Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3834 del 14/02/2017


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Cassazione civile, sez. I, 14/02/2017, (ud. 26/05/2016, dep.14/02/2017),  n. 3834

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.M., elettivamente domiciliata in Roma, via Flaminia, n. 7,

nello studio dell’avv. Antonio Aceto; rappresentata e difesa

dall’avv. Mario Zarrelli, giusta procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

A.M.R., CO.ME., C.S.,

elettivamente domiciliati in Roma, via Cassiodoro, n. 1/A, nello

studio dell’avv. Domenico Parrotta; rappresentata e difesa dall’avv.

Lelio della Pietra, giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli, n. 2189,

depositata in data 31 maggio 2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

26 maggio 2016 dal Consigliere relatore Dott. Pietro Campanile;

sentito per i controricorrenti l’avv. Lelio della Pietra;

Viste le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sost. Proc.

Gen. Dott.ssa CERONI Francesca, la quale ha concluso per

l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – Con atto di citazione notificato nel maggio del 2001 la signora C.M., premesso di essere figlia di C.G., nata fuori del matrimonio e riconosciuta dallo stesso nell’anno (OMISSIS), conveniva in giudizio la sig.ra A.M.R., nonchè i signori C.S. e Me., chiedendo la riduzione delle disposizione testamentarie, nella misura in cui ledevano i propri diritti ereditari, del predetto C., deceduto in data (OMISSIS).

1.1 – I convenuti, costituitisi, chiedevano in via riconvenzionale che fosse accertata, la non veridicità del riconoscimento nei confronti dell’attrice della filiazione da parte del loro dante causa, il quale, nell’imminenza del proprio decesso, aveva chiesto che venisse effettuato un accertamento tecnico preventivo di natura genetica.

1.2 – Il Tribunale, disposta acquisizione del fascicolo relativo al suddetto accertamento tecnico preventivo, che era stato effettuato mediante il prelievo di materiale genetico, prima della sepoltura, dal cadavere del C., sulla base della consulenza tecnica d’ufficio all’uopo esperita, in accoglimento della domanda riconvenzionale dichiarava che l’attrice non era figlia di C.G., disponeva l’annotazione della sentenza e, quindi, rigettava le domande proposte dalla predetta.

1.3 – Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Napoli ha confermato la suddetta decisione, rigettando il gravame proposto dalla signora C., ed incentrato, in primo luogo, sull’inammissibilità dell’impugnazione del riconoscimento quando lo stesso sia stato effettuato, come nella specie, nella consapevolezza della sua falsità. In proposito, pur dandosi atto di un orientamento favorevole alla tesi dell’appellante nell’ambito della giurisprudenza di merito, è stato richiamato, condividendone la portata, un precedente di legittimità nel senso dell’ammissibilità dell’impugnazione.

1.4 – Sono stati poi ritenuti validi ed utilizzabili i risultati della consulenza tecnica d’ufficio che comportavano l’esclusione della paternità di C.G. nei confronti di C.M., disattendendosi le eccezioni dell’appellante circa l’inutilizzabilità dell’accertamento tecnico preventivo (per aver gli eredi del C., a fronte di una querela di falso, dichiarato di non volersene avvalere), dovendo in ogni caso ritenere, facendo fede le dichiarazioni dell’ausiliario, che i campioni prelevati, e poi posti alla base dell’accertamento peritale, appartenessero al predetto C..

1.5 – Per la cassazione di tale decisione la signora C.M. propone ricorso affidato a quattro motivi illustrati da memoria, cui gli intimati resistono con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2 – Con il primo motivo del ricorso, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 263 c.c. e art. 113 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si sostiene che nella specie dovrebbe trovare applicazione lo ius superveniens costituito dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che, introducendo una nuova formulazione dell’art. 263 c.c., prevede l’imprescrittibilità dell’impugnazione per difetto di veridicità soltanto per il figlio, mentre per tutti gli altri soggetti legittimati, diversi dall’autore del riconoscimento, introduce un termine di decadenza per l’esercizio dell’azione di cinque anni, con decorrenza dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita.

2.1 – Il motivo è infondato.

Deve invero trovare applicazione la norma transitoria contenuta del citato D.Lgs. n. 154 del 2013, art. 104, che, al comma 10, prevede: “Fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della L. 10 dicembre 2012, n. 219, nel caso di riconoscimento di figlio annotato sull’atto di nascita prima dell’entrata in vigore del presente D.Lgs., i termini per proporre l’azione di impugnazione, previsti dall’art. 263 e dell’art. 267 c.c., dai commi 2, 3 e 4, decorrono dal giorno dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo”.

