Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 38197 del 03/12/2021

Cassazione civile sez. I, 03/12/2021, (ud. 20/10/2021, dep. 03/12/2021), n.38197

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 16161/2016 proposto da:

ADM Soft s.r.l., nella persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata ed assistita dall’Avv. Angelo Fiumara, e presso il suo

studio elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Re di Roma, n. 21,

giusta procura speciale a margine del ricorso per cassazione.

– ricorrente –

contro

Comune di San Cesareo, nella persona del Sindaco pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avv. Luca Ferretti, come da procura in

calce alla memoria difensiva.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di ROMA, n. 7077/2015,

pubblicata il 21 dicembre 2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/10/2021 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. Con sentenza del 21 dicembre 2015, la Corte di appello di Roma ha rigettato l’appello principale proposto dal Comune di San Cesareo e l’appello incidentale della società ADM Soft s.r.l. avverso la sentenza del Tribunale di Tivoli, sezione distaccata di Palestrina, n. 321/10 del 23 agosto 2010, che aveva condannato il Comune di San Cesareo al pagamento della somma di 6.018,34, oltre interessi moratori ex D.Lgs. n. 231 del 2002, a titolo di adempimento dei canoni dei mesi di gennaio e febbraio 2008, relativi al contratto di gestione del servizio informatico, indetto con Det. 21 luglio 2004, n. 225 e aggiudicato, con durata sino al 31 dicembre 2008, per il prezzo complessivo di Euro 128.700,00, oltre I.V.A..

2. La Corte adita ha ritenuto infondato l’appello principale proposto dal Comune di San Cesareo, evidenziando che la società ADM Soft aveva prodotto il contratto di appalto per la gestione del sistema informatico del Comune e aveva allegato l’inadempimento, mentre la documentazione prodotta in grado di appello dal Comune, rimasto contumace in primo grado, diretta a comprovare l’avvenuto pagamento del canone pattuito per il mese di dicembre 2008, doveva ritenersi inammissibile, ex art. 345 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, né ricorreva il requisito della indispensabilità della prova dedotta.

3. I giudici di merito hanno ritenuto infondato anche l’appello incidentale, dopo avere precisato che la società aveva chiesto dichiararsi la risoluzione del contratto per inadempimento del Comune nel pagamento dei canoni scaduti, da corrispondersi con mensilità anticipate, relativi ai mesi di gennaio 3 febbraio 2009, pari ad Euro 3009,17 mensili, e condannarsi il Comune al risarcimento dei danni e che la società, nella prima memoria ex art. 183 c.p.c., aveva modificato la domanda chiedendo che venisse dichiarata la risoluzione, con condanna del Comune al pagamento dei canoni scaduti sino alla data della memoria, canoni da quantificarsi nella maggiore somma di Euro 4.284,37 (derivante da variazioni nel corso del tempo a seguito di forniture extra contratto) e così la somma complessiva di Euro 51.412,44, oltre il risarcimento del danno emergente o lucro cessante pari ad Euro 50.000,00 o alla diversa somma ritenuta di giustizia.

4. La Corte ha affermato che la domanda di riconoscimento del maggior canone mensile di Euro 4.284,37 era inammissibile perché domanda nuova e, comunque, infondata per la mancanza di prova scritta delle variazioni invocate; la domanda di pagamento dei canoni scaduti successivamente alla domanda era inammissibile, per violazione dell’art. 1453 c.p.c., comma 2, in quanto non poteva essere chiesto l’adempimento una volta domandata la risoluzione e che analogo rilievo non valeva per i canoni scaduti prima della domanda di risoluzione; che la domanda di risarcimento era infondata, essendo generiche le allegazioni della società sulla rinuncia ad altre commesse o sugli investimenti in persone e mezzi, determinati dal contratto con il Comune; che in relazione al danno per il mancato guadagno dei canoni sino alla scadenza naturale del contratto, la società non aveva nemmeno allegato il mancato guadagno, ovvero la differenza tra l’ammontare dei canoni e i costi di imprese.

5. La società Adm Soft s.r.l. ricorre in Cassazione con atto affidato a cinque motivi.

6. Il Comune di San Cesareo ha depositato memoria difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo si lamenta la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112,99 e 183 c.p.c. e dell’art. 1453 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, avendo errato la Corte di appello a ritenere che la domanda per il pagamento dei canoni scaduti successivi alla domanda era inammissibile, siccome confliggente con la regola posta dall’art. 1453 c.c., a parte ogni profilo di novità, poiché detta domanda non era affatto nuova in quanto la stessa era stata già introdotta nell’atto di citazione ed era stata specificata e precisata nella memoria ex art. 183 c.p.c.; la domanda non era nemmeno inammissibile perché domanda di pagamento dei canoni successiva alla domanda di risoluzione, in ragione della natura del contratto atipico di outsourcing, in cui il pagamento dei canoni comprendeva, oltre al costo del servizio di prestazione e manutenzione, anche il corrispettivo per le forniture e il godimento delle macchine e beni hardware e software che erano rimasti nel possesso del Comune e detenuti dallo stesso.

