Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3849 del 17/02/2020

Cassazione civile sez. II, 17/02/2020, (ud. 19/09/2019, dep. 17/02/2020), n.3849

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23779-2015 proposto da:

S.A., rappresentata e difesa dall’Avvocato

ALESSANDRA MARI, presso il cui studio a Roma, piazza Santa Anastasia

7, elettivamente domicilia, per procura speciale in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

G.M.L., e T.I., in proprio e quale erede di

T.C. ed B.I., rappresentati e difesi

dall’Avvocato ROBERTO TURRONI e dall’Avvocato MARIA TERESA

BARBANTINI, presso il cui studio a Roma, via Caio Mario 7,

elettivamente domiciliano, per procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

e

BRIENZ DI B.V. & C. S.A.S., già G.E. & C.

s.n.c., e G.M.S. & C. S.N.C., rappresentate e

difese dall’Avvocato ANNARITA MANNA, presso il cui studio a Roma,

via Paolo Emilio 7, elettivamente domiciliano, per procura speciale

in calce al controricorso;

– controricorrenti –

nonchè

Z.A., F.G., in qualità di erede di

F.P., F.E., in qualità di erede di F.P.,

F.N., in qualità di erede di F.P., F.M., in

qualità di erede di Fo.Gi., M.P., in proprio e quale

erede di M.G., M.N., in proprio e quale erede

di M.G., T.P., in proprio e quale erede di

T.C. ed B.I.; T.I. quale erede di

B.I.;

-intimati-

nonchè

C.D., e C.D., in proprio e quali eredi di

G.M.L., rappresentate e difese dall’Avvocato ROBERTO

TURRONI ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’Avvocato

LUIGI FEDELI BARBANTINI, via Circonvallazione Clodia 29, per procura

speciale in calce alla comparsa di intervento volontario;

– interventori –

avverso la sentenza n. 554/2015 della CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA,

depositata il 10/3/2015;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

19/9/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto

Procuratore Generale della Repubblica, Dott. CELESTE ALBERTO, il

quale ha concluso per il rigetto del 1, del 2 e del 3 motivo del

ricorso principale e per l’accoglimento del 4;

sentito, per la ricorrente, l’Avvocato LAURA MARA;

sentito, per i controricorrenti, G.M.L. e

T.I., l’Avvocato ROBERTO TURRONI;

sentito, per le società controricorrenti, l’Avvocato ANNARITA MANNA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Rimini, con sentenza del 5/4/2006, in parziale accoglimento delle domande che S.A. e S.C.C. avevano proposto con atti di citazione notificati tra il 20 ed il 22/12/1997, ha condannato, in solido tra loro, Z.A., F.P., F.G., G.M.L., M.P. e M.N., in proprio e quali eredi di M.G., nonchè T.P. e T.I., in proprio e quali eredi di T.C., a pagare alle attrici la somma complessiva di Euro 1.239,48, oltre accessori.

Il tribunale ha, invece, rigettato le domande che le attrici avevano proposto contro B.I., la s.n.c. G.E. & C. e la s.n.c. G.M.S. & C..

S.A. e S.C. hanno proposto appello con il quale, in parziale riforma della sentenza impugnata, hanno chiesto che la corte d’appello accogliesse le conclusioni formulate in primo grado, vale a dire, per quanto ancora interessa:

a) di ritenere che la condotta della parte venditrice (e cioè M.G., T.C., Z.A., F.P. e F.G., G.M.L.) in occasione della stipulazione, in data 25/5/1973, 28/3/1975 e 17/8/1973, di tre contratti di vendita a rogito del notaio F. – i primi due in favore di S.A., il terzo in favore di S.C. – aveva integrato, ai fini di cui all’art. 1440 c.c., gli estremi del raggiro e, quindi, di condannare i venditori, in solido tra loro, al risarcimento dei danni ad esse arrecati, ciascuna per quanto di diritto, consistenti nel disagio esistenziale e nel minor vantaggio economico derivato dall’acquisto di appartamenti cui non ha fatto seguito il trasferimento dei diritti dominicali pro quota anche sulle aree coperte del piano terra del’edificio in condominio, denominato “(OMISSIS)”, ora contrassegnato dai subalterni (OMISSIS), da determinare secondo le risultanze istruttorie ed, in particolare, le osservazioni del consulente di parte e, comunque, secondo i criteri e le risultanze fornite dal consulente tecnico d’ufficio, ovvero, in via subordinata, con liquidazione equitativa, oltre interessi e rivalutazione;

b) di riformare, nel quantum, la sentenza appellata, che ha parzialmente accolto la domanda in tema di violazione delle norme urbanistiche riguardanti i parcheggi obbligatori per gli insediamenti abitativi, avendo riguardo, a fronte dei parametri vistosamente errati o irrisori presi in considerazione dal tribunale e del periodo in cui tale pregiudizio ha preso corpo, al danno corrispondente al reale costo dei pubblici parcheggi applicati nella stagione estiva, per almeno tre mensilità, a partire quantomeno dal 1988, con la conseguente pronuncia di condanna;

c) di dichiarare l’illegittimità della destinazione impressa al piano terreno dell’edificio in condominio dalla società G.E. & C. s.n.c., ora Brienz di B.V. & C. s.a.s., e dalla società G.M.S. & C. s.n.c., alla stregua dell’art. 8 del regolamento condominiale, e, per l’effetto, inibire alle società medesime siffatto uso dei subalterni (OMISSIS);

d) di ritenere l’illegittimità del transito e del parcheggio su aree condominiali della clientela degli Hotels Brienz e Amalfi e, quindi, inibire alla società G.E. & C. s.n.c., ora Brienz di B.V. & C. s.a.s., ed alla società G.M.S. & C. s.n.c. di continuare a destinare le aree condominali a siffatto uso.

Gli appellati G.M.L. ed T.I. (in proprio e quale erede di T.C. ed B.I.) hanno resistito all’appello, chiedendone il rigetto, e, nel contempo, in parziale riforma della sentenza impugnata, hanno chiesto l’accoglimento dell’appello incidentale e di tutte le conclusioni formulate in primo grado, compresa l’intervenuta prescrizione ai sensi dell’art. 2947 c.c. del diritto al risarcimento di ogni danno fatto valere dagli appellanti.

La Brienz di B.V. & C. s.a.s. (già G.E. & C. s.n.c.) ha chiesto, in via preliminare, di dichiarare la già eccepita prescrizione di ogni diritto delle appellanti in merito alle domande proposte da queste ultime ed, in via principale, di respingere l’appello in quanto totalmente infondato in fatto e in diritto, confermando in toto l’impugnata sentenza.

La G.M.S. & C. s.n.c. ha chiesto di respingere totalmente l’atto d’appello proposto dalle appellanti, con l’accoglimento delle conclusioni e delle eccezioni, compresa quella di prescrizione, già rese nel giudizio di primo grado.

La corte d’appello di Bologna, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello principale ed, in accoglimento dell’appello incidentale, ha respinto la domanda proposta dalle attrici per violazione della L. n. 765 del 1967, art. 18.

La corte, innanzitutto, ha esaminato il primo titolo di responsabilità fatto valere dalle appellanti, e cioè il dolo incidente nei contratti di acquisto, per avere i venditori-costruttori fatto loro credere, assicurandoglielo perfino davanti al notaio, che fosse condominiale una certa area terrena esterna, adibita a parcheggio automobilistico, ciò che si sarebbe rivelato falso nel 1997 all’esito di una consulenza professionale, dopo che, nel frattempo, la vendita di tale area nel marzo del 1988 dagli stessi venditori alle società alberghiere convenute aveva posto materialmente fine al parcheggio fino ad allora comunque consentito ai condomini.

