Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3831 del 15/02/2021

Cassazione civile sez. lav., 15/02/2021, (ud. 26/11/2020, dep. 15/02/2021), n.3831

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19430-2015 proposto da:

T.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO

MIRABELLO N. 11, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE PIO

TORCICOLLO, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO PARATO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE

DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI

PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1561/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 04/07/2014 R.G.N. 2476/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/11/2020 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI.

 

Fatto

RITENUTO

1. Che la Corte d’Appello di Lecce, con la sentenza n. 1561 del 2014, accoglieva l’appello incidentale proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) nei confronti di T.R., assorbito l’appello principale, e in riforma della impugnata sentenza, resa tra le parti dal Tribunale di Lecce, rigettava la domanda proposta dal lavoratore.

2. T.R., dipendente del MEF, in servizio presso la Commissione Tributaria Provinciale di Lecce, aveva adito il Tribunale esponendo di essere stato vittima di una serie di condotte illecite, tutte finalizzate a dequalificarlo, discriminarlo e isolarlo dal contesto lavorativo dominato da aspra conflittualità.

Chiedeva, pertanto, la condanna del Ministero al pagamento della somma di Euro 150.000,00, ovvero della somma ritenuta di giustizia, quale ristoro del danno biologico patito a causa dei comportamenti ascrivibili a mobbing serbati dai dipendenti e/o funzionari dell’Amministrazione.

3. Il Tribunale ravvisava gli estremi di una condotta contrastante con l’art. 2087, c.c., e con gli artt. 1175 e 1375 c.c. in alcuni episodi rivelatori di ostilità e dell’intento di emarginare e svilire la figura del ricorrente nel contesto lavorativo.

Esclusa la spettanza del risarcimento del danno patrimoniale, e tenuto conto del danno biologico accertato nella misura del 15%, il Tribunale quantificava il danno differenziale ex art. 1226 c.c., tenendo conto delle tabelle in uso presso il Tribunale di Venezia, previo aumento per la personalizzazione in virtù del pregiudizio di tipo esistenziale o lesione alla professionalità.

4. La Corte d’Appello ha accolto l’impugnazione incidentale del MEF volta ad ottenere il rigetto della domanda del lavoratore.

5. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore, prospettando cinque motivi di ricorso.

6. Resiste il MEF con controricorso, eccependo in via preliminare l’inammissibilità del ricorso, in ragione della prolissità e lunghezza dello stesso e non rispondendo la descrizione dei fatti di causa alla descrizione sommaria richiesta dalle norme procedurali.

7. In prossimità dell’adunanza camerale il lavoratore ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

1. Che il primo motivo di ricorso, articolato in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, è dedotta la nullità della sentenza impugnata; violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2; violazione del divieto dello ius novorum in appello; valutazione ed utilizzazione da parte del Collegio giudicante di nuovi documenti depositati da controparte solo nel secondo grado di giudizio e mai formalmente ammessi in appello come indispensabili; violazione del principio del giusto processo.

Assume il ricorrente che la sentenza d’appello fa riferimento a documenti che sarebbero stati prodotti dalla difesa dello Stato solo in grado di appello e che la Corte d’Appello ha considerato come rilevanti e decisivi per la soluzione della controversia e, quindi, per la riforma della sentenza di primo grado; ciò sarebbe in contrasto con l’art. 437 c.p.c.

2. Con il secondo motivo di ricorso, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, è dedotta la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2,; nullità della sentenza impugnata; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, oltre che apparente motivazione, in ordine all’esatto e reale contesto lavorativo (conflittuale) in cui il ricorrente è stato costretto a operare, come emerso dalle risultanze probatorie acquisite in primo grado; erronea, apparente, parziale valutazione della documentazione, delle prove orali e della CTU, acquisite in primo grado, nonchè della posizione, della personalità e del comportamento del ricorrente in ambito lavorativo.

3. Con il terzo motivo di ricorso è prospettata, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, sotto ulteriore profilo; violazione ed erronea interpretazione dell’art. 115, c.p.c., nonchè delle disposizioni contrattuali e legislative in materia di diritto alle ferie dei dipendenti del Comparto ministeri.

