Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 38333 del 03/12/2021

Cassazione civile sez. I, 03/12/2021, (ud. 19/11/2021, dep. 03/12/2021), n.38333

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 929/2021 proposto da:

V.F., C.A., elettivamente domiciliati in

Roma, Via Sistina n. 121, presso lo studio dell’avvocato Abbamonte

Orazio, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

Iannaccone Marco, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Co.Fr., elettivamente domiciliato in Roma, Via Bertoloni

n. 29, presso lo studio dell’avvocato Santangelo Giovan Battista,

rappresentato e difeso dagli avvocati Lemmo Gian Luca, Verde

Giovanni, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

Ordine dei Commercialisti e degli Esperti Contabili del Circondario

di Napoli Nord, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, Piazza San Bernardo n. 101,

presso lo studio dell’avvocato Terracciano Gennaro, rappresentato e

difeso dall’avvocato Messina Antonio, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

contro

B.L., + ALTRI OMESSI;

– intimati –

avverso la decisione n. 30/2020 del CONSIGLIO NAZIONALE DEI DOTTORI

COMMERCIALISTI E DEGLI ESPERTI CONTABILI di ROMA, depositata il

24/11/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

19/11/2021 dal cons. NAZZICONE LOREDANA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con decisione del 24 novembre 2020, il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili ha respinto il reclamo proposto dai dottori V. e C. avverso la deliberazione del Consiglio dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Napoli Nord in data 7 ottobre 2020, vertente sulla ammissione alla competizione elettorale, per il rinnovo delle cariche consiliari per il quadriennio 1 gennaio 2021 – 31 dicembre 2024, della lista denominata “Nel segno della continuità” e recante la candidatura a presidente del Dott. Co..

Avverso tale decisione i dottori V. e C. hanno proposto ricorso per cassazione, affidato ad un motivo.

Il Consiglio dell’Ordine ed il Dott. Co. hanno resistito con controricorsi, quest’ultimo depositando anche la memoria, con cui ha chiesto dichiararsi cessata la materia del contendere.

Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con l’unico motivo, i ricorrenti denunciano la violazione del D.Lgs. 28 giugno 2005, n. 139, artt. 9 e 24, (costituzione dell’ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, a norma della L. 24 febbraio 2005, n. 34, art. 2) e della L. 12 luglio 2017, n. 113, art. 3, (disposizioni sull’elezione dei componenti dei consigli degli ordini circondariali forensi), in quanto la prima norma prevede che i consiglieri ed il presidente siano eleggibili per non oltre due mandati consecutivi, né può essere vanificata la disposizione in forza di dimissioni volontarie, come nella specie, presentate appena prima della metà del secondo mandato, in elusione della norma. Del resto, il D.Lgs. n. 267 del 2001, art. 51, rende irrilevanti le dimissioni volontarie del sindaco del comune, proprio per evitarne la strumentalità; mentre la L. n. 113 del 2017, art. 3, in tema di consigli forensi, laddove permette la terza rielezione se la precedente carica sia cessata prima di metà del mandato, non disciplina il caso delle dimissioni volontarie. Pertanto, non vi era nessuna lacuna di disciplina che dovesse essere colmata secondo l’analogia, avendo il legislatore fissato il regime rigoroso predetto.

2. – A fondamento della decisione impugnata, il Consiglio nazionale ha premesso che, nelle elezioni del 5 e 6 novembre 2020, furono presentate due liste e che fu eletto il Dott. Co., candidato presidente per la prima lista, sebbene già in carica per due mandati consecutivi, dal 2014 e dal 1017, quest’ultimo peraltro cessato il 10 dicembre 2018 per dimissioni.

Pertanto, applicando in via analogica la L. 12 luglio 2017, n. 113, art. 3, comma 4, sulla elezione dei componenti dei consigli degli ordini forensi, ha ritenuto non ostativo alla ricandidatura l’espletamento di due precedenti mandati consecutivi, di cui il secondo interrotto prima della metà del tempo.