La corte, al riguardo, dopo aver ricordato che il tribunale aveva escluso la sussistenza del dolo sul rilievo che, a fronte del contrasto tra le dichiarazioni dei venditori e i documenti richiamati negli atti di acquisto, e cioè il regolamento condominiale ed un altro rogito del 1972, che qualificano diversamente l’area in oggetto, le compratrici erano state macroscopicamente negligenti, avendo omesso i controlli più elementari in ordine all’oggetto della compravendita; e dopo aver evidenziato che le appellanti avevano censurato la sentenza del tribunale sul rilievo, tra l’altro, che la decisione era stata resa con riferimento al dolo determinante, che il regolamento condominiale era coerente con le dichiarazioni resa dai venditori in contrasto con il contenuto dei rogiti, che il rogito R. astutamente non era stato esibito dai venditori come testimoniato dai mariti delle compratrici presenti alla stipulazione degli atti d’acquisto e che il tribunale aveva omesso di considerare la concordanza delle testimonianze rese ed il valore confessorio costituito dal rifiuto dell’interrogatorio da parte dei convenuti; ha ritenuto che le dichiarazioni che le appellanti attribuiscono ai venditori per inferirne la malafede e l’inganno, risultano tutt’altro che dimostrate.

La corte, in particolare, ha evidenziato che “i mariti testimoni, anche se sono due anzichè uno…, non possono accreditarsi in questo contesto concreto dove la solidarietà piena con la parte che li ha indotti è al limite dell’identificazione”, come indicato da plurimi e convergenti elementi indiziari, costituiti “dall’accompagnamento nelle fasi salienti attraverso le quali veniva realizzandosi l’affare (dalla visita degli appartamenti allo studio notarile); dalla condivisione dell’interesse specifico per il posto auto interesse di fatto sì, ma forte e pervasivo -; dal futuro uso comune dell’appartamento marino; e perfino dallo espressione ripetuta della prima persona plurale per raccontare la vicenda durante la testimonianza”, tanto più – ha aggiunto – in mancanza di significativi riscontri oggettivi, come tale non potendosi considerare nè il regolamento condominiale, che sulle parti comuni è una mera ripetizione della previsione normativa “senza dati concreti individuanti il portico contestato”, nè la confessione dei convenuti propugnata dalle appellanti, non corrispondendo al vero il fatto che essi non fossero comparsi per farsi interrogare, posto che tanto il T., quanto la G. erano presenti il primo all’udienza del 26/9/2000 ed entrambi all’udienza del 9/10/2001, per cui il rinvio delle udienze solo per l’assunzione di altre testimonianze fa desumere “una convergente condotta tacita delle parti inequivocabilmente tesa a soprassedere all’interrogatorio”.

La corte, poi, ha ritenuto che, “in ogni caso”, anche a voler ritenere che quelle dichiarazioni fossero dimostrate, “l’oggettività” degli atti d’acquisto, con il loro espresso richiamo al rogito del 1972, “che riservava sull’area in oggetto un diritto ai venditori incompatibile con quello condominiale che le compratrici dicono essere stato loro assicurato”, esclude la loro univoca idoneità all’inganno e a sorprendere la buona fede delle acquirenti: “i venditori non hanno nascosto col silenzio la condizione giuridica di quella certa porzione immobiliare; anzi, hanno fornito i dati individuanti il rogito che la descriveva; e se anche avessero a parole detto cose diverse, ciò avrebbe significato solo un contrasto che l’ordinaria diligenza avrebbe imposto di chiarire con la semplice richiesta di vedere quell’atto che, attraverso il rinvio, veniva a far parte integrante dello stesso contratto che si stava stipulando”.

Del resto, ha aggiunto la corte, l’attestazione dell’avvenuta lettura del testo dei rogiti delle compravendite e la comprensione che se ne presume, non lascia dubbi sulla conoscibilità del rogito del 1972 che vi era richiamato: e poichè le attrici non hanno dichiarato di aver chiesto di vedere quel rogito e di averne avuto una risposta sfuggente o dissuasiva, devono imputare solo a sè stesse d’essere cadute in errore in ordine al diritto condominiale di parcheggio.

La corte, in definitiva, ha ritenuto che la soluzione del tribunale fosse l’unica coerente: – con l’ordinaria diligenza esigibile in negozi importanti, quali sono i trasferimenti come quello in esame; – con il materiale probatorio, nel quale è predominante la forza degli atti pubblici d’acquisto; – con la condotta concreta attribuita ai venditori.

E se anche la sentenza del tribunale ha citato precedenti relativi all’art. 1439 c.c., ha concluso la corte, ciò in concreto non ha avuto alcuna funzione sul ragionamento relativo alla concreta idoneità ingannevole della condotta che era stata dedotta.

La corte ha provveduto, quindi, ad esaminare il secondo titolo di responsabilità fatto valere dalle attrici, vale a dire la violazione della L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies per il deficit di posti di parcheggio dovuta all’indisponibilità dell’area identificata catastalmente al f. (OMISSIS) pur se a ciò destinata nel progetto licenziato dal Comune nel 1962.

La corte, al riguardo, ha evidenziato come il tribunale avesse condannato in ragione del calcolo peritale circa il rapporto tra le dimensioni della costruzione e la superficie dei parcheggi e della sua discesa sotto il minimo stabilito nel 1991 per la definitiva sottrazione, in conseguenza della vendita a terzi, di un’area di mq. 352 (p.lla (OMISSIS)) compresa nella superficie a parcheggio, determinando equitativamente il quantum in base al costo presumibile dei parcheggi pubblici per gli anni 92-97.

Tale statuizione, ha aggiunto la corte, è stata censurata sia con l’appello principale, che critica il parametro della liquidazione, sia con l’appello incidentale, sul rilievo che la p.lla (OMISSIS) non è in realtà mai appartenuta al condominio.

La corte ha ritenuto che fosse fondato l’appello incidentale lì dove, in particolare, gli appellati G. e T. hanno ribadito che, a fronte dell’indisponibilità dell’area scoperta individuata dalla p.lla (OMISSIS) non solo dal 1991 ma già da prima (come espressamente dedotto dalle stesse attrici nella citazione originaria, con documenti che ne attestavano la proprietà altrui), il diritto azionato dalle attrici era prescritto.

La corte, in particolare, dopo aver evidenziato che, ai fini della responsabilità di cui alla L. n. 765 del 1967, aqrt. 18 ciò che rileva è l’effettiva disponibilità per il parcheggio delle aree contemplate nel provvedimento abilitativo, per cui, come non basta la mera previsione formale, così non basta la concreta destinazione a parcheggio di spazi che non fossero contemplati nel titolo abilitativo, ha rilevato, per un verso, che dalla consulenza tecnica d’ufficio emerge che, nel permesso n. 102 del 1969, era stata ufficialmente compresa nella superficie destinata a parcheggio l’area esterna scoperta della p.lla (OMISSIS), e, per altro verso, che, come eccepito nell’appello incidentale, tale area (sulla cui effettiva messa a disposizione lo stesso tribunale aveva dubbi, tant’è che aveva riconosciuto il risarcimento solo a partire dalla sua vendita nel 1991, che gliel’ha fugato) non era mai stata concretamente disponibile per l’uso del parcheggio da parte dei condomini.