1.1 Il motivo è inammissibile.

1.2 La Corte ha affermato che la domanda di riconoscimento del maggior canone mensile di Euro 4.284,37, era inammissibile perché domanda nuova e, comunque, infondata per la mancanza di prova scritta delle variazioni invocate.

Poiché questa affermazione che, integra un’autonoma ratio decidendi ed è idonea a sorreggere di per sé sola la decisione sul punto, non è stata fatta oggetto di alcuna contestazione, ne deriva, come questa Corte ha più volte osservato, che la ricorrente non ha interesse a dolersi del profilo qui impugnato, poiché, quand’anche se ne riscontrasse la fondatezza, l’impugnata decisione si suffragherebbe pur sempre in base all’affermazione non censurata.

1.3 E’ utile ricordare che questa Corte ha statuito che nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una decisione che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione del provvedimento, per tutte le ragioni che autonomamente lo sorreggano (Cass., 12 ottobre 2007, n. 21431).

E’ dunque sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, che pur essendo stata impugnata, sia stata rigettata, perché il ricorso debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base del provvedimento impugnato” (Cass., Sez. U., 8 agosto 2005, n. 16602).

1.4 Peraltro, contrariamente a quanto affermato dalla società ricorrente, sussiste il difetto di autosufficienza del motivo di ricorso, non essendo stata trascritta l’intera domanda giudiziale, ma soltanto una parte della stessa e peraltro nemmeno le conclusioni, onere che andava correttamente adempiuto, alla luce di quanto affermato dai giudici di secondo grado che hanno evidenziato che la società nell’originaria domanda aveva chiesto dichiararsi la risoluzione del contratto per inadempimento del Comune nel pagamento dei canoni scaduti da corrispondersi con mensilità anticipate, relativi ai mesi di gennaio e febbraio 2008, pari ad Euro 3009,17 mensili, oltre il risarcimento dei danni.

In ogni caso, dalla parte trascritta nel ricorso per cassazione non si evince affatto l’introduzione della domanda di pagamento dei canoni successivi all’atto di citazione notificato in data 11 febbraio 2008, in quanto l’allegazione del mancato pagamento dei canoni a scadere sino al 31 dicembre 2008 e’, all’evidenza, correlato alla domanda di risarcimento dei danni, per un ammontare di Euro 100.000,00, unitamente all’inutilizzabilità delle attrezzature fornite all’Ente e non restituite.

1.5 Ciò che fa ritenere inammissibile per carenza di interesse l’ulteriore profilo di censura riguardante la violazione dell’art. 1453 c.c., comma 2, perché quand’anche se ne riscontrasse la fondatezza, l’impugnata decisione si suffragherebbe pur sempre in base alla corretta affermazione della novità della domanda di pagamento dei canoni scaduti successivamente alla domanda giudiziale.

1.6 Ne’ si comprende il perché dalla circostanza che nel contratto di outsourcing il pagamento dei canoni comprendesse, oltre al costo del servizio di prestazione e manutenzione, anche il corrispettivo per le forniture e il godimento delle macchine e beni hardware e software rimasti nel possesso del Comune e detenuti dallo stesso, dovrebbe derivare l’ammissibilità della domanda di pagamento dei canoni a scadere sino al 31 dicembre 2008, attesa la diversità della domanda di pagamento dei canoni maturati dopo l’introduzione della domanda e della domanda di risarcimento dei danni, da individuarsi nella corresponsione dei canoni successivi alla domanda giudiziale e fino alla scadenza del contratto e/o alla restituzione delle macchine e dei beni hardware e software.

2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione degli artt. 1223,1226,1453,1591,2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, avendo errato la Corte di appello a ritenere che, venendo in rilievo il lucro cessante, la società ADM non si sarebbe dovuta limitare ad allegare, a titolo di danni, la mancata percezione dei canoni.

3. Con il terzo motivo si lamenta la nullità della sentenza per violazione degli artt. 342 e 343 c.p.c., dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 1226 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, avendo errato la Corte di appello a ritenere il motivo di impugnazione riguardante il “danno da mancato guadagno” carente di specificità.

4. Con il quarto motivo si lamenta la violazione degli artt. 1223,1226,2727 e 2729 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 2697 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non avendo la Corte tenuto conto della richiesta di liquidazione equitativa e avendo omesso di considerare che il mancato guadagno poteva essere determinato, ex artt. 2727 e 2729 c.c., in misura pari alla forbice del 15 – 30% del corrispettivo in essere ancora dovuto e, pertanto, ad almeno Euro 15.000,00.

4.1 I motivi, che vanno trattati unitariamente perché riguardano tutti la domanda di risarcimento dei danni per il mancato guadagno dei canoni sino alla scadenza naturale del contratto, sono inammissibili.

4.2 Con specifico riferimento al secondo e al quarto motivo, va ricordato che secondo il costante indirizzo di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Suprema Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass., 26 giugno 2013, n. 16038).