Al contrario, ha reputato estraneo alla materia l’art. 51 t.u.e.l., che riguarda il sindaco del comune.

3. – Deve darsi atto della cessazione della materia del contendere, con conseguente inammissibilità al riguardo del ricorso, per le sopravvenute evenienze, processuali e fattuali, indicate nella memoria dal Dott. Co..

Invero, il Consiglio di Stato, con pronuncia n. 9208 del 2020, ha sospeso le elezioni degli Ordini territoriali dei dottori commercialisti e degli esperti contabili; con sentenza del 22 aprile 2021, n. 4706, il T.a.r. Lazio ha annullato il regolamento elettorale ed il provvedimento con cui erano state indette le elezioni che hanno occasionato il presente giudizio; in seguito, il CNDCEC ha modificato il predetto regolamento ed ha indetto sulla base di esso nuove elezioni. il T.a.r. Lazio con provvedimento n. 5097 del 2021 ha sospeso in via cautelare anche le successive elezioni.

Infine, il Dott. Co. non è candidato, né come presidente né come consigliere, alle prossime elezioni di Napoli Nord.

4. – Occorre, peraltro, provvedere all’enunciazione del principio di diritto, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., avendo la questione un interesse che supera la presente controversia.

4.1. – L’art. 9, comma 9, D.Lgs. n. 28 giugno 2005, n. 139 prevede “(i) consiglieri dell’ordine ed il presidente possono essere eletti per un numero di mandati consecutivi non superiori a due”.

La ratio del divieto è quella di assicurare il “preminente valore dell’avvicendamento o del ricambio nelle cariche rappresentative” (così Cass., sez. un., 9 dicembre 2018, n. 32781, con riguardo al divieto di terzo mandato per gli ordini forensi; Cass., ord. 21 maggio 2018, nn. 12461 e 12462, proprio in relazione alla norma ora in esame).

Invero, il fondamento dell’ineleggibilità prevista dal D.Lgs. n. 139 del 2005, art. 9, comma 9, sta nell’esigenza di assicurare la più ampia partecipazione degli iscritti all’esercizio delle funzioni di governo degli ordini, favorendone l’avvicendamento nell’accesso agli organi di vertice, in modo tale da garantire la par conditio tra i candidati, la quale è suscettibile di essere alterata da rendite di posizione, ed evitare il manifestarsi di fenomeni di “sclerotizzazione” nelle relative compagini, potenzialmente nocivi per un corretto svolgimento delle funzioni di rappresentanza degli interessi degli iscritti e di vigilanza sul rispetto da parte degli stessi sulle norme che disciplinano l’esercizio della professione, nonché sull’osservanza delle regole deontologiche (Cass., ord. 21 maggio 2018, nn. 12461 e 12462; v. pure Cass. 9 ottobre 2007, n. 21100; 5 giugno 2007, n. 13181; 20 maggio 2006, n. 11895).

Il medesimo fondamento è stato individuato dal giudice delle leggi circa la previsione d’incandidabilità a consigliere degli ordini circondariali forensi nelle stesse ipotesi, in quanto la “peculiare ed essenziale finalità” del divieto è quella “di valorizzare le condizioni di eguaglianza che l’art. 51 Cost., pone alla base dell’accesso “alle cariche elettive””, la quale induce a scongiurare che la competizione possa essere influenzata da coloro che ricoprono da due o più mandati consecutivi la carica, per la quale si concorre, “e che abbiano così potuto consolidare un forte legame con una parte dell’elettorato, connotato da tratti peculiari di prossimità” (Corte Cost. 10 luglio 2019, n. 173).

Il legislatore, quindi, contempera l’autonomia degli ordini in modo da garantire che qualunque iscritto possa accedere in condizioni di effettiva parità alle cariche sociali.

