Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3819 del 16/02/2018


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Cassazione civile, sez. trib., 16/02/2018, (ud. 29/11/2017, dep.16/02/2018),  n. 3819

Fatto

FATTI DI CAUSA

In relazione all’anno d’imposta 2003 l’Agenzia delle Entrate recuperò nei confronti della s.r.l. Immobiliare TRE maggiore materia imponibile ai fini dell’Iva e dell’Irpeg, scaturente dal recupero a tassazione del componente negativo di reddito rappresentato dagli interessi pagati su una somma ritenuta contabilizzata in violazione del principio d’inerenza, degli interessi passivi che ritenne corrisposti ai soci, che non avevano scontato la prescritta ritenuta d’acconto, dell’importo pagato per una fattura recante come causale “studio per consulenza pubblicitaria”, reputata anch’essa non inerente, nonchè da alcuni acquisti di auto usate, ritenuti indebitamente assoggettati al regime del margine.

La contribuente impugnò il relativo avviso di accertamento, senza successo in primo grado.

Di contro, la Commissione tributaria regionale, nell’accoglierne l’appello, ha ritenuto, quanto al recupero di Iva scaturente dall’applicazione ritenuta indebita del regime del margine, che il contribuente non ha il dovere d’informarsi sulla provenienza del bene e d’indagare sulle vicende fiscali che ne hanno accompagnato la circolazione, nè ha l’onere di risalire lungo la catena di cessioni.

A tanto ha aggiunto, quanto all’inerenza dei costi pubblicitari, che dirimente è la circostanza del regolare versamento dell’Iva, nonchè, con riguardo all’obbligo di ritenuta sugli interessi, che non v’è prova che i finanziamenti dei soci fossero fruttiferi.

Contro questa sentenza l’Agenzia propone ricorso per ottenerne la cassazione, che affida a cinque motivi, cui la contribuente reagisce con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con i primi tre motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente, perchè relativi alla medesima censura, l’Agenzia lamenta, in entrambi i casi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione per distinti profili (primo e secondo motivo) del D.L. n. 41 del 1995, artt. 36 e 37, convertito dalla L. n. 85 del 1995, là dove il giudice d’appello ha reputato legittima l’applicazione del regime del margine ritenendo sufficiente la relativa annotazione sulle fatture di acquisto, nonchè l’insufficienza della motivazione della sentenza impugnata sul fatto controverso e decisivo che nella catena di cessioni le danti causa Eurocar ed Autonova erano società di autonoleggio (terzo motivo).

Infondata è l’eccezione d’inammissibilità proposta in controricorso per l’asserita omessa impugnazione di una delle due rationes decidendi della sentenza impugnata.

Quelle che la contribuente identifica con due rationes decidendi, ossia per un verso l’affermazione che l’Agenzia non avrebbe dimostrato che qualcuno dei cedenti abbia detratto l’Iva e, per altro verso, la delimitazione degli obblighi d’indagine del contribuente, illustrano in realtà la medesima ratio, intesa a circoscrivere gli oneri del contribuente che intenda applicare il regime del margine, addossando appunto sull’Agenzia il compito di dimostrare che, nel caso in esame, qualcuno dei cedenti avesse detratto l’Iva secondo il regime ordinario.

Sicchè con i tre motivi di ricorso la ricorrente ha compiutamente aggredito la decisione impugnata.

1.1.- La complessiva censura è fondata alla luce dei chiarimenti di recente forniti dalle sezioni unite di questa Corte (con sentenza 12 settembre 2017, n. 21105), secondo cui il contribuente-cessionario deve dimostrare la propria buona fede, intesa come comprensiva sia dell’assenza di consapevolezza che il suo acquisto si iscriveva nel contesto di un’evasione dell’IVA, sia dell’uso della necessaria diligenza, ossia di aver adottato tutte le misure ragionevolmente esigibili da parte di un operatore accorto, al fine di assicurarsi che una tale evenienza dovesse escludersi.

Ed al riguardo, hanno soggiunto le sezioni unite, rientra nell’ambito delle precauzioni che si possono senz’altro richiedere ad un cessionario di veicoli d’occasione l’esame della “storia” del veicolo, quanto meno – che è quel che interessa – con riferimento all’individuazione dei precedenti intestatari del mezzo, risultanti dalla carta di circolazione, documento in possesso dell’acquirente in quanto indispensabile ai fini del perfezionamento dell’operazione.

E può dirsi quindi altrettanto agevole, senza che ciò comporti, di regola, la pretesa di oneri investigativi inesigibili, accertare la qualità di tali intestatari, e anteriori cedenti, cioè verificare, eventualmente mediante l’acquisizione di ulteriori dati di rapido reperimento, se essi siano, o meno, soggetti legittimati a detrarre l’Iva.

2.- Nel caso in esame, il fatto controverso al quale si riferisce il terzo motivo del ricorso, col quale si dà conto della sua rituale introduzione in giudizio e della sua riproposizione in appello, dato dalla qualità di società di autonoleggio di due danti causa, comporta la necessità del riesame della vicenda, riverberandosi sull’erroneità delle statuizioni su cui si fonda la sentenza impugnata, sunteggiate in narrativa.

2.1.- La complessiva censura va in conseguenza accolta.

3.- Altresì fondato è il quarto motivo di ricorso, col quale l’Agenzia denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, là dove il giudice d’appello ha annullato il recupero relativo al costo sostenuto per la fattura emessa dalla s.n.c. Cre-Attivi contentandosi dell’assolvimento dell’Iva sul compenso ricevuto.

La ratio decidendi, difatti, è del tutto eccentrica rispetto alle ragioni della pretesa, che riguardano la contestazione della deduzione dei costi per mancanza d’inerenza ai fini delle imposte dirette. Come, per conseguenza, del tutto eccentrica risulta la difesa spesa in controricorso, che punta sul D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19.

4.- Fondato è anche il quinto motivo di ricorso, col quale l’Agenzia lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 42 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 26, comma 5 e dell’art. 2697 c.c., sostenendo che il finanziamento corrisposto alla società dai soci si debba ritenere oneroso, salva prova contraria, sicchè l’Amministrazione è legittimata a recuperare la relativa ritenuta d’acconto.

Questa Corte ha difatti già avuto occasione di chiarire che, in tema d’imposta sul reddito delle persone giuridiche, la dimostrazione della mancata percezione degli interessi attivi sulle somme date a mutuo incombe sul contribuente, già per il carattere normalmente oneroso del contratto di mutuo, quale previsto dall’art. 1815 c.c., nonchè in virtù della presunzione fissata del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 45, comma 2 (arg. ex Cass. 7 ottobre 2015, n. 20035; 21 aprile 2010, n. 9469).

Di qui la conseguenza che la società di capitali che abbia ricevuto somme di denaro a titolo di mutuo dai propri soci ha l’obbligo di effettuare la ritenuta d’acconto sugli interessi corrispettivi dovuti ai soci mutuanti in conseguenza del finanziamento, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 26, non solo nel caso in cui la corresponsione dei suddetti interessi sia effettivamente avvenuta, ma anche quando essa sia soltanto presunta dalla legge (Cass. 30 luglio 2007, n. 16821; 7 luglio 2009, n. 15868).

5.- In definitiva, il ricorso va accolto e la sentenza cassata, con rinvio, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Veneto in diversa composizione.

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Veneto in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 29 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2018

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