcuni locali di sua proprietà siti in uno stabile di proprietà, per la restante parte, del Comune convenuto ed al risarcimento del danno. L’attrice esponeva di aver consegnato le proprie porzioni immobiliari al Comune di Terni per consentire l’esecuzione di un intervento di recupero e ristrutturazione dell’intero edificio, con l’intesa che le opere avrebbero dovuto essere ultimate entro l’8.8.1996; che il Comune aveva comunicato la fine lavori il 14.8.1996, in ritardo rispetto alla scadenza pattuita; che tuttavia i locali di proprietà V. non erano stati liberati dagli oggetti e dei materiali ivi depositati nel corso dei lavori, tanto che il loro stato di occupazione era stato accertato in occasione di un successivo sopralluogo eseguito nel contraddittorio tra le parti in data 3.11.2003; che infine le opere eseguite dal Comune presentavano vizi. Su tali basi, l’attrice invocava l’accertamento della responsabilità del Comune convenuto per il danno, tanto derivante dai vizi delle opere che dalla ritardata riconsegna dei locali.

Si costituiva il Comune resistendo alla domanda principale e spiegando a sua volta domanda riconvenzionale per la condanna della V. al saldo della quota parte dei lavori di sua competenza.

Con sentenza n. 504/2012 il Tribunale di Terni accoglieva tanto la domanda principale che quella riconvenzionale, condannando – all’esito delle compensazioni tra le varie poste in dare ed in avere – il Comune al pagamento in favore della V. di una somma comprensiva tanto del danno da ritardata riconsegna dei locali che del controvalore dei vizi riscontrati nelle opere fatte eseguire dall’ente locale.

Interponeva appello principale il Comune di Terni e spiegava appello incidentale la V..

Con la sentenza oggi impugnata, n. 494/2015, la Corte di Appello di Perugia riformava parzialmente la decisione di prime cure, escludendo il danno derivante dai vizi delle opere, riducendo la somma da riconoscere alla V. per l’occupazione e la ritardata riconsegna dei locali e confermando la condanna della V. al pagamento in favore del Comune della quota parte delle opere eseguite di sua competenza. All’esito, la Corte territoriale condannava l’ente locale a versare alla V. la differenza tra le varie poste a credito e debito, ammontante ad un importo inferiore rispetto a quello a suo tempo liquidato dal Tribunale.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione V.R. affidandosi a tre motivi. Resiste con controricorso il Comune di Terni. La parte ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1220 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente ridotto l’importo del risarcimento del danno derivante dalla ritardata restituzione degli immobili di proprietà della V.. Ad avviso di quest’ultima la Corte di seconda istanza avrebbe errato nel ravvisare, nelle lettere inviate dal Comune alla V. in data 14.6.1996 e 26.11.1999, gli estremi di una offerta non formale di riconsegna dei locali, posto che a tali date questi ultimi erano ancora ingombri di materiali; l’offerta di riconsegna contenuta nelle dette missive, pertanto, non avrebbe dovuto essere ritenuta dal giudice di merito idonea alla liberazione del debitore, non presentando i requisiti di serietà e completezza.

Con il secondo motivo la ricorrente lamenta l’ulteriore profilo di violazione e falsa applicazione dell’art. 1220 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3., perchè la Corte di seconde cure avrebbe errato nel non considerare le missive con cui il Comune aveva offerto alla V. la riconsegna dell’immobile di cui è causa sub specie di semplici dichiarazioni unilaterali, non idonee ad integrare quel comportamento non equivocamente diretto ad assicurare la soddisfazione dell’interesse del creditore. In assenza di prova del fatto che il creditore era stato posto in grado di disporre in modo totale e completo dell’oggetto della prestazione, infatti, la Corte perugina non avrebbe dovuto attribuire alle predette comunicazioni un valore di offerta non formale che, oggettivamente, non avevano. Ad avviso della ricorrente, infatti, l’offerta non formale non può risolversi in una semplice lettera, ma deve contemplare l’invito del destinatario ad essere presente in un determinato luogo e ad un certo orario per ricevere la prestazione dovutagli (nel caso specifico, per la redazione del verbale di riconsegna dell’immobile).

Le due doglianze, che per la loro connessione meritano un esame congiunto, sono inammissibili.