Poichè il decreto sopra indicato è entrato in vigore quando il procedimento era pendente, nessuna decadenza risulta predicabile.

2.2 – Del resto questa Corte, in relazione ad analoga questione concernente i nuovi termini per proporre l’azione di disconoscimento della paternità, ha affermato che “alla stregua della disciplina transitoria della riforma della filiazione prevista dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 104, commi 7 e 9, mentre la normativa sostanziale di cui al novellato art. 244 c.c., si applica a tutte le azioni su cui la riforma è intervenuta, anche se relative a figli nati prima della data di entrata in vigore (7 febbraio 2014) del citato decreto, i nuovi termini di cui al quarto comma della medesima disposizione codicistica operano solo per i figli già nati alla predetta data per i quali non sia stata già proposta l’azione di disconoscimento (persistendo altrimenti l’utilizzabilità del regime decadenziale pregresso), fermi, in entrambe le ipotesi, gli effetti del giudicato formatosi prima della entrata in vigore della L. 10 dicembre 2012, n. 219 (Cass., 26 giugno 2014, n. 14556).

2.3 – Alla stregua della distinzione, operata nella pronuncia testè citata, fra norme aventi natura sostanziale e disposizioni che regolano i tempi di proposizione dell’azione, non può considerarsi pertinente il riferimento, contenuto nella memoria difensiva della ricorrente, alla pronuncia della Corte costituzionale n. 146 del 2015, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del citato D.Lgs. n. 154 del 2013, art. 104, commi 2 e 3, trattandosi, per l’appunto, di disposizioni di natura sostanziale.

2.4 – Nè appare condivisibile l’altro profilo, fondato sull’improponibilità dell’impugnazione allorchè proveniente da autore di un riconoscimento in malafede, sia perchè in contrasto con l’orientamento di legittimità che afferma l’irrilevanza degli stati soggettivi dell’autore del riconoscimento (Cass., 24 maggio 1991, n. 5886), ma soprattutto perchè nella specie l’impugnazione è stata effettuata da terzi, dotati al riguardo di autonoma legittimazione, laddove la stessa giurisprudenza di merito invocata dalla ricorrente esclude la proponibilità dell’azione “contra factum proprium” – assimilandola, sostanzialmente, a una revoca – nei confronti del solo autore del riconoscimento in mala fede.

3 Con il secondo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c., artt. 113, 115 e 116 c.p.c., si afferma che erroneamente la corte territoriale avrebbe privilegiato le risultanze della consulenza biologica, a fronte di prove logiche e documentali comprovanti l’effettività del rapporto di filiazione.

3.1 – Con il terzo mezzo si denuncia violazione degli artt. 113, 116, 221, 222, 696 c.p.c., per essersi ritenuta utilizzabile, con motivazione “in alcuni casi insufficiente, in altri contraddittoria”, la consulenza tecnica d’ufficio, fondata su reperti “divenuti inutilizzabili per effetto della dichiarazione negativa resa dagli interpellati circa la volontà di non avvalersi del ricorso ex art. 696 c.p.c., impugnato con querela di falso”.

3.2 – Le censure, esaminarsi congiuntamente in quanto intimamente correlate, sono inammissibili.

La ricorrente in effetti non denuncia alcuna violazione del paradigma normativo delle norme di cui agli artt. 113, 115 e 116 c.p.c., apparendo i motivi piuttosto finalizzato ad ottenere una diversa e più favorevole valutazione del materiale probatorio, riservata al giudice del merito.

3.3 – In realtà, per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c., è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c.. A tal fine vale bene ribadire che tale norma prescrive che il giudice deve valutare le prove secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti. La sua violazione e, quindi, la deduzione in sede di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, è concepibile solo se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria, ovvero se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando detta norma (cfr. Cass. n. 13960 del 2014; Cass., 20119 del 2009).

3.4 – Il tema, quindi, è incentrato unicamente sul vizio di motivazione, che, nell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella specie applicabile ratione temporis, secondo l’interpretazione resa dalle Sezioni unite di questa Corte, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo.

Le stesse Sezioni Unite hanno soggiunto che: “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”. Ne consegue che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito, non essendo riconducibile nè nel paradigma del n. 5, nè in quello del n. 4, non trova di per sè alcun diretto referente normativo nel catalogo dei vizi denunciabili con il ricorso per cassazione.

