Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3823 del 17/02/2010

Cassazione civile sez. I, 17/02/2010, (ud. 04/12/2009, dep. 17/02/2010), n.3823

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Rapanelli Fioravanti s.p.a. in persona del legale rappresentante,

elettivamente domiciliata in Roma, via Cola di Rienzo 180, presso gli

avv. RAMPINI Mario e Francesca Colombo, che la rappresentano e

difendono giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

Società Tunisienne des Huileries Modernes s.r.l. in persona del

legale rappresentante, elettivamente domiciliata in Roma, Via

Condotti 61/a, presso l’avv. FORNARO Giuseppe, che la rappresenta e

difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Perugia n. 4/07 del

2.1.2007.

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

4.12.2009 dal Relatore Cons. Dott. Carlo Piccininni;

Uditi gli avv. Colombo per Rapanelli e Fornaro per il

controricorrente;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 22.4.2004 la Società Tunisienne des Huileries Modernes conveniva in giudizio davanti alla Corte di Appello di Perugia la Rapanelli Fioravanti s.p.a., chiedendo che venisse dichiarata l’efficacia nello Stato italiano della sentenza emessa dalla Pretura di Tunisi in data 19.4.1993, come riformata dalla sentenza del 31.5.2004 della Corte di Appello di Tunisi, poi confermata dalla Corte di Cassazione il 28.6.1995.

In proposito rilevava che con le dette decisioni era stato definito il giudizio promosso nei confronti della società Rapanelli Fioravanti, per la risoluzione del contratto di compravendita di un impianto oleario fornito da quest’ultima nel luglio 1991 e montato dalla concessionaria Etablissements Louis Monteney, per gravi vizi del medesimo.

La Rapanelli Fioravanti, costituitasi, chiedeva il rigetto della domanda rilevando: a ) la carenza di giurisdizione del giudice tunisino ai sensi dell’art. 4 punto 7 della Convenzione Tuniso- italiana del 15.11.1967 ratificata con L. 28 gennaio 1971, n. 267, perchè la controversia aveva ad oggetto le obbligazioni derivanti dal contratto di compravendita stipulato in (OMISSIS), e la giurisdizione in favore di quest’ultima non sarebbe stata derogabile, per effetto dell’art. 2 c.p.c., all’epoca vigente; b) la violazione dei diritti di difesa e del contraddittorio per la mancata partecipazione alle consulenze espletate per verificare il funzionamento dell’impianto, quanto alla prima, per l’avvenuta ricezione dell’avviso di convocazione dopo l’inizio delle operazioni (sarebbero stati presenti tali ” L. e C.”, privi però di poteri rappresentativi della società), quanto alla seconda, per la trasmissione della convocazione durante le ferie estive, periodo fra l’altro di sospensione dei termini processuali. Inoltre tale secondo accertamento sarebbe inadeguato ed inattendibile, poichè effettuato soltanto con un raffronto con altra precedente perizia svolta su diverso macchinario, a causa della mancanza di olive; c) la mancata restituzione del frantoio, venduto ad altri, e la richiesta di corresponsione di 198.899,510 dinari, non dovuti in base alla sentenza di cui era stato chiesto il riconoscimento.

La Corte di Appello di Perugia dichiarava l’efficacia della sentenza emessa dal giudice tunisino, osservando che la giurisdizione apparteneva a quest’ultimo per le seguenti considerazioni: a) l’art. 4 della citata convenzione riconosce la giurisdizione dello Stato in cui si trovano i beni oggetto di controversia, nella specie siti in (OMISSIS)); b) il punto 7 dello stesso articolo indica come competente il giudice del luogo in cui è sorta o deve essere eseguita l’obbligazione, e cioè nella specie quello tunisino essendo stato installato in (OMISSIS) l’impianto in questione; c) non sarebbe stato a ciò ostativo il disposto dell’art. 2 c.p.c., che stabiliva l’inderogabilità convenzionale della giurisdizione italiana, trattandosi nella specie di convenzioni stipulate tra soggetti privati e non fra Stati; d) la decisione del giudice tunisino non avrebbe presentato profili di contrarietà all’ordine pubblico (individuati nelle indicate violazioni asseritamente poste in essere nell’espletamento delle consulenze tecniche), atteso che si sarebbe trattato di vizi del procedimento, e non del contenuto dispositivo della decisione, e considerato inoltre che comunque i vizi prospettati si sarebbero riferiti al giudizio di primo grado e sarebbero stati pertanto assorbiti dalle decisioni successive.

Avverso la decisione la Rapanelli Fioravante proponeva ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui resisteva l’intimata con controricorso, con il quale deduceva pregiudizialmente l’improcedibilità del ricorso.

Entrambe le parti depositavano infine memoria.