La corte ha ritenuto dimostrato quest’ultimo fatto: e ciò significa che “la violazione della L. n. 765 del 1967, art. 18 c’è sempre stata fin dagli acquisti delle signore S. e S.”, per cui, “non essendosi mai avuta la disponibilità concreta dell’area scoperta (part. (OMISSIS)) che secondo il titolo abilitativo contribuiva alla legittimità del rapporto dimensioni/parcheggi,… il bene soggetto ex lege al vincolo di destinazione non è mai venuto ad esistenza”, non rilevando, per contro, la destinazione materiale dell’area scoperta (part. (OMISSIS)) non contemplata dal predetto titolo.

Ne consegue, ha proseguito la corte, che l’eccezione di prescrizione sollevata dai convenuti è fondata: il diritto al risarcimento dei danni che le attrici hanno fatto valere, infatti, si è prescritto non essendo stati dimostrati impedimenti legittimi ad azionarlo fin dagli atti d’acquisto, mentre, al momento della lettera del 1992, alla quale il tribunale ha attribuito efficacia interruttiva, era già trascorso il tempo sufficiente per la prescrizione.

La corte, sul punto, ha evidenziato che le compratrici, una volta entrate in possesso del bene, avevano, come si presume l’abbia qualunque proprietario, la possibilità di rendersi conto della condizione materiale e giuridica del bene e, quindi,;verificare quali aree non fossero disponibili per i parcheggi condominiali: il fatto che lo fosse quella coperta della p.lla (OMISSIS) non significa nulla perchè non era stata contemplata dal permesso di costruire del 1969, mentre i venditori-costruttori se l’erano riservata per un diritto incompatibile con quello condominiale.

In definitiva, ha concluso la corte, l’ignoranza che le attrici invocano prima del 1997, quando hanno dichiarato di essersi accorte della reale condizione del suolo condominiale attraverso l’opera di un consulente, non è meritevole di tutela ed è, oltretutto, contraddetta con la lettera del 1992 che hanno invocato come interruzione della prescrizione.

La corte, quindi, ha provveduto ad esaminare il terzo titolo di responsabilità azionato dalle attrici, e cioè la violazione del regolamento condominiale, per avere le società alberghiere adibito a rimessa dei propri clienti l’area coperta acquistata nel 1988.

Al riguardo, dopo aver ricordato come il tribunale aveva rigettato la domanda che le attrici avevano proposto nei confronti delle società convenute in ragione della sostanziale identità dell’uso dell’area, sia che vi parcheggino i loro clienti, sia che vi parcheggino i condomini, e che la statuizione era stata censurata dalle appellanti sul rilievo che il collegamento funzionale tra i locali degli alberghi estranei al condominio e l’area condominiale dove i loro clienti vanno a parcheggiare accomunava la destinazione degli immobili ad attività alberghiera, così incorrendo nel divieto regolamentare, la corte ha ritenuto che l’appello fosse infondato per: – l’oggettività dell’attività materiale, la quale non muta sol che la ponga in essere il condomino o una diversa persona da lui autorizzata, come il locatario del posto auto, ecc.; – la marginalità e l’eventualità del parcheggio da parte dei clienti, la quale smentisce, alla luce del criterio della prevalenza, il collegamento funzionale che le appellanti hanno invocato per inferirne la violazione dell’art. 8 del regolamento condominiale; – gli artt. 1362 c.c. e ss. impediscono di riferire il divieto alle aree esterne, che non possono essere comprese nella comune definizione di “alloggi” e “locali” di cui parla la norma, alla luce della ratio che si ricava dalle altre attività proibite e dalla sua previsione di chiusura: l’eventuale parcheggio dei clienti di per sè non è nè più rumoroso di quello del condomino nè più foriero di tensioni nei dintorni o assembramenti, nè più rischioso per l’ordine pubblico o l’igiene, ecc..

La corte, infine, ha esaminato il quarto titolo di responsabilità fatto valere dalle attrici nei confronti delle società convenute, vale a dire l’illecito uso della cosa comune per violazione dell’art. 1102 c.c., in ragione del transito e del parcheggio su aree condominiali delle autovetture della relativa clientela.

La corte ha rilevato che il tribunale aveva respinto la domanda sul rilievo tanto dell’identità dell’attività di parcheggio, quanto della qualità di condomino che spetta alle predette società, che ne legittima il transito sulle aree condominiali, e che tale statuizione era stata censurata dalle appellanti per non avere il tribunale considerato lo spirito e la lettera del divieto regolamentare dell’attività alberghiera nel condominio (OMISSIS) in relazione al collegamento che il transito della clientela degli alberghi attraverso le aree condominali crea tra queste e gli alberghi della convenuta, imponendo sulle prime un peso non autorizzato a vantaggio dei secondi.

La corte, sul punto, ha condiviso l’analisi del tribunale per la mancanza di un concreto aggravio, del quale manca la prova, rinviando, sul punto, ai rilievi contenuti nella consulenza tecnica d’ufficio; d’altra parte, ha aggiunto, deve escludersi ogni rilievo al peso costituito dal transito per l’area comune condominiale se si considera il pieno diritto che il condomino ha di raggiungere il suo posto auto coperto.

La corte, infine, ha regolato le spese di lite, stabilendone l’onere a carico delle attrici ed in favore di tutti i convenuti per entrambi i gradi di giudizio.

S.A., con ricorso notificato l’1/10/2015, ha chiesto, per cinque motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente non notificata.

Hanno resistito, con controricorsi notificati il 9 ed il 13/11/2015, tanto G.M.L. e T.I., nelle qualità indicate, quanto le società Brienz di B.V. & C. s.a.s. e G.M.S. & C. s.n.c..

All’udienza pubblica del 19/9/2019 sono intervenute C.D. e C.D., in proprio e quali eredi di G.M.L..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 1440 c.c., in relazione alla richiesta di risarcimento dei danno patito dall’attrice, e la conseguente violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che, seppure la sentenza del tribunale aveva citato precedenti relativi all’art. 1439 c.c., ciò in concreto non aveva avuto alcuna funzione sul ragionamento relativo alla concreta idoneità ingannevole della condotta che era stata dedotta.

1.2. Così facendo, tuttavia, ha osservato la ricorrente, la corte ha omesso di considerare il fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di ampia discussione tra le parti, e cioè che i precedenti citati dal tribunale prendevano in esame un fatto costitutivo diverso, vale a dire il dolo determinante di cui all’art. 1439 c.c., rispetto a quello dedotto dalle attrici, le quali, infatti, avevano chiesto il risarcimento dei danni per violazione dell’art. 1440 c.c., che disciplina il dolo incidente, mutando, così, radicalmente, gli elementi identificativi dell’azione ed, in particolare, la causa petendi ed il petitum.

1.3. Il dolo determinante, infatti, ha proseguito la ricorrente, e cioè il dolo senza il quale il contratto non sarebbe stato concluso, comporta, a norma dell’art. 1439 c.c., l’annullabilità del contratto, oltre alla responsabilità dell’autore del dolo, mentre il dolo incidente, e cioè il dolo senza il quale il contratto sarebbe stato ugualmente compiuto, ma a condizioni meno gravose, non determina l’invalidità del contratto ma il contraente in mala fede è tenuto, a norma dell’art. 1440 c.c., al risarcimento dei danni.