3.5 – Non può omettersi di ribadire, del resto, che il vizio di motivazione non è predicabile in ordine alla denuncia, come nella specie, di un error in procedendo, in quanto, poichè in relazione al suo accertamento questa Corte è giudice del fatto, inteso in senso processuale, la verifica in ordine alla sussistenza o meno del vizio denunciato prescinde del tutto dalle argomentazioni rese al riguardo dal giudice del merito.

3.6 – L’aspetto relativo all’utilizzazione dei reperti biologici prelevati nel corso dell’accertamento tecnico preventivo, che sarebbe travolto, ad avviso della ricorrente, dalla querela di falso presentata in ordine alla sottoscrizione del sig. C.G., non refluisce sulla validità della consulenza tecnica d’ufficio espletata nel presente giudizio, nella quale per altro tutte le operazioni peritali, compresa l’estrazione del DNA, sono state effettuate in piena autonomia.

Mette conto di rilevare che i limiti di utilizzazione di un accertamento tecnico preventivo eventualmente affetto da nullità di ordine processuale sono contrassegnati dalle regole che disciplinano lo svolgimento della successiva attività processuale, stabilendo anche specifiche cadenze e preclusioni.

Viene quindi in considerazione la sanatoria di cui all’art. 156 c.p.c., dovendosi rilevare che nella sentenza impugnata si dà atto – senza che al riguardo siano stati avanzati rilievi di sorta che, una volta disposta l’acquisizione agli atti del fascicolo d’ufficio relativo all’accertamento tecnico preventivo, “avendo il difensore di parte attrice dichiarato di non opporsi all’utilizzazione dei campioni utilizzati dal consulente che aveva effettuato l’accertamento preventivo, era disposta consulenza tecnica d’ufficio collegiale per l’accertamento della sussistenza o meno del rapporto di filiazione naturale tra l’attrice e il defunto C.G., con utilizzazione, tra l’altro, dei reperti prelevati dalla salma di quest’ultimo nel corso dell’espletato accertamento tecnico preventivo” (cfr. in proposito, Cass., 9 marzo 2010, n. 5658; Cass., 21 gennaio 2009, n. 1573, in tema di accertamento tecnico preventivo nullo perchè svoltosi in assenza di contraddittorio; Cass., 1 aprile 2004, n. 6390).

3.7 – Giova precisare che, se la procura alle liti costituisce presupposto per la valida instaurazione del rapporto processuale (Cass., 29 marzo 2010, n. 7543; Cass., 16 giugno 2004, n. 11326), la sua nullità – determinando l’atto cui accede l’idoneità ad introdurre il giudizio e ad attivare il potere-dovere del giudice di decidere – si risolve nella carenza di un presupposto processuale per la valida costituzione del processo, che provoca la nullità

e non l’inesistenza – della sentenza, suscettibile di passaggio in giudicato in caso di mancata tempestiva impugnazione. In tal caso si è ritenuto che non fossero esperibili rimedi dell’actio e dell’exceptio nullitatis (Cass., 23 febbraio 2006, n. 4020; Cass., 16 maggio 2002, n. 7186).

3.8 – In considerazione di quanto sopra evidenziato non può condividersi la deduzione secondo cui l’accertamento tecnico preventivo, recte, il prelievo effettuato nel suo ambito (al quale la Corte di appello ha per attribuito una rilevanza prevalentemente fattuale) sarebbe inutilizzabile a seguito della dichiarazione dei convenuti di non intendersi avvalersi della procura speciale interessata dalla querela di falso, contrastando detta nozione di inutilizzabilità con l’intervenuta sanatoria di eventuali nullità relative al procedimento cautelare.

4 – Il quarto motivo, con il quale si deduce la violazione dell’art. 2909 c.c., artt. 113, 342 e 346 c.p.c.: la corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto coperte da giudicato implicito le domande di natura patrimoniale, che viceversa, essendo state ritenute assorbite nella sentenza di primo grado, non dovevano essere specificamente impugnate.

4.1 – La doglianza è infondata: nella specie il giudicato implicito è stato affermato dalla Corte di appello in relazione all’antitesi fra l’accoglimento dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità e le pretese di natura patrimoniale avanzate dalla sig.ra C. in quanto figlia del de cuius, con evidente esclusione di qualsiasi ipotesi, anche “impropria”, di assorbimento (Cass., 9 ottobre 2012, n. 17219).

5 – Al rigetto del ricorso, per le indicate ragioni, consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali,liquidate in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Dà atto della insussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 26 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2017

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