4. Con il quarto motivo di ricorso è dedotto, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di numerosi punti decisivi e controversi per la decisione.

5. I motivi secondo, terzo e quarto sono trattati unitariamente dal ricorrente, come di seguito illustrato.

Il ricorrente riporta alcune pagine della sentenza di appello deducendo il carattere confusionario e fantasioso delle argomentazioni esposte nelle stesse, e a tal fine trascrive stralci di alcune deposizioni testimoniali, testi P., C. e M., contestando la valutazione effettuata dalla Corte d’Appello, che aveva utilizzato le dichiarazioni del M., che deduce essere un teste non affidabile, trascurando le altre. Illustra le vicende di causa; contesta, inoltre, la mancata considerazione delle risultanze della CTU di cui riporta stralcio.

Dunque, assume che vi sarebbe un vizio motivazionale relativo a doglianze che investono la ricostruzione della fattispecie concreta.

Se la Corte d’Appello non avesse valutato in modo superficiale il materiale probatorio fornito e non avesse ignorato tutti i documenti allegati, nonchè le dichiarazioni testimoniali che legittimavano il diritto di esso ricorrente ad ottenere l’accoglimento della domanda, la stessa avrebbe confermato la sentenza di primo grado. Ciò, anche in ragione del principio della disponibilità della prova di cui all’art. 115 c.p.c.

Il fatto controverso in relazione al quale è dedotta la nullità della sentenza gravata per omessa e/o contraddittoria motivazione consiste nell’avere la Corte territoriale disconosciuto rilevanza probatoria ai documenti prodotti e alle dichiarazioni testimoniali raccolte a sostegno della tesi del ricorrente, mentre le ragioni in relazione alle quali va esaminata l’insufficienza motivazionale e la inidoneità della sentenza gravata consistono nell’avere il giudice di appello riformato la sentenza gravata in assenza di qualsivoglia riscontro probatorio fornito e prodotto in primo grado.

Al fine di confutare la sentenza di appello il lavoratore (pagg. 63 -pag. 77 del ricorso per cassazione) ripercorre la sentenza di appello inframmezzando notazioni critiche facendo riferimento agli accadimenti riportati al punto 37 della narrativa (pagg. 25-34 del ricorso per cassazione), nonchè nello stesso corpo del motivo in particolare con riguardo all’attività della direttrice e al gruppo di lavoro istituito dalla Direzione regionale, contestando in particolare il procedimento valutativo delle prove, e l’aver fondato la decisione anche su provvedimenti organizzativi della CTP che sarebbero stati illegittimi.

6. I suddetti motivi, attesa la prospettazione argomentativa unitaria, vanno trattati congiuntamente. Gli stessi sono inammissibili.

6.1. In primo luogo, va osservato che la censura posta in relazione all’art. 437 c.p.c., con cui il ricorrente denuncia la produzione in appello di atti e documenti (in particolare della Commissione Tributaria Provinciale di Lecce), che non sarebbero stati depositati dalla difesa dello Stato in precedenza, con la conseguente violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, è priva di specificità e decisività, ed è pertanto inammissibile, atteso che la norma richiamata, se da un lato esclude nuovi mezzi di prova in appello, dall’altro prevede la possibilità che gli stessi siano ammessi anche d’ufficio dal giudice che li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa.

Nella specie, il ricorrente, da un lato non circostanzia la prospettata mancata produzione rituale in primo grado della documentazione indicata, non essendovi peraltro alcun raffronto tra i documenti allegati in primo e in secondo grado; dall’altro, nell’affermare che la Corte d’Appello ne ha tenuto conto, riportando nel primo motivo di ricorso i passi della sentenza di appello in cui ve n’è menzione, sembra avvalorare l’esercizio del potere officioso riconosciuto dal medesimo art. 437 c.p.c., comma 2, senza tuttavia denunciare che l’esercizio di tale potere sarebbe avvenuto in contrasto con gli specifici criteri legali dettati dalla medesima disposizione, come enunciati dalla giurisprudenza di legittimità.