1.4. La corte d’appello, quindi, ha concluso la ricorrente, lì dove ha affermato che, pur se la sentenza del tribunale aveva citato precedenti relativi all’art. 1439 c.c., ciò in concreto non aveva avuto alcuna funzione sul ragionamento relativo alla concreta idoneità ingannevole della condotta che era stata dedotta, è incorsa nel vizio di ultrapetizione di cui all’art. 112 c.p.c.., essendo inibito al giudice di sostituire la domanda proposta con una diversa, fondata su un’altra causa petendi.

2.1. Il motivo è infondato. Questa Corte, infatti, ha chiarito come l’art. 360 c.p.c., n. 5, così come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. in L. n. 134 del 2012, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. SU n. 8053 del 2014). Costituisce, pertanto, un “fatto”, ai fini di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (cfr. Cass. n. 27415 del 2018 e la giurisprudenza ivi richiamata). Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, le argomentazioni o deduzioni difensive e, tanto meno, i precedenti giurisprudenziali dei quali la sentenza impugnata non abbia considerato l’esatta portata.

2.1. Nè del resto, sussiste la denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c.. Come questa Corte ha più volte chiarito, infatti, sussiste violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, fissato dalla citata norma, solo quando il giudice attribuisca, o neghi, ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno virtualmente, nella domanda, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (Cass. n. 906 del 2018, in motiv.). Non sussiste, al contrario, violazione del medesimo principio quando il giudice, senza alterare nessuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (petitum e causa petendi), si sia limitato, come è accaduto nel caso di specie, a ritenere, alla luce delle prove raccolte, l’insussistenza, in punto di fatto, degli elementi costitutivi dell’azione (risarcitoria) proposta, vale a dire i raggiri che le attrici avevano contestato ai venditori e la loro idoneità a trarle in errore circa l’esistenza del diritto condominiale di parcheggio: in effetti, come si comprende dal semplice confronto tra la lettera dell’art. 1439 e quella dell’art. 1440 c.c., il dolo determinante si distingue dal dolo incidente solo per il fatto che, in quest’ultimo, i “raggiri” usati da uno dei contraenti, comuni, per il resto, all’una e all’altra fattispecie, non sono stati tali da determinare il consenso dell’altra parte in ordine alla stipulazione ma solo sulle condizioni del contratto che la stessa, pur in mancanza, avrebbe comunque stipulato.

3.1. Con il secondo motivo, la ricorrente, lamentando l’omessa valutazione di circostanze decisive per il giudizio ed, in primis, di tutte le testimonianze in atti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, e la conseguente violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1140 e 2697 c.c. e degli artt. 115,116 e 232 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che le dichiarazioni attribuite dalle attrici ai venditori per inferirne mala fede e inganno, non erano risultate dimostrate.

3.2. Così facendo, però, ha osservato la ricorrente, la corte ha, innanzitutto, incomprensibilmente ristretto l’esame delle prove testimoniali a quello dei due mariti, quando invece concorrono a dimostrare la verità dei fatti anche le deposizioni rese da altri testimoni, come l’amministratore del condominio.

3.3. La corte, inoltre, ha proseguito la ricorrente, lì dove ha ritenuto inattendibili i mariti delle due attrici, ha violato l’art. 246 c.p.c., avendo, in sostanza, confuso la capacità a testimoniare, che è impedita per la sola presenza di un interesse giuridico in capo al teste che ne legittimerebbe la partecipazione al giudizio, e il giudizio sulla attendibilità e veridicità del teste, che deve esclusivamente fondarsi sul contenuto della deposizione resa in giudizio: la corte, infatti, ha aggiunto la ricorrente, si è soffermata sulla persona del teste mediante un giudizio funzionale ad evidenziarne l’incapacità oggettiva a testimoniale, definendola erroneamente come inattendibilità, con una pressochè nulla attenzione per il contenuto della deposizione, che, come detto, è l’unico dato che può giustificare una valutazione di inattendibilità del testimone, insistendo, piuttosto, sulla inidoneità del teste a rendere la testimonianza in ragione dello stretto vincolo familiare esistente con le attrici.

3.4. La corte, inoltre, ha proseguito la ricorrente, non ha considerato che, in forza delle dichiarazioni concordemente rese in giudizio dai testi M.L. e M.G.M., la S. sottoscrisse i contratti di acquisto del 25/5/1973 e del 25/3/975 solo dopo che M.G. e G.M.L., in rappresentanza anche degli altri venditori, avevano ribadito che le parti scoperte e coperte erano di proprietà comune e che, tra queste ultime, il portico, come dimostrato dai cartelli affissi ai pilastri, era destinato a parcheggio delle autovetture, e che, in occasione della stipulazione degli atti di acquisto, i venditori avevano chiarito che l’art. 4 dell’atto a rogito notaio R. del 26/5/1972, solo richiamato nel contratto ma non mostrato nè letto, concerneva l’attribuzione dell’uso perpetuo ed esclusivo di porzioni di marciapiede a taluni negozi inseriti nell’edificio lato mare che non facevano parte della superficie del portico già adibito a parcheggio del condominio. Il reale contenuto dell’art. 4 del rogito del notaio R., secondo il quale “le unità al piano terra particella (OMISSIS) sub (OMISSIS) sono di proprietà dei venditori ed attualmente a portico”, ha proseguito la ricorrente, è stato scoperto dalle attrici solo nell’anno 1997, quando diedero incarico ad un consulente di parte di effettuare una verifica completa sullo stato dell’immobile, in contrasto con le rassicurazioni dei costruttori-venditori circa il fatto che il portico era tra le parti comuni a norma dell’art. 1117 c.c. e per concessione edilizia era vincolato stabilmente a spazio per parcheggio dei condomini.

3.5. La corte, poi, non ha neppure esaminato il reale contenuto del regolamento condominiale che i venditori avevano mostrato alla S., il quale, all’art. 5, prevede che è di proprietà comune tra tutti i condomini “il suolo su cui sorge l’edificio”, ivi compreso, quindi, il portico sottostante delimitato dai pilastri in calcestruzzo.

3.6. La corte d’appello, quindi, ha osservato la ricorrente, non ha ritenuto attendibili le precise e concordanti dichiarazioni rese dai testimoni, laddove, in realtà, la conferma delle stesse circostanze da parte dei diversi testimoni avrebbe dovuto indurre la corte a ritenere provata la circostanza dei raggiri concretamente compiuti dai venditori in fase di acquisto. La corte, pertanto, lì dove ha ritenuto che i venditori non avevano nascosto con il silenzio la condizione giuridica di quella certa porzione immobiliare, ha violato sia l’art. 2697 c.c., che non circoscrive il modo in cui l’attore può provare i fatti posti a fondamento del suo diritto, sia gli artt. 115 e 116 c.p.c., i quali non distinguono tra le prove offerte dalle parti escludendone alcune a vantaggio di altre e ne rimettono la valutazione al prudente apprezzamento e non al libero arbitrio del giudice.

3.7. Se la S. avesse potuto leggere il rogito del notaio R., ha concluso la ricorrente, avrebbe sicuramente concluso il contratto a condizioni economiche differenti. L’art. 4 del predetto rogito, infatti, prevede che le unità al piano terra contrassegnate come p.lla (OMISSIS) sub (OMISSIS), sono di proprietà dei venditori ed attualmente a portico possono essere chiuse esternamente con muri e vetrate e delimitate internamente con tramezzi al fine di poterle adibire a negozi e a qualsiasi altra destinazione.

