Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 38324 del 03/12/2021

Cassazione civile sez. III, 03/12/2021, (ud. 11/06/2021, dep. 03/12/2021), n.38324

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso iscritto al numero 16612 del ruolo generale dell’anno

2019 proposto da:

TERNANA SOCCORSO IMMOBILIARE S.r.l., (P.I.: (OMISSIS)), in persona

del legale rappresentante pro tempore, N.F. rappresentato e

difeso, giusta procura allegata in calce al ricorso, dall’avvocato

Roberto Materazzi, (C.F.: MRT RRT 56T26 L117M);

– ricorrente –

nei confronti di:

COMUNE DI TERNI, (C.F.: (OMISSIS)), in persona del Sindaco, legale

rappresentante pro tempore rappresentato e difeso, giusta procura a

margine del controricorso, dall’avvocato Paolo Gennari (C.F.: GNN

PLA 65M22 D969H);

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Perugia n.

819/2018, pubblicata in data 26 novembre 2018;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’11 giugno 2021

dal consigliere Dott. Augusto Tatangelo;

letta la requisitoria scritta del pubblico ministero, in persona del

sostituto procuratore generale Dott. Soldi Anna Maria, che ha

concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Ternana Soccorso S.n.c. (oggi Ternana Soccorso Immobiliare S.r.l.) ha assoggettato ad espropriazione forzata un immobile del Comune di Terni, che ha proposto opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., allegandone l’impignorabilità.

L’opposizione è stata accolta dal Tribunale di Terni.

La Corte di Appello di Perugia ha confermato la decisione di primo grado nel merito, riformando esclusivamente il capo relativo alle spese processuali del primo grado.

Ricorre Ternana Soccorso Immobiliare S.r.l., sulla base di quattro motivi.

Resiste con controricorso il Comune di Terni.

E’ stata disposta la trattazione in pubblica udienza, che ha avuto luogo in modalità cd. cameralizzata, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni in L. 18 dicembre 2020, n. 176.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 58”.

Con il secondo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, degli artt. 115 e 116 c.p.c., ed ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 dell’art. 1362 c.c.”.

Con il terzo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 826 c.c. e del D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 49 e 107 in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c.”.

I primi tre motivi del ricorso sono connessi e, come tali, possono essere esaminati congiuntamente.

Essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati.

Secondo la società ricorrente, diversamente da quanto ritenuto dalla corte di appello, non sussisterebbero i requisiti richiesti dall’art. 826 c.c., comma 3 e art. 828 c.c., ai fini dell’impignorabilità dell’immobile del comune, cioè la sua appartenenza al patrimonio indisponibile dell’ente in ragione della sua destinazione (oggettiva e soggettiva) ad un pubblico servizio o ufficio: tale immobile sarebbe invece qualificabile come bene appartenente al patrimonio indisponibile, e ciò anche ai sensi del D.Lgs. n. 112 del 2008, per essere stato individuato dal comune stesso come uno dei propri beni immobili da alienare.

1.1 Si premette che il pignoramento ha avuto luogo in data 31 luglio 2013.

Vengono richiamate, nella sentenza impugnata, tre distinte deliberazioni del Comune di Terni riguardanti l’immobile pignorato, che sono state ritenute rilevanti ai fini della sua impignorabilità:

– la Delib. n. 112 del 2012, anteriore al pignoramento, avente ad oggetto la destinazione dell’immobile a pubblico servizio/ufficio, destinazione che ne ha determinato l’appartenenza al patrimonio indisponibile dell’ente, ai sensi dell’art. 826 c.c., comma 3;

– la Delib. n. 360 del 2015, successiva al pignoramento, con la quale – secondo la società ricorrente – esso sarebbe stato invece incluso tra quelli da alienare, il che ne avrebbe determinato l’automatica inclusione nel patrimonio disponibile dell’ente stesso, ai sensi del D.Lgs. n. 112 del 2008, art. 58 ma che la corte di appello ha invece ritenuto avere espresso una mera indicazione di massima in proposito, con differimento della nuova destinazione al momento dell’adozione di una successiva specifica deliberazione (di fatto mai intervenuta);

– la Delib. n. 236 del 2016, ancora successiva, in cui il comune ha invero espressamente confermato la destinazione dell’immobile a pubblico servizio/ufficio e l’appartenenza di esso al proprio patrimonio indisponibile.

1.2 Le censure avanzate con i motivi di ricorso in esame pongono, nella sostanza, una questione di interpretazione del contenuto effettivo delle deliberazioni del comune relative alla destinazione del bene immobile pignorato.