4.2. – Nessuna esclusione o eccezione al divieto è posta dal D.Lgs. n. 139 del 2005, art. 9, neppure con riguardo al caso, come quello in esame, in cui uno dei due mandati consecutivi sia stato espletato solo in parte.

Invece che procedere all’applicazione della predetta disposizione, la decisione impugnata ha, al riguardo, ritenuto di applicare tout court la disciplina di cui alla L. n. 113 del 2017, art. 3, comma 4.

In tal modo, tuttavia, essa non ha agito nel rispetto dei canoni dell’interpretazione della legge, dettati dall’art. 12 preleggi, laddove si prevede, al comma 1, che occorre attribuire alla legge il “senso… fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”, e, al comma 2, che “se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico”.

Nell’applicare la L. n. 113 del 2017, art. 3, comma 4, in tema di consigli forensi, invero, il Consiglio nazionale ha individuato una fattispecie, che però non regolava la vicenda concreta, che nella prima non avrebbe potuto essere sussunta.

4.3. – Ove una norma, o un sistema di norme, si prestino a diverse interpretazioni, tutte plausibili, dovere primario dell’interprete, e specie del giudice, è di perseguire l’interpretazione più corretta e non una qualsiasi di quelle che il testo consente; certo essendo, altresì, che il giudice non crea il diritto, ma opera secondo i criteri ermeneutici noti ed entro i limiti del diritto positivo (Cass. 2 ottobre 2018, n. 23950).

Ciò, atteso, che le scelte di politica del diritto sono riservate al legislatore, al giudice competendo solo di interpretare la norma nei limiti delle opzioni ermeneutiche più corrette dell’enunciato (Cass., sez. un., 18 settembre 2020, n. 19597).

E’ in tal senso, pertanto, che la funzione assolta dalla giurisprudenza è di natura “dichiarativa”, giacché riferita ad una preesistente disposizione di legge, della quale è volta a riconoscere l’esistenza e l’effettiva portata, “con esclusione formale di un’efficacia direttamente creativa” (Cass., sez. un., 28 gennaio 2021, n. 2061).

Sicché l’attività interpretativa giudiziale è segnata, anzitutto, dal limite di tolleranza ed elasticità dell’enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento ad opera della giurisprudenza stessa (cfr. Cass., sez, un., 11 luglio 2011, n. 15144; 22 giugno 2018, n. 16957; 31 ottobre 2018, n. 27755; 28 gennaio 2021, n. 2061).

4.4. – Ne’ è corretta la pretesa estensione analogica di quella disposizione al caso di specie.

Secondo l’art. 12, comma 2, delle citate disposizioni preliminari, quando una controversia non può essere decisa con una specifica disposizione – da interpretarsi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, secondo i canoni dell’interpretazione letterale, sistematica, teleologica e storica – il giudice ricorre all’analogia legis, ovverossia estende al caso non previsto la norma positiva dettata per casi simili o materie analoghe. E se, ciò nonostante, permane il dubbio interpretativo, troverà applicazione l’analogia iuris, ossia l’applicazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico. In tal modo, il ricorso all’analogia si risolve in un meccanismo integrativo dell’ordinamento che permette al giudice di decidere comunque, anche in presenza di una lacuna normativa.

L’interpretazione, o applicazione, analogica, o per analogia, consiste dunque nel procedimento mediante il quale chi interpreta ed applica il diritto può sopperire alle eventuali deficienze di previsione legislativa (c.d. lacuna dell’ordinamento giuridico) facendo ricorso alla disciplina normativa prevista per un caso “simile” ovvero per “materie analoghe”: ciò, in quanto il giudice deve decidere ogni caso che venga sottoposto al suo esame (“obbligo di non denegare giustizia”) e deve assumere la relativa decisione applicando una norma dell’ordinamento positivo (“obbligo di fedeltà del giudice alla legge”: art. 101 Cost., comma 2) (Cass. 8 agosto 2005, n. 16634).