3.8. La corte d’appello, infine, ha aggiunto la ricorrente, lì dove ha escluso ogni rilievo al fatto che i venditori non avessero reso l’interrogatorio formale ritualmente richiesto e reiterato in appello evidenziando che tanto il T., quanto la G. erano presenti alle udienze del 26/9/2000 e del 9/10/2001, per cui l’accordato rinvio all’udienza del 22/1/2002 per l’escussione dei testimoni farebbe implicitamente supporre un accordo tra le parti in questo senso, non ha considerato il fatto oggettivo che i predetti venditori non hanno mai reso l’interrogatorio formale ad essi deferito senza un giustificato motivo. Il reiterato rifiuto degli stessi a rendere l’interrogatorio porta, quindi, a ritenere raggiunta la prova della confessione. La corte, quindi, ha violato l’art. 232 c.p.c., a norma del quale, in caso di rifiuto di rendere l’interrogatorio formale senza giustificato motivo, il giudice può ritenere ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio. Del resto, ha concluso la ricorrente, nei verbali d’udienza non si rinviene alcun giustificato motivo fondante la mancata assunzione della prova, nè un accordo tra le parti alla rinuncia all’esperimento di siffatto mezzo istruttorio, come erroneamente supposto dalla corte.

4.1. Il motivo è infondato in tutte le censure nelle quali è articolato.

4.2. Intanto, la corte d’appello, lì dove ha escluso l’attendibilità dei mariti delle attrici sul rilievo che la solidarietà piena con la parte che ne ha chiesto la testimonianza fosse al limite dell’identificazione, come confermato da plurimi e convergenti elementi indiziari, costituiti “dall’accompagnamento nelle fasi salienti attraverso le quali veniva realizzandosi l’affare (dalla visita degli appartamenti allo studio notarile); dalla condivisione dell’interesse specifico per il posto auto – interesse di fatto sì, ma forte e pervasivo -; dal futuro uso comune dell’appartamento marino; e perfino dallo, espressione ripetuta della prima persona plurale per raccontare la vicenda durante la testimonianza”, si è attenuta al principio di recente ribadito da questa Corte secondo il quale, in particolare, la capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando le stesse su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., dipende dalla presenza in un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua non solo di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) ma anche di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente, com’è accaduto nella specie, a motivare una valutazione di inattendibilità (Cass. n. 7623 del 2016; conf., Cass. n. 7763 del 2010).

4.3. La valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono, del resto, apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili (Cass. n. 11511 del 2014; Cass. n. 12988 del 2013): con l’unico limite, nella specie senz’altro soddisfatto, di supportare con adeguata e congrua motivazione l’esito del procedimento accertativo e valutativo a tal fine seguito (Cass. n. 1380 del 2006; Cass. n. 2090 del 2004).

4.4. L’accertamento in fatto contenuto nella sentenza impugnata, d’altra parte, può essere censurato in sede di legittimità, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore ratione temporis, solo per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, vale a dire, come hanno affermato le Sezioni Unite di questa Corte (n. 8053 del 2014), per il vizio che può tradursi, oltre che nell’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione), nel mancato esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (così, più di recente, Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.; Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). Pertanto, laddove non si contesti – come nel caso di specie l’inesistenza, nei termini predetti, del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale, il vizio di motivazione (in ordine all’accertamento dei fatti) può essere dedotto soltanto per il caso di omesso esame di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia “decisivo” ai fini di una diversa decisione, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (Cass. n. 23940 del 2017, in motiv.). Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente, che denuncia il vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ha l’onere di indicare non una mera “questione” o un semplice “punto” della sentenza ma il “fatto storico”, principale (e cioè il fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) ovvero secondario (cioè dedotto in funzione di prova di un fatto principale), il cui esame sia stato omesso, nonchè il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti ed, infine, la sua “decisività” (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 20188 del 2017, in motiv.). L’omesso esame di elementi istruttori non dà luogo, pertanto, al vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie (Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). E’, quindi, inammissibile la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per sostenere, semplicemente, il mancato esame di deduzioni istruttorie ovvero di documenti da parte del giudice del merito (Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.). Nel caso di specie, la ricorrente non ha specificamente dedotto quali sono stati i fatti storici che la corte d’appello, benchè decisivi ed oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, avrebbe del tutto omesso di esaminare, limitandosi, piuttosto, a sollecitare una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. La valutazione delle prove raccolte, infatti, anche se si tratta di presunzioni (Cass. n. 2431 del 2004; Cass. n. 12002 del 2017; Cass. n. 1234 del 2019), costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.). Rimane, pertanto, estranea al vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116 c.p.c., commi 1 e 2, in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova. La deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non consente, quindi, di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito. Com’è noto, il compito di questa Corte non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): come, in effetti, è accaduto nel caso in esame. La corte d’appello, invero, dopo aver valutato i documenti e le prove testimoniali raccolte in giudizio, ha, in modo logico e coerente, indicato le ragioni per le quali – a torto o a ragione non importa – ha escluso, in fatto, tanto la sussistenza dei “raggiri” che le attrici avevano imputato ai venditori (“i venditori non hanno nascosto col silenzio la condizione giuridica di quella certa porzione immobiliare; anzi, hanno fornito i dati individuanti il rogito che la descriveva”), quanto, ed in ogni caso (ove quelle dichiarazioni mendaci, che le attrici avevano attribuito ai venditori, fossero ritenute dimostrate), a fronte dell’oggettività degli atti pubblici d’acquisto (e del rinvio, in essi contenuto, al rogito del 1972 “che riservava sull’area in oggetto un diritto ai venditori incompatibile con quello condominiale che le compratrici dicono essere stato loro assicurato”), della loro univoca idoneità all’inganno e a sorprendere la buona fede delle acquirenti (“e se anche avessero a parole detto cose diverse, ciò avrebbe significato solo un contrasto che l’ordinaria diligenza avrebbe imposto di chiarire con la semplice richiesta di vedere quell’atto che, attraverso il rinvio, veniva a far parte integrante dello stesso contratto che si stava stipulando”). Le compratrici, infatti, ha aggiunto la corte, con statuizione che sul punto non è stata specificamente contestata, a seguito della lettura del testo delle compravendite che hanno sottoscritto, con la comprensione che se ne presume, potevano senza dubbio conoscere il rogito del 1972 che vi era richiamato (il quale, come la stessa ricorrente ha dedotto, stabiliva, all’art. 4, che “le unità al piano terra particella (OMISSIS) sub (OMISSIS) sono di proprietà dei venditori ed attualmente a portico”), per cui, ha concluso, se non l’hanno fatto, devono imputare solo a sè stesse d’essere cadute in errore in ordine all’esistenza del diritto (condominiale) di parcheggio. E così opinando, la corte d’appello si è senz’altro adeguata al principio – ripetutamente espresso dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo al dolo determinante ma che, in ragione della già evidenziata identità, almeno sotto questo profilo, dei relativi elementi costitutivi, è applicabile anche al dolo incidente – secondo il quale, tanto nell’ipotesi di dolo commissivo che in quella di dolo omissivo, gli artifici o i raggiri, la reticenza o il silenzio devono essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto ed alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilire se erano idonei a sorprendere una persona di normale diligenza, giacchè l’affidamento non può ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza (Cass. n. 1585 del 2017; conf., Cass. n. 20792 del 2004).

