Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3819 del 15/02/2021

Cassazione civile sez. lav., 15/02/2021, (ud. 27/10/2020, dep. 15/02/2021), n.3819

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Presidente –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

Dott. BUFFA Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24693/2018 proposto da:

A.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO

VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato MARIO ANTONINI,

rappresentata e difesa dall’avvocato MAURIZIO BARRELLA;

– ricorrente –

contro

COMUNE ZERFALIU, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, PIAZZALE DELLE BELLE ARTI, 3, presso lo studio

dell’avvocato STEFANO GABBRIELLI, rappresentato e difeso

dall’avvocato LUCA CASULA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 140/2018 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 11/06/2018 R.G.N. 121/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/10/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO BUFFA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ Stefano, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza dell’11.6.18 la Corte di Appello di Cagliari -in riforma della sentenza del tribunale di Oristano – ha dichiarato legittimo il licenziamento della lavoratrice A.G., intimatole in data 19.9.14 con preavviso dal Comune di Zerfaliu, che aveva contestato alla lavoratrice di avere effettuato, dal 1 gennaio al 14 maggio 2014, 2138 accessi al protocollo informatico dell’ufficio non giustificati da ragioni d’ufficio, in quanto finalizzati a conoscere atti che non rientravano in quelli di competenza del settore di assegnazione della lavoratrice.

2. La corte territoriale ha ritenuto provato l’accesso abusivo ad opera della dipendente al protocollo generale informatico del comune e, considerato altresì il rinvio a giudizio della lavoratrice per i medesimi fatti nonchè i precedenti disciplinari specifici, ha ritenuto adeguata la sanzione del licenziamento, la cui proporzionalità era stata invece esclusa dal giudice di prime cure.

3. Mentre il Tribunale, secondo quanto si legge nella sentenza impugnata, aveva ritenuto la sanzione non proporzionata all’illecito perchè la dipendente non aveva utilizzato credenziali non proprie e perchè gli accessi non avevano recato danni all’amministrazione nè aveva comportato la divulgazione di notizie che dovevano rimanere riservate, il giudice d’appello non ha condiviso tale valutazione. In particolare, rilevato che erano stati provati gli accessi e ritenuta tra l’altro rilevante – in quanto riferita ai medesimi fatti oggetto del procedimento disciplinare – la richiesta di rinvio a giudizio della lavoratrice per il delitto di accesso abusivo a sistema informatico, aggravato dall’abuso della qualità di pubblico ufficiale, la corte territoriale ha sottolineato che il vincolo fiduciario era stato nella specie violato – pur in assenza di danno patrimoniale – in considerazione del gran numero di accessi operati dalla lavoratrice, della loro estraneità ai compiti della lavoratrice e dell’utilizzo improprio del tempo lavorativo, sicchè i fatti ascritti erano idonei ad integrare giustificato motivo soggettivo di recesso.

4. Avverso tale sentenza ricorre la lavoratrice per quattro motivi, cui resiste il datore con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Con il primo motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., per avere la sentenza impugnata fondato la decisione sulla richiesta di rinvio a giudizio sebbene la stessa non fosse stata ancora sottoposta al vaglio del giudice ed il processo penale fosse ancora in corso.

6. Con il secondo motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., per avere la sentenza basato la propria soluzione su precedente decisione della stessa Corte d’Appello relativa ad altro fatto disciplinare, sebbene tale sentenza non fosse stata prodotta in atti ed anzi era stata impugnata in cassazione.

7. Con il terzo motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione dell’art. 2119 c.c., per non avere la sentenza impugnata spiegato perchè il vincolo fiduciario inerente il rapporto di lavoro fosse stato leso dalla lavoratrice.

8. Con il quarto motivo di ricorso si deduce violazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, per avere la sentenza impugnata omesso l’esame contrattuale delle sanzioni.

9. Il primo motivo di ricorso – che addebita alla corte territoriale di avere ritenuto provata la veridicità dei fatti sottesi al licenziamento sulla base della richiesta di rinvio a giudizio che esprime solo un’ipotesi accusatoria – è inammissibile. Invero, la decisione del giudice di appello si basa sulla valutazione del quadro probatorio acquisito, dal qual quale emergeva la condotta contestata alla lavoratrice, mentre il richiamo al rinvio a giudizio è mero elemento citato ad abundantiam dalla corte territoriale per corroborare il giudizio di gravità della condotta già espresso sulla base di altre considerazioni.

10. Nè vi è alcuna violazione della disposizione invocata e delle regole sull’onere della prova. Inappropriato è, in particolare, il richiamo all’art. 2697 c.c., la cui violazione è censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, e non invece ove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia fatto delle prove offerte dalle parti (Cass. 15107/2013 e 13395/2018, tra le tante), come nella specie, ove la parte critica l’apprezzamento operato dai giudici di merito, opponendo una diversa valutazione.

11. Del pari inammissibile è il secondo motivo, in quanto la sentenza richiamata dalla corte relativa al precedente disciplinare non è stata affatto posta alla base della decisione del caso in questione, che poggia invece su una varietà di elementi considerati dalla corte e su una valutazione ben più ampia del caso concreto e della obiettiva gravità della condotta della lavoratrice.

12. Il terzo motivo è pure inammissibile. Il motivo non si rapporta alla sentenza, che ha qualificato il recesso come per giustificato motivo soggettivo con preavviso e non ha fatto applicazione dell’articolo invocato dalla ricorrente.

13. Peraltro, in tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, si è da tempo affermato che spetta unicamente al giudice del merito accertare se i fatti addebitati al lavoratore rivestano il carattere di negazione degli elementi fondamentali del rapporto ed in specie di quello fiduciario e siano tali da meritare il recesso con preavviso (tra le altre, Cass. Sez. L, Sentenza n. 15640 del 14/06/18) e, nella specie, la Corte territoriale ha indicato le ragioni per le quali la condotta della lavoratrice, tenuta in violazione dei doveri propri del dipendente pubblico, era da ritenere di gravità tale da giustificare il recesso con preavviso. Trattandosi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, non solo come si è evidenziato inappropriato è il richiamo all’art. 2119 c.c., non può non evidenziarsi che con il motivo la parte tende sostanzialmente ad una nuova valutazione – preclusa in sede di legittimità – del merito della lite in relazione alla rilevanza dei fatti accertati sul piano disciplinare.

14. Il quarto motivo è inammissibile per la sua genericità, non essendo indicate nè riportate in alcun modo le norme contrattuali rilevanti che avrebbero permesso alla corte di valutare la concludenza delle affermazioni del ricorrente.

15. Le spese seguono la soccombenza.

16. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5000 per competenze professionali ed Euro 200 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2021

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