Si tratta, peraltro, di un accertamento di fatto relativo all’interpretazione della volontà espressa dall’ente nelle deliberazioni in questione che è stato effettuato dalla corte di appello sulla base della valutazione dei fatti storici rilevanti e risulta sostenuto da adeguata motivazione, non apparente né insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non sindacabile nella presente sede.

Il predetto accertamento non può d’altronde ritenersi censurato in modo adeguatamente specifico, sotto il profilo della violazione delle norme di ermeneutica negoziale, pacificamente applicabili anche agli atti amministrativi, secondo il costante indirizzo di questa Corte (cfr., ex multis: Cass., Sez. L, Sentenza n. 28625 del 15/12/2020, Rv. 659960 – 01; Sez. U, Sentenza n. 20181 del 25/07/2019, Rv. 654876 – 02; Sez. 1, Sentenza n. 8876 del 14/04/2006, Rv. 590987 – 01; Sez. L, Sentenza n. 8296 del 10/04/2006, Rv. 589199 – 01; Sez. L, Sentenza n. 8974 del 07/04/2008, Rv. 602953 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 6535 del 07/05/2002, Rv. 554206 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 5480 del 04/06/1999, Rv. 527036 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 11409 del 12/11/1998, Rv. 520636 – 01), in base al generico richiamo dell’art. 1362 c.c. operato dalla società ricorrente.

Sotto questo profilo, il ricorso deve pertanto ritenersi inammissibile.

1.3 Va inoltre osservato, sotto diverso ma concorrente profilo, che la pignorabilità del bene assoggettato ad espropriazione deve sussistere al momento del pignoramento, il quale nella specie è pacificamente avvenuto nel 2013, quando era stata emessa la Delib. comunale n. 112 del 2012, in virtù della quale il bene immobile pignorato apparteneva certamente al patrimonio indisponibile dell’ente, mentre non era ancora stata emessa la Delib. n. 360 del 2015 sulla individuazione dei beni comunali da alienare, che ne avrebbe determinato (secondo la ricorrente) il successivo trasferimento al patrimonio disponibile.

Quindi, il pignoramento era certamente nullo nel momento in cui è stato eseguito, avendo colpito un bene immobile in quel momento senza dubbio impignorabile.

Le successive deliberazioni del comune aventi ad oggetto detto immobile non potevano d’altra parte determinare la sopravvenuta sanatoria di detta nullità, tenuto conto che il diritto di procedere ad esecuzione forzata sui beni pignorati deve sussistere per tutto il corso del processo esecutivo e che, d’altra parte, se anche si potesse ritenere che, ai fini della pignorabilità, abbiano rilievo i fatti sopravvenuti, nella specie detta pignorabilità dovrebbe allora certamente ritenersi venuta comunque meno con la Delib. n. 236 del 2016, che ha di fatto revocato quella del 2015, chiarendo che il comune intendeva confermare l’appartenenza del bene immobile al suo patrimonio indisponibile, in virtù della sua destinazione a pubblico ufficio ed escludendolo da eventuali future alienazioni.

1.4 Anche a fini di completezza espositiva, con riguardo alla pignorabilità del bene assoggettato ad espropriazione, si devono inoltre formulare i seguenti ulteriori rilievi, per quanto occorra anche ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, i quali confermano la correttezza della decisione impugnata, nel suo dispositivo finale.

Ai sensi del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 159 (cd. T.U.E.L.) “non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri” e “gli atti esecutivi eventualmente intrapresi non determinano vincoli sui beni oggetto della procedura espropriativa”.

In base a tale disposizione, l’esecuzione forzata nei confronti degli enti locali è ammessa esclusivamente con riguardo alle disponibilità degli stessi presso i rispettivi istituti tesorieri, e deve avere pertanto luogo nelle forme del pignoramento dei crediti, ai sensi degli artt. 543 c.p.c. e ss..

Ne consegue che devono ritenersi impignorabili tutti gli altri beni degli enti stessi, ivi inclusi i beni immobili, anche se eventualmente appartenenti al patrimonio disponibile (e tale impignorabilità è rilevabile anche di ufficio dal giudice dell’esecuzione).

Nella specie, l’opposizione è stata proposta dal comune debitore proprio per far valere l’impignorabilità dell’immobile assoggettato ad espropriazione e tale impignorabilità certamente sussiste, anche sulla base di norme diverse da quelle invocate dal comune opponente, ciò che peraltro non ne impedisce il rilievo, in conformità al principio della domanda, dal momento che a fondamento dell’opposizione risultano comunque indicati tutti i fatti rilevanti e sono invocate dall’opponente le relative corrette conseguenze giuridiche, spettando al giudice l’individuazione delle norme in proposito applicabili.