La controversia veniva quindi decisa all’esito dell’udienza pubblica del 4.12.2009.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con i motivi di impugnazione la ricorrente, che ha pregiudizialmente eccepito un difetto di procura speciale alle liti in favore dell’avv. Fornaro (sotto il profilo che la procura rilasciatagli sarebbe stata soltanto “ad negotia”), ha rispettivamente denunciato:

1) violazione dell’art. 3 lett. b) e d) della Convenzione tra Italia e Tunisia del 15.11.1967 e della L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. b, nonchè vizio di motivazione, in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di coordinare la disciplina convenzionale con quella normativa, che in particolare imporrebbe il rispetto del principio dell’ordine pubblico processuale e segnatamente, quindi, l’accertamento della mancata violazione dei diritti della difesa.

Sotto questo aspetto sarebbe pertanto errata l’affermazione della Corte di appello secondo cui l’art. 3, lett. b) della Convenzione si riferirebbe soltanto alla regolare citazione in giudizio del convenuto, mentre la lett. d) del medesimo articolo riguarderebbe unicamente l’ordine pubblico sostanziale (vale a dire solo il dispositivo della sentenza), con la non condivisibile conseguenza che non sarebbe stato necessario valutare il rispetto dei diritti fondamentali del contraddittorio e della difesa nel corso dell’intero giudizio.

Per di più, pur a fronte delle precise e specifiche indicazioni in tal senso, la Corte avrebbe da una parte omesso di motivare sul punto e, dall’altra, si sarebbe espressa in termini di contraddittorietà laddove, dopo aver rilevato il rispetto della Convenzione in ragione della regolarità della citazione e della successiva costituzione in giudizio della parte, aveva poi evidenziato l’inesistenza di un contrasto del codice di procedura civile tunisino con l’ordine pubblico processuale italiano.

2) violazione delle medesime disposizioni della Convenzione con riferimento alla L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. b e art. 2, art. 24 Cost. e vizio di motivazione, per il fatto che la Corte di appello non avrebbe verificato la sussistenza del requisito della conformità della sentenza straniera ai principi di ordine pubblico processuale sanciti dall’ordinamento italiano, verifica che viceversa avrebbe dovuto essere effettuata in concreto e a posteriori sull’intero processo, e non già in astratto e limitatamente al dispositivo della sentenza.

3) violazione degli artt. 7 e 3 lett. b) e d) della Convenzione Tuniso-Italiana citata, L. n. 218 del 1995, art. 67, art. 64, lett. b e/o g), art. 1, atteso che le due perizie espletate erano state svolte nell’assenza di essa ricorrente (la prima per tardiva comunicazione della convocazione e con la presenza alle operazioni di soggetti estranei alla società, la seconda per l’avvenuta fissazione dell’inizio delle operazioni nel periodo feriale), la seconda era stata eseguita con una simulazione su un impianto ritenuto simile; la verifica in ordine ai requisiti di riconoscibilità della sentenza sarebbe stata effettuabile di ufficio e quindi indipendentemente dalle prospettazioni delle parti; le censure sollevate da essa ricorrente sarebbero state male interpretate poichè, contrariamente a quanto ritenuto, avrebbero avuto ad oggetto anche la decisione di primo e secondo grado del giudice tunisino.

4) violazione degli artt. 3 b) e d) della Convenzione Tuniso – Italiana 15.11.67, L. n. 218 del 1955, art. 64, lett. b) e g), art. 24 Cost., e vizio di motivazione, poichè il abnormità con cui sarebbero state eseguite le operazioni peritali le renderebbero inesistenti, sicchè la sentenza in questione sarebbe stata emessa nella totale assenza di prove.

5) violazione delle medesime disposizioni e vizio di motivazione, in relazione al mancato accoglimento della richiesta di traduzione delle sentenze del giudice tunisino nel contraddittorio delle parti, istanza che viceversa avrebbe dovuto essere accolta essendovi incertezza in ordine alla esatta determinazione della somma oggetto della condanna.

Devono essere dapprima esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso, di nullità della sentenza per difetto di rappresentanza processuale di colui che ha agito per la società tunisina e di inammissibilità del controricorso, eccezioni tutte che risultano infondate.

Ed infatti, per quanto riguarda la prima, la relativa deduzione è stata prospettata in ragione del fatto che il ricorso per cassazione, notificato alla controparte due volte e cioè una prima in data 5.4.2007 ed una seconda (asseritamente per un temuto vizio di notifica di quella precedente) in data 13.4.2007, era stato poi depositato il 26.4.2007, e quindi tardivamente rispetto alla prima notifica.

Il principio di consumazione dell’impugnazione avrebbe quindi precluso al ricorrente la possibilità di proporre un nuovo ricorso, mentre il mancato deposito del primo nei termini indicati dall’art. 369 c.p.c., avrebbe reso quest’ultimo improcedibile.