Segnatamente, per poter ricorrere al procedimento per analogia, è necessario che: a) manchi una norma di legge atta a regolare direttamente un caso su cui il giudice sia chiamato a decidere; b) sia possibile ritrovare una o più norme positive (c.d. analogia legis) o uno o più principi giuridici (c.d. analogia iuris) il cui valore qualificatorio sia tale che le rispettive conseguenze normative possano essere applicate alla fattispecie originariamente carente di una specifica regolamentazione, sulla base dell’accertamento di un rapporto di somiglianza tra alcuni elementi (giuridid o di fatto) della fattispecie regolata ed alcuni elementi di quella non regolata: costituendo il fondamento dell’analogia la ricerca del “quid comune”, mediante il quale l’ordinamento procede alla propria “autointegrazione” (così la S.C., nella sentenza appena citata). Presupposti per l’utilizzo dell’analogia, quale mezzo di integrazione dell’ordinamento giuridico sono, dunque, la presenza di una lacuna dell’ordinamento e che le norme da applicare disciplinino un caso simile.

L’analogia legis postula, anzitutto, che sia correttamente individuata una “lacuna”, tanto che al giudice sia impossibile decidere, secondo l’incipit del precetto (“se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione…”); difatti, l’art. 12 preleggi, comma 2, si spiega storicamente soltanto nel senso di evitare, in ragione del principio di completezza dell’ordinamento giuridico, che il giudice possa pronunciare un non liquet, a causa la mancanza di norme che disciplinino la fattispecie.

Se l’applicazione analogica presuppone la carenza di una norma nella indispensabile disciplina di una materia o di un caso (cfr. art. 14 preleggi), ciò vuol dire che, in caso contrario, la scelta di riempire un preteso vuoto normativo sarebbe rimessa all’esclusivo arbitrio giurisdizionale, con conseguente compromissione delle prerogative riservate al potere legislativo e del principio di divisione dei poteri dello Stato.

Onde non semplicemente perché una disposizione normativa non preveda una certa disciplina, in altre invece contemplata, costituisce ex se una lacuna normativa da colmare facendo ricorso all’analogia, ai sensi dell’art. 12 preleggi.

Il canone della c.d. interpretazione analogica non costituisce la via per creare come si vuole norme inesistenti nel diritto positivo, essendo, invece, solo il modo, dall’ordinamento stesso prefigurato, di colmare le lacune dello stesso. Ciò tanto più quando, come nel caso in esame, si tratti di estendere l’applicazione di una disposizione specifica oltre l’ambito delineato dal legislatore ed in presenza di diversi presupposti integrativi della fattispecie.

4.5. – Importanti affermazioni sono state in materia rese da Corte Cost. 10 luglio 2019, n. 173, la quale (nel giudicare infondata la questione di legittimità costituzionale della L. 12 luglio 2017, n. 113, art. 3, comma 3, secondo periodo, nella parte in cui prevede che i consiglieri dei consigli circondariali forensi non possano essere eletti per più di due mandati consecutivi, in riferimento agli artt. 2,3,18,48,51 e 118 Cost.) contiene alcune indicazioni di rilevanza sistematica, laddove statuisce che “la previsione di un limite ai mandati che possono essere espletati consecutivamente è un principio di ampia applicazione per le cariche pubbliche – membri elettivi del Consiglio superiore della magistratura (Csm); componenti del Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato; membri del Consiglio nazionale forense; componenti del Consiglio nazionale del notariato, tra gli altri – ed e’, comunque, un principio di portata generale nel più specifico ambito degli ordinamenti professionali”.

In tale contesto, la Corte costituzionale – quanto agli ordini professionali – ha richiamato proprio l’art. 9, comma 9, insieme all’art. 25 sul consiglio nazionale, D.Lgs. n. 139 del 2005, nonché ancora il D.P.R. 8 luglio 2005, n. 169, artt. 2 e 5, relativamente ai consigli degli ordini dei dottori agronomi e forestali, degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori, degli assistenti sociali, degli attuari, dei biologi, dei geologi e degli ingegneri; e il D.P.R. 25 ottobre 2005, n. 221, artt. 2 e 3, riguardanti la composizione del consiglio nazionale e dei consigli territoriali dell’ordine degli psicologi.