4.5. L’apprezzamento svolto dalla corte, del resto, si sottrae alle censure svolte dalla ricorrente anche sotto il profilo della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., deducibile in cassazione, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4, solo se ed in quanto si alleghi, rispettivamente, che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, o contraddicendola espressamente, e cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, e cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio, ovvero che il giudice, nel valutare una prova ovvero una risultanza probatoria, o non abbia operato, pur in assenza di una diversa indicazione normativa, secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), o che abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento laddove la prova era soggetta ad una specifica regola di valutazione: resta, dunque, fermo che tali violazioni non possono essere ravvisate nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre: “se spetta indubbiamente alle parti proporre i mezzi di prova che esse ritengono più idonei ed utili, e se il giudice non può fondare la propria decisione che sulle prove dalle parti stesse proposte (e su quelle eventualmente ammissibili d’ufficio), rientra pero nei compiti propri del giudice stesso stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti, ed è perciò suo potere, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, portato dall’art. 115 c.p.c., ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente, rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 c.p.c.) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie” (Cass. n. 11892 del 2016, in motiv.). Nè, del resto, appare fondato il rilievo per cui, secondo la ricorrente, la corte non ha esaminato il reale contenuto del regolamento condominiale che i venditori avevano mostrato alla S., il quale, all’art. 5, prevede che è di proprietà comune tra tutti i condomini “il suolo su cui sorge l’edificio”, trattandosi, a suo dire, di un’espressione non suscettibile di altra interpretazione che non sia quella di comprendervi anche il portico sottostante delimitato dai pilastri in calcestruzzo. Intanto, va ribadito il principio per cui, in tema di ermeneutica di un contratto (o di un atto equiparato, come il regolamento di condominio: Cass. n. 138 del 2016, in motiv.), l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di omesso esame di fatto decisivo, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, sicchè, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione ha l’onere non solo di fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. n. 27136 del 2017, in motiv.): ciò che, nella specie, non è accaduto, avendo la ricorrente semplicemente contrapposto la sua interpretazione a quella fornita dalla corte d’appello, laddove, al contrario, la parte che ha proposto una delle opzioni ermeneutiche possibili di una clausola contrattuale, non può contestare in sede di giudizio di legittimità la scelta alternativa alla propria effettuata dal giudice del merito (Cass. n. 27136 del 2017). Del resto, per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. n. 6125 del 2014).

4.6. E neppure, infine, può venire in rilievo l’invocata violazione del precetto previsto dall’art. 2697 c.c. in materia di onere della prova e relativa distribuzione: la sentenza impugnata, infatti, come detto, ha rigettato la domanda risarcitoria proposta dalle attrici in ragione della mancanza di prova dei raggiri dedotti e della loro idoneità a trarre in errore le compratrici in ordine all’esistenza del diritto condominiale di parcheggio, vale a dire, appunto, dei fatti costitutivi dell’azione intrapresa, dando, così, attuazione al principio generale per cui, con salvezza delle deroghe previste dalla legge, l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa azionata spetta, appunto, a chi la faccia valere in giudizio (art. 2697 c.c., comma 1). Del resto, la violazione della norma prevista dall’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi, che non ricorre nella specie, in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, solo entro i ristretti limiti dell’omesso esame di un fatto decisivo previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 13395 del 2018).

4.7. E’ inammissibile, infine, la censura svolta in ordine all’interrogatorio formale dei convenuti e alla mancata valutazione da parte della corte d’appello della confessione conseguente alla mancata presentazione degli stessi a renderlo in giudizio, essendo noto che il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio ovvero, come nel caso di specie, sulla valutazione di esso, ha l’onere (nella specie rimasto inadempiuto) di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, il giudice di legittimità dev’essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (Cass. n. 19985 del 2017). D’altra parte, com’è noto, con riferimento all’interrogatorio formale, la disposizione dell’art. 232 c.p.c. non ricollega automaticamente alla mancata risposta all’interrogatorio, per quanto ingiustificata, l’effetto della confessione, ma dà solo la facoltà al giudice di ritenere come ammessi i fatti dedotti con tale mezzo istruttorio, imponendogli, però, nel contempo, di valutare ogni altro elemento di prova (Cass. n. 9436 del 2018): e la sentenza nella quale il giudice ometta di prendere in considerazione la mancata risposta all’interrogatorio formale non è affetta da vizio di motivazione, atteso che l’art. 232 c.p.c., a differenza dell’effetto automatico di ficta confessio ricollegato a tale vicenda dall’abrogato art. 218 del precedente codice di rito, riconnette a tale comportamento della parte soltanto una presunzione semplice che consente di desumere elementi indiziari a favore della avversa tesi processuale (prevedendo che il giudice possa ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio “valutato ogni altro elemento di prova”), onde l’esercizio di tale facoltà, rientrando nell’ambito del potere discrezionale del giudice stesso, non è suscettibile di censure in sede di legittimità (Cass. n. 4837 del 2018).

5.1. Con il terzo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione della L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies nel testo introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18 nonchè degli artt. 2946,2947 c.c. e art. 2941 c.c., n. 8, in tema di prescrizione, e l’omessa valutazione su un punto decisivo del giudizio, ovvero l’occultamento dell’esistenza della violazione urbanistica da parte dei costruttori-venditori per sfuggire alle responsabilità amministrative e penali conseguenti, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, accogliendo l’appello incidentale proposto dalla G. e dal T., ha ritenuto che il diritto al risarcimento dei danni richiesto dalla S., tanto in primo quanto in secondo grado, si fosse prescritto.

5.2. La corte, tuttavia, ha osservato la ricorrente, così facendo, non ha correttamente valutato l’inizio del relativo termine di prescrizione, che ha fatto decorrere dal momento degli atti di acquisto, e cioè da prima che il diritto a tale risarcimento fosse venuto ad esistenza, laddove, al contrario, per poter chiedere il risarcimento di un danno, è necessario che venga ad esistenza la relativa lesione e che l’ingiustizia sia conosciuta o conoscibile dalla parte che vuole azionare il diritto.

5.3. Nel caso in esame, ha proseguito la ricorrente, la S. ha continuato a ricoverare la propria autovettura nel portico dell’edificio fino al 1988, quando, cioè, tale area è stata illegittimamente alienata dai venditori alle società esercenti attività alberghiera negli Hotels Brienz e Amalfi. L’area scoperta (p.lla (OMISSIS)) è stata, in seguito alienata con atto del 1991.

5.4. Solo nel 1997, tuttavia, ha aggiunto la ricorrente, la S., a seguito dell’incarico conferito all’arch. B. di verificare la reale situazione dell’immobile, è venuta a scoprire tanto il reale contenuto del rogito R. del 1972, richiamato solo per relationem negli atti d’acquisto degli appartamenti avvenuti nel 1973 e nel 1975, quanto la violazione delle leggi urbanistiche poste in essere dai costruttori venditori.

5.5. Nessuna negligenza, quindi, ha osservato la ricorrente, può esserle addebitata poichè è solo dal momento in cui nel 1997 diede incarico all’arch. B. che il termine di prescrizione è iniziato a decorrere, ovvero, al più presto, al 1988, per l’area coperta (p.lla (OMISSIS)), o al 1991, per l’area scoperta (p.lla (OMISSIS)). Peraltro, ha aggiunto, il termine di prescrizione è stato interrotto con la lettera di diffida del 1992.

5.6. Il diritto azionato, quindi, ha concluso la ricorrente, tanto se si voglia applicare il termine decennale, quanto se si ritenga applicabile quello quinquennale, non si è prescritto.

5.7. La S., del resto, ha aggiunto, non poteva conoscere la reale condizione dell’immobile avendo i costruttori/venditori occultato il relativo contenuto includendo nel titolo abilitativo una particella che non era nemmeno di loro proprietà.