Tuttavia osserva il Collegio che la semplice notifica di un primo ricorso non comporta automaticamente di per sè la consumazione del potere di impugnazione, essendo necessaria a tal fine la declaratoria di improcedibilità o inammissibilità ai sensi dell’art. 387 c.p.c. (C. 09/5053, C. 06/26319, C. 06/15873, C. 06/835, C. 05/20912), ipotesi viceversa nella specie non verificatasi.

Non è poi ravvisabile il denunciato vizio di nullità della sentenza, poichè la formulazione letterale della procura speciale rilasciata in favore dell’avv. Giuseppe Pornaro (“Il mandatario viene fra l’altro autorizzato a introdurre ogni azione, presentare e sostenere ogni motivo, presentare ogni richiesta od istanza … fare ogni ricorso, prendere ogni provvedimento conservativo … “) depone univocamente nel senso dell’avvenuto conferimento di procura alle liti all’avv. Fornaro, e quindi di poteri rappresentativi in suo favore anche per quel che attiene agli aspetti processuali.

E’ infine insussistente il preteso vizio della procura alle liti allegata al controricorso, denunciato sotto il profilo della non coincidenza tra il luogo e la data di sottoscrizione del legale della società ((OMISSIS)) e quelli dell’autentica del difensore ((OMISSIS)), essendo perfettamente compatibile, in via astratta, la seconda formalità (intervenuta tre giorni dopo) con la prima.

Passando quindi al merito dell’impugnazione il Collegio ritiene che debba essere confermata la sentenza della Corte di appello di Perugia, pur dovendosi procedere a correzione della motivazione adottata.

Prendendo dunque in considerazione i primi quattro motivi di impugnazione, che devono essere esaminati congiuntamente perchè fra loro connessi, si rileva preliminarmente che la statuizione della Corte di appello contiene tre affermazioni che non possono essere condivise.

Innanzitutto va chiarito che nella specie il richiamo alla L. n. 918 del 1995 (e segnatamente all’art. 64) non è stato effettuato a proposito, essendo nella specie applicabile la Convenzione Tuniso – Italiana del 15.11.1967, ratificata con L. 28 gennaio 1971, n. 267, trattandosi di legge speciale che, in quanto tale, non può essere derogata da legge ordinaria successiva.

Inoltre è errato il giudizio secondo il quale, ai fini del riconoscimento della sentenza straniera, non sarebbe necessario riesaminare tutti i passaggi dell’intero procedimento coperti dal giudicato straniero (salva la regolarità della citazione, perchè prevista dalla citata Convenzione), essendo a ciò ostativo (secondo la Corte di appello) la valutazione positiva in ordine all’astratta idoneità del sistema giudiziario straniero ad assicurare i diritti della difesa.

Tale valutazione infatti non vale ad escludere che nel concreto, al di là della incontestata astratta idoneità del sistema processuale vigente nello Stato straniero a garantire il rispetto dei fondamentali diritti della difesa, vi sia stata una non consentita compressione di detti diritti.

Infine ugualmente errata è la manifestata opinione per la quale la contrarietà o meno all’ordine pubblico andrebbe considerata esclusivamente con riferimento al contenuto dispositivo della sentenza, piuttosto che al procedimento che l’ha preceduta.

In proposito va invero osservato che, come questa Corte ha più volte avuto modo di precisare, in tema di riconoscimento di sentenze straniere il giudice deve verificare se, oltre al rispetto delle disposizioni specificamente previste (nella specie quelle indicata nella sopra richiamata Convenzione Italo-Tunisina), siano stati soddisfatti i principi fondamentali dell’ordinamento, in modo tale, cioè, da non ledere i diritti essenziali della difesa (C. 08/13425, C. 06/16978, C. 05/20464, C. 04/13662, C. 03/365, C. 00/3365, C. 99/13928).

Tuttavìa ritiene il Collegio che, benchè l’efficacia della sentenza tunisina nel nostro ordinamento sia stata dichiarata sulla base di parametri non correttamente individuati, il giudizio conclusivo emesso dalla Corte di appello debba essere confermato. Ed infatti i principi fondamentali dell’ordinamento non attinenti al contenuto della decisione, ma al suo procedimento formativo, sono quelli posti a garanzia del diritto di agire e resistere nel processo e del rispetto del contraddittorio, sicchè il giudizio in ordine alla loro osservanza ovvero alla loro violazione va formulato in termini restrittivi, vale a dire non già arrestandosi alla verifica sulle modalità con cui tali diritti hanno trovato attuazione nell’ambito delle diverse scansioni in cui si articola il processo (nella specie, la partecipazione alle operazioni peritali), ma con riferimento al processo nel suo complesso, e più precisamente in relazione al rapporto tra l’eventuale singola violazione attinente alle modalità di partecipazione al giudizio e l’incidenza della detta violazione sul diritto della parte ad esercitare il diritto di difesa nel rispetto del contraddittorio, nell’ambito dell’intero processo.