Ai consigli degli ordini professionali, nel complesso della loro disciplina, sono invero attribuite numerose funzioni pubblicistiche di vigilanza e rappresentanza esterna, che il giudice delle leggi ha enumerato, e con le quali risulta del tutto “coerente la previsione del divieto del terzo mandato consecutivo”.

Ciò “in modo da garantire che qualunque iscritto possa accedere in condizioni di effettiva parità alle cariche sociali. L’impedimento temporaneo alla ricandidatura appare preordinato a evitare la formazione e la cristallizzazione di gruppi di potere interni all’avvocatura, o quantomeno a limitarne l’eventualità, mediante il ricambio delle cariche elettive e la conseguente salvaguardia della parità delle voci” (ancora Corte Cost. 10 luglio 2019, n. 173).

Dunque, per espressa ricostruzione sistematica del giudice delle leggi, la previsione di un limite ai mandati espletabili consecutivamente è un “un principio di portata generale nel più specifico ambito degli ordinamenti professionali”.

4.6. – Nella specie, non ricorrono i presupposti del ricorso all’analogia: una lacuna, all’evidenza, non esiste; anzi, il pericolo inverso e’, piuttosto, quello di violare attraverso l’analogia il principio di legalità, di cui all’art. 12 preleggi, comma 1.

Il D.Lgs. n. 139 del 2005, disciplina con una specifica disposizione ed in modo esplicito la situazione d’ineleggibilità alla carica, non ponendo al divieto eccezioni o limitazioni: sicché non vi è alcun “vuoto” da colmare.

Il provvedimento impugnato ha in sostanza voluto riscontrare l’esistenza di un vuoto normativo, relativo all’ipotesi di mancato completamento di uno dei due mandati consecutivi, oltretutto stabilendo che, in tal caso, rilevi solo il caso in cui esso sia durato meno della metà. E’ palese come, in tal modo, una norma nuova sia stata coniata: ciò si rende particolarmente chiaro, ove si consideri che ben avrebbe potuto allora il Consiglio nazionale, del pari, stabilire un diverso tempo di minor durata di uno dei due mandati, senza che l’arbitrarietà della decisione assunta ne risultasse in modo rilevante accresciuta.

Ciò che, tuttavia, impedisce tale disinvolta operazione interpretativa è la carenza già del primo dei due presupposti dell’analogia (lacuna normativa, eadem ratio), alla stregua della tradizionale e condivisa teoria generale del diritto: non sussiste, invero, una lacuna normativa, non potendo ritenersi indefettibile la previsione di un’esclusione della incandidabilità, quando i due mandati consecutivi non siano stati svolti entrambi per un quadriennio; onde l’opzione di individuarvi una lacuna normativa risulta arbitraria e rimessa alle personali e soggettive scelte dell’interprete.

4.7. – Del resto, l’assenza di una situazione limitativa della incapacità di elettorato passivo, come quella coniata dal consiglio nazionale nella decisione impugnata, è comune ad altre situazioni, proprio in tema di elezioni agli organi dei consigli degli ordini professionali: onde sarebbe irragionevole, e comunque arbitraria, un’applicazione analogica della esclusione del divieto.

Se, invero, il principio generale è proprio quello della limitazione ai due mandati, l’irrilevanza del parziale espletamento di uno dei due, contenuta nella L. n. 113 del 2017, art. 3, comma 4, si palesa regola non applicabile in via analogica, né tantomeno espressione di un principio generale limitativo della incapacità.