5.7. La corte d’appello, inoltre, ha proseguito la ricorrente, facendo decorrere la prescrizione dalla stipulazione dei singoli atti di vendita, ha trascurato di considerare tanto che l’esecuzione di una costruzione in violazione delle norme edilizie dà luogo ad un illecito permanente, trattandosi di attività perdurante nel tempo che comporta la compromissione ininterrotta del diritto altrui per la persistenza del danno, per cui la decorrenza del termine di prescrizione non si verifica con l’ultimazione dell’opera, quanto il dolo interposto dai venditori-costruttori sulle circostanze relative alla concessione edilizia ed alla destinazione delle aree coperte del Condominio, come il portico. La S., infatti, solo nel 1997 ha acquisito consapevolezza che l’edificio era stato costruito in contrasto con il progetto approvato e con la rassicurazione dei costruttori circa il fatto che il portico era tra le parti comuni dell’edificio e che per concessione edilizia lo stesso era stabilmente vincolato a spazio per il parcheggio, tanto più che, avendo continuato a ricoverare la propria autovettura in tali spazi fino al 1988, non aveva ragione di dubitare delle stesse. Ne consegue, ha aggiunto la ricorrente, che trova, nella specie, applicazione la causa di sospensione prevista dall’art. 2941 c.c., n. 8 poichè l’ignoranza dell’attrice è attribuibile al dolo dei costruttori-venditori posto in essere nelle fasi dell’ottenimento della concessione edilizia e poi in fase di alienazione degli immobili.

6.1. Il motivo è infondato. Intanto, deve escludersi ogni rilievo alle censure che la ricorrente ha fondato sull’invocata sospensione della prescrizione per dolo dei venditori danneggianti, al pari di quelle concernenti la prospettata qualificazione dell’illecito in termini di illecito permanente, trattandosi di questioni che, in quanto non trattate dalla sentenza impugnata, non sono deducibili in sede di legittimità. In tema di ricorso per cassazione, infatti, qualora, come nella specie, siano state prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente ha l’onere (rimasto, nella specie, inadempiuto), a pena di inammissibilità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacchè i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito nè rilevabili di ufficio (Cass. n. 20694 del 2018).

6.2. Quanto, invece, alla prescrizione del diritto azionato ed alla relativa decorrenza, la decisione assunta sul punto dalla corte d’appello, alla luce degli accertamenti in fatto dalla stessa operati e delle conseguenze giuridiche che ha ritenuto di trarne, si sottrae alle censure articolate dalla ricorrente. Il giudice di merito, infatti, ha ritenuto la fondatezza dell’eccezione di prescrizione sollevata dai convenuti rilevando, per un verso, che dalla consulenza tecnica d’ufficio è emerso che, nel permesso n. 102 del 1969, era stata ufficialmente compresa nella superficie destinata a parcheggio l’area esterna scoperta della p.lla (OMISSIS), e, per altro verso, che tale area non era mai stata concretamente disponibile per l’uso del parcheggio da parte dei condomini: con la conseguenza, ha aggiunto, che, “non essendosi mai avuta la disponibilità concreta dell’area scoperta (part. (OMISSIS)) che secondo il titolo abilitativo contribuiva alla legittimità del rapporto dimensioni/parcheggi,… il bene soggetto ex lege al vincolo di destinazione non è mai venuto ad esistenza” e che, pertanto, “la violazione della L. n. 765 del 1967, art. 18 c’è sempre stata fin dagli acquisti delle signore S. e S.”.

Le compratrici, d’altro canto, ha aggiunto la corte, una volta entrate in possesso del bene, avevano la possibilità di rendersi conto della condizione materiale e giuridica dello stesso e, quindi, di verificare quali aree non fossero disponibili per i parcheggi condominiali, non rilevando, per contro, nè la destinazione materiale dell’area scoperta (part. (OMISSIS)), non contemplata dal titolo abilitativo, nè la lettera del 1992, intervenuta quando già era completamente decorso il tempo necessario per la prescrizione. Ora, premesso che, in tema di spazi riservati a parcheggio nei fabbricati di nuova costruzione, il costruttore/venditore risponde nei confronti dell’acquirente della singola unità abitativa della mancata destinazione a parcheggio dell’area indicata nella licenza edilizia, anche se il predetto costruttore/venditore, a seguito della vendita di tutte le unità abitative, non abbia conservato più alcun diritto sull’area vincolata, non rilevando quest’ultima circostanza sull’accertamento dell’inadempimento contrattuale nè sulla sua eventuale condanna al risarcimento del danno per equivalente (Cass. n. 22496 del 2007; cfr. Cass. n. 3961 del 2006; Cass. n. 11202 del 2008; Cass. n. 6329 del 2003; Cass. n. 3393 del 2009; Cass. 10341 del 2009; più di recente, Cass. n. 13210 del 2017), la sentenza impugnata, ragionando nei termini sopra descritti, si è senz’altro attenuta al principio, ripetutamente affermato in da questa Corte, secondo cui, ove la percezione del danno non sia manifesta ed evidente, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, così come di quello dipendente da responsabilità contrattuale, decorre non dal momento in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all’altrui diritto, bensì dal momento, rimesso all’accertamento in fatto del giudice di merito, in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile come tale, nel senso, più precisamente, che il soggetto danneggiato ha avuto – o avrebbe dovuto avere, usando l’ordinaria diligenza – sufficiente conoscenza del danno lamentato e della sua rapportabilità causale al fatto o all’inadempimento del terzo (cfr. Cass. n. 1263 del 2012; Cass. n. 6747 del 2016; Cass. n. 23236 del 2016; Cass. n. 3176 del 2016; Cass. n. 22059 del 2017; in precedenza, Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 10493 del 2006). Il termine di prescrizione del diritto del creditore al risarcimento del danno conseguente all’inadempimento del debitore decorre, in definitiva, ai sensi dell’art. 2935 c.c., dal momento in cui ha luogo l’inadempimento e si concreta la manifestazione oggettiva del danno, avendo comunque riguardo all’epoca di accadimento del fatto lesivo, per come obiettivamente percepibile e riconoscibile, e non al dato soggettivo della conoscenza della mancata attuazione della prestazione dovuta e del maturato diritto al risarcimento, potendo tale conoscenza essere colpevolmente ritardata dall’incuria del titolare del diritto (cfr. Cass. n. 1889 del 2018, in motiv.).

7.1. Con il quarto motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione del regolamento condominiale prodotto quale doc. 4 del fascicolo di primo grado, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e l’omesso esame del reale contenuto del citato regolamento condominiale, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto di escludere: a) tanto la violazione del regolamento condominiale, in ragione del fatto che: – l’attività di parcheggio non muta sol che la ponga in essere il condomino o una diversa persona da lui autorizzata, come il locatario del posto auto, ecc.; – non è possibile ricomprendere nelle dizioni di “alloggi” o “locali” di cui parla l’art. 8 del regolamento le aree esterne; – l’eventuale parcheggio dei clienti di per sè non è nè più rumoroso di quello del condomino, nè più rischioso per l’ordine pubblico o l’igiene, ecc.; b) quanto il lamentato uso illecito della cosa comune, sul rilievo che non vi fosse la prova di un concreto aggravio e che il condomino ha il pieno diritto di raggiungere il suo posto auto coperto.

7.2. Così facendo, però, ha osservato la ricorrente, la corte non ha considerato, innanzitutto, che l’art. 8 del regolamento condominiale vieta in modo assoluto di destinare “i locali e gli alloggi dell’edificio ad uso di albergo, pensione o locanda”, posto che nella dizione “locali” rientra pienamente il portico del condominio, trattandosi di un locale aperto sui quattro lati e delimitato nel suo perimetro dalle colonne di calcestruzzo dell’edificio.