In altri termini non è ravvisabile violazione del principio inviolabile del diritto di difesa ogni volta in cui sia stata riscontrata l’inosservanza di disposizione processuale posta a tutela della partecipazione al giudizio della parte, ma soltanto nei casi in cui la detta inosservanza, per la sua rilevante incidenza, abbia determinato una lesione del diritto di difesa rispetto all’intero processo, in quanto tale preclusiva di una declaratoria di efficacia nel nostro ordinamento.

Orbene, ciò premesso, è da escludere che nella specie sia riscontrabile una lesione del diritto di difesa nei termini sopra indicati.

Ed infatti la Rapanelli Fioravante ha denunciato l’illegittimità delle due consulenze tecniche espletate, che avrebbero costituito i soli elementi dai quali il giudice aveva tratto il convincimento della fondatezza della domanda, sotto il duplice profilo del vizio di convocazione e delle modalità di espletamento, in particolare, quanto al primo punto, il vizio sarebbe consistito, per la prima consulenza, nell’avvenuta ricezione dell’avviso di convocazione (inviato solo sei giorni prima dell’inizio delle operazioni peritali) in data successiva al relativo espletamento e, per la seconda, nella trasmissione dell’avviso di convocazione durante il periodo di ferie estive, quando fra l’altro le operazioni non avrebbero potuto essere svolte, essendo in corso il periodo di sospensione feriale dei termini processuali; quanto al secondo, il vizio sarebbe consistito nel fatto che la mancanza di olive nel periodo non avrebbe consentito di verificare il funzionamento del frantoio, sicchè l’esame era stato condotto sul raffronto con altra perizia svolta in precedenza su altro macchinario sito in altro luogo.

Tuttavia con riferimento a tali doglianze si osserva che il giudice tunisino ha accertato la presenza di due rappresentanti della società all’atto dell’inizio delle operazioni della prima perizia, che la chiusura della sede durante il periodo estivo e l’impossibilità di ricevere comunicazioni in tale arco temporale costituiscono fatti addebitabili alla parte e non certo riferibili a vizi posti in essere dall’autorità giudiziaria straniera nell’ambito del procedimento) che la circostanza relativa alle anomale modalità di svolgimento della seconda consulenza non rappresenta di per se un dato univocamente concludente, non essendo stato specificatamente indicato quale fosse stato l’oggetto ed i termini dell’indagine svolta, in quale misura e sotto quale aspetto la valutazione comparativa effettuata con i macchinari per cui era sorta controversia sarebbe stata inattendibile, quale sarebbe stato viceversa l’esito – e per quale ragione – ove la consulenza si fosse svolta regolarmente.

Peraltro, pur indipendentemente da quanto ora esposto, le denunciate violazioni sopra indicate non consentono di ritenere che alla Rapanelli Fioravante sia stato in concreto precluso l’esercizio del diritto di difesa nell’ambito dell’intero processo, atteso che la società avrebbe comunque potuto adottare ulteriori iniziative in attuazione del detto diritto, quali la partecipazione ai lavori del consulente pur dopo l’inizio delle operazioni, la richiesta di ammissione di nuova consulenza tecnica e di prove testimoniali, il deposito di consulenze di parte e di note scritte a sostegno della pretesa erroneità di quelle di ufficio, oltre che di ulteriore documentazione rilevante in proposito.

Inoltre, ed il rilievo non è secondario, la ricorrente non ha neppure chiarito come abbia esercitato (e quindi correlativamente da cosa sia derivata la conseguente illegittima compressione) il proprio diritto di difesa negli ulteriori gradi di giudizio, rispetto ai quali non ha indicato se ed in quali termini abbia formalizzato richieste finalizzate a dimostrare la fondatezza della propria prospettazione, quale ne sia stato l’esito e quale infine l’eventuale ulteriore contestazione sul punto.

Tutte le considerazioni sinora esposte, dunque, inducono a concludere nel senso che è insussistente la denunciata violazione dell’ordine pubblico processuale. Resta infine l’ultimo motivo di impugnazione, in relazione al quale è sufficiente rilevare che la dedotta – ma negata dalla Corte di appello incomprensibilità del dispositivo non costituisce un dato ostativo alla declaratoria di efficacia della sentenza straniera, non essendo neppure astrattamente configurabile in siffatta ipotesi una contrarietà della pronuncia all’ordine pubblico processuale.

Si tratta al contrario di questione attinente all’esecuzione della sentenza, la cui eventuale risoluzione andrà rimessa al giudice competente al riguardo.

Il ricorso deve dunque essere rigettato, previa correzione della motivazione della sentenza impugnata nel senso sopra indicato, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2010

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