1.5 Infine, si deve dare atto che, secondo quanto emerge dalla stessa sentenza impugnata (la circostanza non è oggetto di contestazione), il comune di Terni ha dichiarato il dissesto finanziario in data 1 marzo 2018: ne deriva che il processo esecutivo deve ritenersi estinto per legge e, comunque esso non potrebbe proseguire fino alla cessazione del dissesto, il che – secondo la stessa corte di appello, per quanto pare emergere dalla motivazione della decisione impugnata – ha determinato di fatto la cessazione della materia del contendere sul merito dell’opposizione, con conseguente esame delle questioni poste con i motivi di ricorso fin qui esposti ai soli fini della regolamentazione delle spese di lite, cioè, in altri termini, sulla base del principio della soccombenza virtuale.

2. Con il quarto motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 92 c.p.c., ovvero nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, per contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo”.

Il motivo è infondato.

Il tribunale, in primo grado, ha accolto l’opposizione del comune e condannato l’opposta soccombente alle spese del grado.

In sede di appello quest’ultima, oltre ad avere impugnato la decisione di merito, ha proposto uno specifico motivo di gravame con riguardo al capo relativo alle spese, assumendo che avrebbe dovuto esserne disposta la compensazione.

La corte di appello, sulla base della considerazione di alcune delle ragioni in virtù delle quali l’appellante aveva chiesto la compensazione, ha ritenuto di rideterminare esclusivamente l’importo delle spese in questione (riducendolo), ma non di disporne la richiesta compensazione, tenuto conto che la fondatezza dell’opposizione era stata comunque integralmente confermata.

Secondo la ricorrente, in base alle suddette ragioni avrebbero invece dovuto essere compensate le spese del primo grado e, anche in relazione al (quanto meno parziale) accoglimento del gravame, avrebbero dovuto altresì essere compensate, almeno in parte, quelle del giudizio di secondo grado.

In realtà, la corte di appello (al di là di ogni questione relativa alla rideterminazione del quantum dell’importo liquidato per le spese del primo grado del giudizio, con riguardo alla quale non sono state avanzate in questa sede specifiche censure) ha correttamente applicato il disposto dell’art. 91 c.p.c., secondo il quale la parte soccombente va condannata al rimborso delle spese di lite in favore di quella vittoriosa (cd. principio di soccombenza): non vi è dubbio infatti che la soccombenza della società opposta (anche a volerla intendere come virtuale, per quanto esposto in precedenza) sia stata nella specie integrale, nel merito, essendo stata accolta l’opposizione proposta dal comune, sia in primo che in secondo grado.

La circostanza che sia stato rideterminato dalla corte di appello l’importo delle spese liquidate in favore della parte integralmente vittoriosa, per il giudizio di primo grado, non muta la situazione, nella specie.

In tal caso, infatti, essendo intervenuta una parziale riforma della pronuncia di primo grado, spetta al giudice di secondo grado la (ri)determinazione delle spese dell’intero giudizio, sulla base della valutazione del suo esito complessivo, che, come già osservato, resta quello di integrale soccombenza della società opposta, nel merito.

Correttamente, pertanto, la corte di appello ha posto tali spese a carico di quest’ultima, limitandosi alla riduzione dell’importo liquidato per il giudizio primo grado, senza disporre alcuna compensazione, né per il primo né per il secondo grado.

Del resto ciò risulta ben possibile, anche ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, disposizione che consente ma non impone al giudice la compensazione delle spese in caso di parziale soccombenza reciproca delle parti: di conseguenza, deve escludersi che la parziale soccombenza reciproca invocata dalla ricorrente in relazione al giudizio di secondo grado (derivante dal parziale accoglimento del gravame sulle spese, per il solo importo delle stesse) potesse imporre alla corte di appello una compensazione, anche solo parziale.

La facoltà di disporre la compensazione delle spese processuali tra le parti rientra, infatti, in ogni caso nel potere discrezionale del giudice di merito (anche in caso di parziale soccombenza reciproca delle parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, come già osservato), e questi non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (cfr. Cass., Sez. U, Sentenza n. 14989 del 15/07/2005, Rv. 582306 – 01; conf., in precedenza: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 851 del 01/03/1977, Rv. 384463 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1898 del 11/02/2002, Rv. 552178 – 01; Sez. L, Sentenza n. 10861 del 24/07/2002, Rv. 556171 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 17692 del 28/11/2003, Rv. 572524 – 01; successivamente: Sez. 3, Sentenza n. 22541 del 20/10/2006, Rv. 592581 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 28492 del 22/12/2005, Rv. 585748 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 7607 del 31/03/2006, Rv. 590664 – 01).

3. Il ricorso è rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna la società ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore del comune controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 3.200,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali ed accessori di legge. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 11 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2021

 

 

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