Va in proposito ricordato che nel rito del lavoro (si v., Cass., n. 7694 del 2018, Cass. n. 26597 del 2020), stante l’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, il giudice, anche in grado di appello, ex art. 437 c.p.c., ove reputi insufficienti le prove già acquisite e le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, può in via eccezionale ammettere, anche d’ufficio, le prove indispensabili per la dimostrazione o la negazione di fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati o contestati e sussistano altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e già acquisiti, meritevoli di approfondimento.

6.2. Le ulteriori censure, nella cui prospettazione il ricorrente ripercorre la vicenda che lo ha interessato e la decisione impugnata sono inammissibili, in quanto, oltre a richiamare del tutto genericamente disposizioni contrattuali e legislative in materia di ferie dei pubblici dipendenti, tendono a proporre una diversa valutazione dei fatti, con la formulazione, nella sostanza, di una richiesta di duplicazione del giudizio di merito. Si richiede alla Corte di procedere a un nuovo vaglio delle risultanze istruttorie in ragione della lettura che delle stesse, con il ricorso, dà il lavoratore.

6.3. Quanto al vizio di violazione di legge riferito a norme legislative e contrattuali, a cui si è fatto riferimento, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., n. 4, come recentemente hanno ricordato le Sezioni Unite (Cass., S.U., n. 23745 del 2020), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa.

6.4. Va, quindi, rilevato (cfr., Cass., n. 6519 del 2019, n. 25332 del 2014) che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti. Ciò in ragione del proprium del giudizio di legittimità.

A tal proposito, si deve anche ricordare (Cass., n. 17196 del 2020) che il vizio di motivazione contraddittoria sussiste solo in presenza di un contrasto insanabile tra le argomentazioni addotte nella sentenza impugnata che non consenta la identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, sicchè detto vizio non è ipotizzabile nel caso in cui la contraddizione denunziata riguardi le contrastanti valutazioni compiute dal giudice di primo grado e da quello di appello, dovendo altrimenti ritenersi contraddittorie tutte le sentenze di secondo grado che abbiano motivato in modo difforme dal giudice di prime cure, nè in caso di contrasto – pur denunciabile sotto altri profili – tra le affermazioni della stessa sentenza ed il contenuto di altre prove e documenti.

Quanto all’art. 115 c.p.c., come già affermato da questa Corte, l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, non può ravvisarsi laddove la statuizione di esistenza o meno della circostanza controversa presupponga, come nella specie, un giudizio di attendibilità, sufficienza e congruenza delle testimonianze, che si colloca interamente nell’ambito della valutazione delle prove, estranea al giudizio di legittimità (Cass., n. 25166 del 2019).

Ciò, considerando che in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento. E’ pertanto insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto, come nella fattispecie in esame in ragione dell’articolato e consequenziale svolgimento logico delle argomentazioni della sentenza, a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (Cass., n. 21187 del 2019).

Costituisce, dunque, principio consolidato che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.

Con riguardo agli artt. 115 e 116 c.p.c., la giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, precisato (Cass., n. 1229 del 2019) che una censura relativa alla violazione e falsa applicazione delle suddette norme, non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali (ma nella specie valga quanto si è osservato nella trattazione del primo motivo di ricorso), o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione, doglianze non dedotte in modo specifico con riguardo ai relativi criteri legali in materia di prova dal lavoratore.

6.5. Delimitato nei termini anzidetti il campo in cui può esercitarsi legittimamente l’ufficio della Corte, le doglianze che la parte solleva relativamente alla sentenza impugnata, si sostanziano nel richiedere al giudice di legittimità la rinnovazione di un giudizio di fatto, intendendo per vero sottoporre le risultanze processuali emerse nel corso del giudizio di merito ad una nuova valutazione, in modo da sostituire alla valutazione sfavorevole già effettuata dai primi giudici una più consona alle proprie concrete aspirazioni.