Al contrario, nel ricordato contesto normativo e sistematico, la regola del limite a due mandati consecutivi per gli organi elettivi professionali costituisce una principio di carattere generale, mentre la rieleggibilità per il terzo mandato a date condizioni si configura come eccezione, di natura tassativa e, quindi, insuscettibile di interpretazione analogica o applicazione oltre i casi espressamente previsti (art. 14 preleggi).

4.8. – E’ vero che, dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, le norme che prevedono cause d’ineleggibilità sono state definite a carattere eccezionale, perché limitatrici del diritto di elettorato passivo e che tali norme non potrebbero essere interpretate in via estensiva o analogica, oltre la loro portata, per applicarle a situazioni non previste (Cass., ord. 21 maggio 2018, nn. 12461 e 12462, che richiamano i precedenti).

Ma, nella specie, non si tratta di estendere in via interpretativa l’ambito applicativo della causa d’ineleggibilità ad un caso non contemplato: viceversa, si tratta di non introdurre arbitrariamente limiti applicativi ad una disposizione, che non li presenta ad opera del legislatore e che costituisce, anzi, una regola generale nell’ambito delle elezioni alle cariche degli ordini professionali, come esposto, nonché di non estendere oltre i limiti suoi propri, invece, la L. n. 113 del 2017, art. 3, comma 4.

La L. n. 113 del 2017, art. 3, comma 4, in definitiva, non è suscettibile di applicazione analogica ad altre fattispecie; infatti, introducendo un’eccezione al principio generale tendente a garantire la partecipazione ed il ricambio delle cariche elettive degli ordini professionali, e la conseguente salvaguardia della parità delle possibilità per tutti, la norma è di stretta interpretazione.

4.9. – Onde nella decisione impugnata si è trattato non di interpretazione o soluzione ad una lacuna dell’ordinamento, ma dell’introduzione ex novo di una disposizione mai dettata, sia pure implicitamente, dal legislatore, cui si potesse legittimamente giungere in forza della mera interpretazione.

Che nella specie non possa parlarsi di casus omissus e, conseguentemente, non sussista il presupposto per fare ricorso al procedimento per analogia appare oltremodo evidente, in quanto il legislatore ha espressamente limitato il suo intervento alla regolamentazione del divieto di rielezione per un numero di mandati consecutivi superiori a due.

Si tratta, di conseguenza, di applicare una disciplina da interpretarsi nel suo effettivo contesto “letterale” e “sostanziale”: per cui, nella specie, non manca una norma di legge atta a regolare compiutamente la materia e non deve ricercarsi altrove un quid comune, per integrare una lacuna dell’ordinamento, in quanto nella legge da interpretare e da applicare vi è la disciplina normativa idonea ad una corretta attività di qualsiasi interprete, prima, e del giudice, poi.

Considerata l’assorbente ragione della verificata impossibilità ab imis di ricorrere al procedimento analogico, per essere la normativa nella specifica materia completa, non occorre allora accertare se sussista un’identità di ratio.

4.10. – Deve, in conclusione, enunciarsi il seguente principio di diritto, ai sensi dell’art. 363 c.p.c.:

“In tema di elezione dei consigli dell’ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, il D.Lgs. 28 giugno 2005, n. 139, art. 9, comma 9, disciplina la situazione di ineleggibilità alla carica, senza eccezioni o limitazioni, stabilendo, al fine di assicurare il preminente valore dell’avvicendamento nelle cariche rappresentative, che i consiglieri ed il presidente siano eleggibili per non oltre due mandati consecutivi: ne deriva che, non essendovi una lacuna da colmare, non può farsi applicazione analogica della L. 12 luglio 2017, n. 113, art. 3, il quale, in tema di elezione dei componenti dei consigli degli ordini circondariali forensi, permette la terza rielezione, se la precedente carica sia cessata prima di metà del mandato”.

5. – Le spese di legittimità vengono interamente compensate, per la novità della questione e l’esito della lite.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse ed enuncia il principio nell’interesse della legge, di cui in motivazione. Compensa per intero le spese di lite del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 19 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2021

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