Le richiamate modalità di deduzione del vizio non sono state rispettate, nel caso di specie, poiché la società ricorrente, ribadendo le medesime censure sollevate dinanzi alla Corte territoriale, si limita a sovrapporre alle argomentazioni della Corte le proprie senza prospettare differenti profili argomentativi e svolgendo contestazioni riguardo alla stessa senza la specificazione dei vizi e delle numerose norme richiamate che ha assunto essere state violate o erroneamente applicate.

4.3 I motivi dedotti, inoltre, trascurano del tutto di censurare il percorso argomentativo della Corte di merito, laddove ha affermato con una autonoma ragione del decidere, quanto al profilo relativo alla mancata percezione dei canoni sino alla scadenza naturale del contratto, che vi era stato un difetto nell’onere di allegazione, dato che la società avrebbe dovuto allegare non solo la mancata percezione dei canoni, ma pure il mancato guadagno, ovvero la differenza tra l’ammontare dei canoni percepiti e i costi di impresa.

4.4 Ciò anche alla luce del principio statuito da questa Corte che l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno da lucro cessante o da perdita di “chance” esige la prova, anche presuntiva, (e, dunque, prima ancora l’allegazione) dell’esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (Cass., 11 maggio 2010, n. 11353).

4.5 Anche “l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa; esso, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che per la parte interessata risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo ammontare, e dall’altro non ricomprende l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno (Cass., 22 febbraio 2018, n. 4310; Cass., 30 luglio 2020, n. 16344).

4.6 In sede di legittimità e’, poi, possibile censurare la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., solo allorché ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso (Cass., 13 febbraio 2020, n. 3541), evenienza che, nel caso in esame, non è stata dedotta dalla società ricorrente.

4.7 La Corte ha, quindi, operato una valutazione che non è censurabile quale violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

E’ sufficiente, al riguardo, rammentare che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge ed implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass., 28 settembre 2017, n. 22707). 4.8 Ne’ sussiste la violazione dell’art. 2697 c.c., che si configura quando il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di ripartizione basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass., 23 ottobre 2018, n. 26769).

In definitiva le censure sopra descritte sono volte, in realtà, a sollecitare un inammissibile riesame in questa sede dell’apprezzamento del giudice di merito in ordine alla valenza probatoria degli elementi fattuali presi in esame.

5. Con il quinto motivo si lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa e apparente motivazione e per contraddittorietà e illogicità manifesta della motivazione, non avendo considerato la natura e atipicità del contratto di outsourcing ai fini del risarcimento del danno rappresentato anche dai canoni a scadere, quantomeno fino alla restituzione dei beni rimasti in possesso del Comune e della mancata liquidazione equitativa e in via presuntiva dello stesso.

5.1 La denuncia del preteso vizio di motivazione della sentenza impugnata deve ritenersi irritualmente dedotto.

Ed invero, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, il difetto del requisito della motivazione si configura, alternativamente, nel caso in cui la stessa manchi integralmente come parte del documento/sentenza (nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere, siccome risultante dallo svolgimento processuale, segua l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione), ovvero nei casi in cui la motivazione, pur formalmente comparendo come parte del documento, risulti articolata in termini talmente contraddittori o incongrui da non consentire in nessun modo di individuarla, ossia di riconoscerla alla stregua della corrispondente giustificazione del decisum.

Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, infatti, la mancanza di motivazione, quale causa di nullità della sentenza, va apprezzata, tanto nei casi di sua radicale carenza, quanto nelle evenienze in cui la stessa si dipani in forme del tutto inidonee a rivelare la ratio decidendi posta a fondamento dell’atto, poiché intessuta di argomentazioni fra loro logicamente inconciliabili, perplesse od obiettivamente incomprensibili. In ogni caso, si richiede che tali vizi emergano dal testo del provvedimento, restando esclusa la rilevanza di un’eventuale verifica condotta sulla sufficienza della motivazione medesima rispetto ai contenuti delle risultanze probatorie (Cass., 18 settembre 2009, n. 20112).

5.2 Nel caso in esame, la motivazione dettata dalla Corte territoriale a fondamento della decisione impugnata e’, non solo esistente, bensì anche articolata in modo tale da permettere di ricostruirne e comprenderne agevolmente il percorso logico (secondo quanto in precedenza diffusamente rilevato), integrando gli estremi di un discorso giustificativo logicamente lineare e comprensibile, elaborato nel pieno rispetto dei canoni di correttezza giuridica e di congruità logica, come tale del tutto idoneo a sottrarsi alle censure in questa sede illustrate dai ricorrenti, avendo i giudici di merito affermato che la domanda di risarcimento dei danni era infondata per la genericità dei profili dedotti dalla società sulla rinuncia ad altre commesse o sugli investimenti in persone e mezzi, determinati dal contratto con il Comune, mentre con riferimento al danno per il mancato guadagno dei canoni sino alla scadenza naturale del contratto, la società non aveva nemmeno allegato il mancato guadagno, ovvero la differenza tra l’ammontare dei canoni e i costi di imprese.

6. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dal Comune controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore del Comune controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2021

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