6.6. Invero, laddove la parte lamenta la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, e dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si censura la valutazione delle risultanze probatorie operata nella sentenza, che sotto questa angolazione si rivela immune da rilievi laddove la Corte d’Appello ha ritenuto, nell’esercizio della potestà di apprezzamento delle prove che gli compete in via esclusiva, che non sussistessero condotte riconducibili al mobbing. Sicchè chiedere ora, con i vizi allegati la rivalutazione degli elementi probatori già infruttuosamente sottoposti al giudizio dei primi giudici equivale a postulare una rinnovazione del giudizio afferente ad un accertamento di fatto che risulta congruamente motivato e che non è perciò è suscettibile di rimeditazione nei limiti del controllo istituzionale che può aver luogo in questa sede.

Nel trattare in via prioritaria l’appello incidentale, la Corte d’Appello, dopo la rilettura degli atti, ha affermato che il conflitto era tracimato dal piano sindacale a quello personale (pag. 8 della sentenza di appello).

La Corte d’Appello ha ripercorso le vicende che determinavano il giudizio esaminando specificamente i singoli episodi/comportamenti (punti 2.1.-2.7. delle ragioni della decisione della sentenza di appello), rapportandoli alle risultanze istruttorie, e confrontandosi con le statuizioni della sentenza di primo grado.

Alla luce di tale analitico vaglio delle vicende e degli atti di causa, la Corte d’Appello ha escluso l’illiceità dei fatti esaminati, o che l’appellante fosse stato oggetto di iniziative tese alla sua dequalificazione o mortificazione professionale, tanto più che, in diversi settori, il lavoratore, aveva espletato mansioni aderenti alla qualifica e poi all’area di appartenenza, e ciò perfino in occasione del mai attuato trasferimento di ufficio.

Tuttavia, poichè poteva sussistere mobbing anche in presenza di comportamenti leciti, la Corte d’Appello ha riconsiderato i singoli episodi alla luce del contesto in cui erano maturati – originato non solo da conflittualità sindacali ma anche dallo scontro di due personalità forti (pagg. 18 e 20 della sentenza di appello) – anche avvalendosi delle risultanze della CTU, ed ha escluso, con articolata motivazione che illustra i complessi rapporti sindacali e professionali relativi all’ufficio di appartenenza del lavoratore, la sussistenza di una strategia persecutoria nei confronti del medesimo, essendo invece provato afferma la Corte d’Appello, che in sede sindacale o personale ad attaccare era sempre questi. Neppure era sussistente una mortificazione della sua immagine nella dimensione associativa in quanto ciò trovava smentita nelle reazioni giudiziarie nell’ambito delle quali ricevette sempre il sostegno della sigla sindacale di appartenenza, rimasta al suo fiano anche durante le ispezioni che avevano riguardato l’Ufficio.

La decisione della Corte d’Appello si fonda su un giudizio valutativo immune da vizi logici e adeguato a sorreggere la decisione, dovendo altresì osservarsi che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

Deve inoltre osservarsi, quanto alle censure vertenti sull’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come mod., che i dedotti vizi di motivazione non corrispondono al modello enucleabile dalla giurisprudenza di legittimità di cui alle sentenze Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014, secondo cui il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, e quanto al prospettato messo omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia, si osserva che lo stesso tende in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., S.U., n. 34476 del 2019).

7. Con il quinto motivo di ricorso è dedotto il vizio di violazione di legge; violazione dell’art. 2087 c.c. e del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13; omessa, insufficiente contraddittoria motivazione della sentenza in ordine alla quantificazione del danno biologico subito; omessa valutazione del danno esistenziale; errata quantificazione del risarcimento del danno; violazione dell’art. 1226 c.c. e arbitrarietà della liquidazione effettuata; violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.

Il ricorrente si duole del parziale accoglimento della domanda da parte del giudice di primo grado, con riguardo alla statuizione sul risarcimento del danno, in particolare quanto alla personalizzazione effettuata con criteri non condivisibili.

8. In ragione della dichiarazione di inammissibilità dei primi quattro motivi di ricorso e della conseguente conferma della sentenza di appello, che nel riformare la sentenza del Tribunale ha escluso la sussistenza del mobbing a cui si connetteva la condanna al risarcimento del danno disposto dal Tribunale, anche il quinto motivo deve essere dichiarato inammissibile per difetto di rilevanza.

9. La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Sono assorbite le eccezioni di inammissibilità proposte dal Ministero in via preliminare.

10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

11. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 26 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2021

 

 

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