Va infatti applicato al caso specifico il principio, affermato da questa Corte in relazione alla diversa fattispecie della riconsegna dell’immobile locato, secondo cui l’adozione da parte del soggetto che abbia la materiale disponibilità del bene di modalità aventi valore di offerta non formale, ai sensi dell’art. 1220 c.c., pur non essendo sufficiente a costituire in mora il soggetto cui l’offerta è diretta, è tuttavia idonea ad evitare la mora del debitore e ad escludere, quindi, il prodursi dei relativi effetti, con particolare riguardo al sorgere dell’obbligazione di risarcimento del danno per il ritardo (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13345 del 07/06/2006, Rv. 591114; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2086 del 13/02/2002, Rv. 552262; Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 1337 del 20/01/2011, Rv. 616461).

L’apprezzamento del contenuto dell’offerta non formale e della sua idoneità ai fini dell’esclusione della mora debendi attinge le concrete modalità con cui essa è stata eseguita e si risolve, pertanto, in una valutazione di fatto demandata al giudice di merito. Analogamente a quanto previsto in tema di interpretazione del contratto, tale operazione logica è utilmente censurabile in Cassazione soltanto per vizi di motivazione in relazione alla corretta applicazione dei canoni di ermeneutica di cui agli artt. 1362 c.c. e segg. (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 29111 del 05/12/2017, Rv.646340; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 420 del 12/01/2006, Rv.586972). Nel caso specifico, la ricorrente non deduce, nelle due censure in esame, alcuna violazione dei predetti canoni, ma si limita ad invocare, in concreto, una revisione dell’accertamento di fatto svolto dalla Corte umbra circa il contenuto e l’effetto delle comunicazioni inviate dal Comune alla V.. Dal che discende l’inammissibilità di entrambe le doglianze esaminate.

Con il terzo ed ultimo motivo la ricorrente lamenta il difetto assoluto di motivazione circa un punto decisivo della controversia, perchè la Corte di Appello non si sarebbe pronunciata sull’eccezione di non compensabilità tra le poste, rispettivamente a credito e a debito, che la ricorrente stessa aveva proposto nel giudizio di merito.

La censura è infondata.

Ed invero la Corte di Appello, diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente, ha implicitamente statuito sul punto, affermando (cfr. in particolare penultima ed ultima pagina della decisione impugnata) che “L’appello incidentale consiste invece nell’elencazione delle opere di finitura (impianti tecnologici, infissi) mancanti e dei loro vizi e nell’assunto che di tali mancanze e vizi il Comune debba rispondere. Peraltro, dalla c.t.u. e dal suo supplemento si ricava chiaramente che l’opera di recupero primario fu correttamente eseguita (si veda, in chiaro, a f. 3 del supplemento) e che le carenze e i vizi riguardarono solo le opere di recupero secondario, cui il Comune non era tenuto e – osserva la Corte – per la cui eliminazione si riconosce rimborso”. Il riconoscimento del fatto che le opere di recupero primario fossero state regolarmente eseguite dal Comune implica necessariamente l’obbligo della V. di corrispondere all’ente locale il relativo importo; mentre l’affermazione secondo cui le opere di recupero secondario non fossero dovute dal Comune comporta l’esclusione della responsabilità di quest’ultimo per il loro mancato completamento; infine, quanto ai vizi, la Corte territoriale afferma che essi sono stati compresi nell’importo totale riconosciuto alla V.. Poichè all’esito di tale operazione valutativa, evidentemente fondata sugli elementi acquisiti nel corso dell’istruttoria del giudizio di merito, le due poste, rispettivamente a credito della V. (per occupazione dei locali e vizi delle opere) e del Comune (per i lavori di recupero primari eseguiti) sono state accertate e determinate, sia nell’an che nel quantum, la Corte territoriale ne ha correttamente operato la compensazione impropria, essendosi in presenza di reciproche obbligazioni derivanti da un unico rapporto giuridico. Il tal caso, l’operazione contabile di accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite può essere compiuto dal giudice d’ufficio, diversamente da quanto accade nel caso di compensazione cd. propria, che invece, per poter operare, postula l’autonomia dei rapporti e l’eccezione di parte (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7474 del 23/03/2017, Rv. 644828; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12302 del 15/06/2016, Rv. 640321). In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

Poichè il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, va dichiarata la sussistenza, ai sensi del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dei presupposti processuali per l’obbligo di versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000 di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva e cassa avvocati come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 28 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2020

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