7.3. Nè può negarsi, ha proseguito la ricorrente, che l’attività alberghiera sia più rumorosa e rischiosa, anche in termini di igiene pubblica, rispetto a quella condotta dal singolo condomino. Gli schiamazzi, le cartacce, i motori accesi di giorno e notte, con il relativo inquinamento dell’aria causato dagli scarichi dei predetti motori, dimostrano, infatti, l’esatto contrario.

7.4. La corte, poi, ha aggiunto la ricorrente, ha omesso di considerare che il regolamento condominiale vieta l’utilizzo e la destinazione dei locali e degli alloggi dell’edificio ad attività alberghiera laddove il collegamento funzionale tra l’immobile nel quale la clientela degli Hotels Brienz ed Amalfi riceve vitto e alloggio e l’immobile in condominio nel quale la stessa clientela ricovera le proprie autovetture mostra che tali immobili, in posizione paritetica tra loro, sono destinati all’esercizio del complesso alberghiero. Peraltro, ha aggiunto, il divieto di albergo costituisce una legittima limitazione alla proprietà privata che la S. ha il diritto di far rispettare, mediante la richiesta d’immediata cessazione.

7.5. Il transito a piedi e con veicoli dei clienti degli Hotels Brienz ed Amalfi sulle aree condominiali e la sosta, il parcheggio e la movimentazione delle loro autovetture su tali aree, ha determinato, ha aggiunto la ricorrente, un collegamento illecito tra queste ultime ed immobili estranei al condominio di proprietà delle società convenute. Il transito pedonale e veicolare, la sosta ed il parcheggio di autovetture sulle aree condominiali crea, con il tempo, un peso non autorizzato sulle parti in comune del condominio a vantaggio degli immobili di proprietà delle società convenute, con la conseguente costituzione di una servitù di passaggio, di sosta e di movimentazione di automezzi di persone estranee al condominio che la S. intende legittimamente impedire, mediante la richiesta di cessazione di tali indebite ed illecite condotte. In ogni caso, ha concluso la ricorrente, la corte d’appello, al fine di legittimare il transito sulle aree condominiali, ha omesso di considerare che la clientela delle due società convenute non assume, per legge, la posizione di condomino.

8.1. Il motivo è infondato.

8.2. Intanto, è inammissibile la censura fondata sulla possibile costituzione di una servitù di passaggio, di sosta e di movimentazione di automezzi di persone estranee al condominio, trattandosi di questione nuova, cui la sentenza impugnata non fa alcun riferimento. E si è già in precedenza ricordato che, ai fini del ricorso per cassazione, qualora siano state prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente ha l’onere (rimasto, nella specie, inadempiuto), a pena di inammissibilità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacchè i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito nè rilevabili di ufficio (Cass. n. 20694 del 2018).

8.3. Per il resto, non può che ribadirsi, quanto alla invocata violazione del regolamento condominiale, che, in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di omesso esame di fatto decisivo, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Tale principio vale anche in materia di regolamento condominiale, costituendo orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui non è censurabile in cassazione l’interpretazione del regolamento di condominio compiuta dai giudici di merito salvo che per violazione dei canoni ermeneutici o per vizi di motivazione (Cass. n. 138 del 2016, in motiv.). Al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, però, il ricorrente per cassazione ha l’onere (nella specie rimasto inadempiuto) non solo di fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. n. 27136 del 2017, in motiv.). La ricorrente, del resto, lì dove ha lamentato che la corte d’appello non aveva considerato come l’art. 8 del regolamento condominiale vietasse in modo assoluto di destinare “i locali e gli alloggi dell’edificio ad uso di albergo, pensione o locanda”, sul rilievo che nella dizione “locali” rientrava pienamente il portico del condominio, trattandosi di un locale aperto sui quattro lati e delimitato nel suo perimetro delle colonne di calcestruzzo dell’edificio, ha finito semplicemente per contrapporre la propria interpretazione a quella fornita dalla corte d’appello. E si è già ricordato come, al contrario, per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito non deve essere l’unica possibile, o la migliore in astratto, ma una tra quelle possibili e plausibili, sicchè, quando di un atto negoziale (o equiparato) sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte che aveva sostenuto la versione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 6125 del 2014). Il regolamento condominiale, del resto, può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare: in quest’ultimo caso, tuttavia, per evitare ogni equivoco in una materia atta a incidere sulla proprietà dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni chiare, avuto riguardo, più che alla clausola in sè, alle attività e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentare intende impedire, così consentendo di apprezzare se la compromissione delle facoltà inerenti allo statuto proprietario corrisponda ad un interesse meritevole di tutela (Cass. n. 19229 del 2014; Cass. n. 9564 del 1997; Cass. n. 18082 del 2019, in motiv.). I divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono, in definitiva, risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l’individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine (come nel caso di specie, incontestata mente) contrattuale (a fronte dell’incensurato richiamo, operato dalla corte, ai relativi criteri d’interpretazione, così come stabiliti dagli artt. 1362 c.c. e ss), nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta – come, in effetti, è accaduto nel caso in esame – rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti (Cass. n. 21307 del 2016).

8.4. Per ciò che riguarda, infine, l’illecito uso della cosa comune per violazione dell’art. 1102 c.c., in ragione del transito e del parcheggio su aree condominiali delle autovetture della clientela delle società convenute, la sentenza impugnata ha ritenuto, con apprezzamento in fatto non censurabile in questa sede, che non vi fosse la prova di un concreto aggravio, in conseguenza di siffatto utilizzo, sui beni comuni, ai danni, evidentemente, degli altri condomini, ed ha, per l’effetto, correttamente escluso la violazione della predetta norma. In effetti, l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino, in mancanza di una diversa disciplina di origine regolamentare, è sottoposto, secondo il disposto della norma citata, a due fondamentali limitazioni, consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nell’obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri condomini: tali limiti, tuttavia, non impediscono al singolo condomino, ove rispettati, di servirsi del bene anche a proprio esclusivo o particolare vantaggio (cfr. Cass. n. 7466 del 2015; Cass. n. 6458 del 2019).

8.5. Per il resto, la ricorrente, senza specificamente dedurre i fatti storici che la corte d’appello, benchè decisivi ed oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, avrebbe del tutto omesso di esaminare, si è, in realtà, limitata a sollecitare una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. La valutazione delle prove raccolte, infatti, come in precedenza ricordato, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione: rimane, pertanto, estranea al vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116 c.p.c., commi 1 e 2, in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova.

9. Con il quinto motivo, la ricorrente, lamentando l’omessa statuizione in relazione all’ulteriore danno da svalutazione degli immobili patito dalla stessa a causa della mancata disponibilità del parcheggio, e l’omessa valutazione delle stesse risultanze dalla consulenza tecnica d’ufficio in atti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha completamente omesso di considerare i danni subìti per la svalutazione del valore degli appartamenti, acquistati attraverso subdoli raggiri senza posto auto, e quantificata dal tecnico incaricato nel 20% degli immobili in questione.

10. Il motivo è assorbito dal rigetto degli altri.

11. Il ricorso dev’essere, pertanto, rigettato.

12. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

13. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare, a ciascuno delle due parti controricorrenti, le spese di lite, che liquida in Euro 3.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 19 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2020

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