Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3810 del 16/02/2011

Cassazione civile sez. lav., 16/02/2011, (ud. 01/12/2010, dep. 16/02/2011), n.3810

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 2672-10 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Po n. 25b, presso lo

studio dell’avv. Pessi Roberto, che la rappresenta e difende per

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

G.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 55/2009 della Corte d’appello di Perugia,

depositata in data 10.02.2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

giorno 1.12.2010 dal Consigliere doti. Giovanni Mammone;

udito l’avv. Miceli Mario per delega Pessi;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

Destro Carlo.

Fatto

RITENUTO IN FATTO E DIRITTO

1.- G.M. chiedeva che fosse dichiarata la nullità del termine apposto ad un contratto di assunzione alle dipendenze di Poste Italiane s.p.a. Accolta la domanda, conseguiva la declaratoria dell’instaurazione di rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

2.- Proposto appello da Poste Italiane, la Corte d’appello di Perugia, con sentenza pubblicata il 10.02.09, rigettava l’impugnazione. Considerato che il contratto era stipulato in forza dell’art. 8 del CCNL Poste 26.11.94, come integrato dall’accordo 25.9.97, per esigenze eccezionali connesse alla fase di ristrutturazione dell’azienda, rilevava che le assunzioni per tale causale erano ammesse fino al 30.4.98 – data fissata dalle parti collettive con accordo integrativo 16.1.98 – di modo che per quella in questione, relativa al periodo 2.10.00-31.1.01, il termine era illegittimamente apposto.

3.- Avverso questa sentenza Poste Italiane proponeva ricorso per cassazione.

Non svolgeva attività difensiva G..

Il Consigliere relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. depositava relazione che veniva comunicata al Procuratore generale ed era notificata al difensore costituito.

Poste Italiane ha depositato memoria, con la quale – tra l’altro – prende atto dell’entrata in vigore della L. 4 novembre 2010, n. 183 e, per il caso di non accoglimento del ricorso, chiede che l’eventuale risarcimento del danno venga fissato nei limiti previsti dall’art. 32, commi 5, 6 e 7, di detta legge.

4.- I motivi dedotti da Poste Italiane s.p.a. possono essere così sintetizzati:

4.1.- violazione della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, degli artt. 1362 e segg. c.c. e art. 8 del c.c.n.l. 26.11.94, nonchè degli accordi 25.9.97, 16.1.98 e 27.4.98, nonchè carenza di motivazione, contestandosi l’interpretazione data alla contrattazione collettiva dal giudice di merito, in particolare evidenziandosi la contraddittorietà della sentenza impugnata quando afferma che l’accordo 25.9.97, pur derogando alla disciplina generale del contratto a termine, sarebbe soggetta ad un limite temporale di efficacia;

4.2.- il rapporto di lavoro avrebbe dovuto essere ritenuto risolto per mutuo consenso, costituendo l’ampio lasso di tempo trascorso tra la cessazione del rapporto e l’offerta della prestazione indice di disinteresse del lavoratore a sostenere la nullità del termine, di modo che erroneamente il giudice di merito avrebbe affermato che l’inerzia non costituisce comportamento idoneo a rappresentare la carenza di interesse al ripristino del rapporto.

5.- Il ricorso è infondato in ragione della giurisprudenza di questa Corte, che sulle questioni oggi sollevate dalla ricorrente ha adottato orientamenti ormai consolidati.

Quanto al secondo motivo (risoluzione per mutuo consenso) da trattare per primo per evidente consequenzialità logica, la giurisprudenza della Corte di cassazione (v. per tutte Cass. 17.12.04 n. 23554 e numerose altre seguenti) ha ritenuto che “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale scaduto) per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè, alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo;

la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto”.

La Corte d’appello ha rilevato che la società appellante, processualmente a tanto onerata, ha omesso di fornire elementi utili a consentire la prospettata valutazione, non ritenendo sufficiente a rappresentare la disaffezione della lavoratrice le circostanze che la stessa avesse atteso due anni (lasso di tempo ritenuto peraltro non cospicuo) prima di intraprendere l’azione giudiziaria, essendo l’attesa ammissibile perchè contenuta nei limiti prescrizionali.

Trattasi di considerazioni di merito congruamente motivate, come tali non censurabili sul piano logico.

6.- Quanto al primo motivo, la giurisprudenza ritiene che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, conv. dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (v. S.u. 2.3.06 n. 4588). Dato che in forza di tale delega le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui all’accordo integrativo del 25.9.97, la giurisprudenza ritiene corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento agli accordo attuativi sottoscritti lo stesso 25.9.97 e il 16.1.98, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza – dapprima fino al 31.1.98 e poi (in base al secondo accordo) fino al 30.4.98 – della situazione di fatto integrante delle esigenze eccezionali menzionate dal detto accordo integrativo. Per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione l’impresa poteva dunque procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato, con la conseguenza che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30.4.98 in quanto privi di presupposto normativo.

In altre parole, dato che le parti collettive avevano raggiunto originariamente un’intesa priva di termine ed avevano successivamente stipulato accordi attuativi che avevano posto un limite temporale alla possibilità di procedere con assunzioni a termine, fissato inizialmente al 31.1.98 e successivamente al 30.4.98, l’indicazione di tale causale nel contratto a termine avrebbe legittimato l’assunzione solo ove il contratto fosse scaduto in data non successiva al 30.4.98 (v., ex plurimis, Cass. 23.8.06 n. 18378).

Conseguentemente i contratti scadenti (o comunque stipulati) al di fuori di tale limite temporale sono illegittimi in quanto non rientranti nel complesso legislativo-negoziale costituito dalla L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 e dalla successiva legislazione collettiva che consente la deroga alla L. n. 230 del 1962.

La giurisprudenza ha, altresì, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo 18.1.01 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato.

Ammesso che le parti avessero espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25.9.97 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regia Ums dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12.3.04 n. 5141).

L’impostazione adottata consente di affermare che la sussistenza delle esigenze direzionali è stata negozialmente riconosciuta dalle parti stipulanti limitatamente ad un periodo temporale che è limitato alla data del 30.4.98 e che, conseguentemente, la legittimità dei contratti a termine stipulati entro tale data è basata su una ricognizione di fatto derivante direttamente dal sistema normativo nato dall’attuazione dell’art. 23, che esclude l’onere di Poste Italiane di dare prova di una specifica e concreta esigenza. Essendo stato il contratto a termine della C., oggetto della pronunzia impugnata, stipulato per il periodo 2.10.00- 31.01.01, il motivo è infondato.

7.- Quanto all’applicazione dello ius superveniens, deve rilevarsi che Poste Italiane s.p.a. con la memoria sopra indicata, preso atto dell’intervento della L. 4 novembre 2010, n. 183 (cd. collegato lavoro), pubblicata sulla Gazzetta ufficiale 9.11.10 n. 262 (suppl.

ord. 243/L) ed in vigore dal 24.11.10, ha chiesto alla Corte che il risarcimento del danno venga effettuato secondo i criteri ivi previsti.

La richiesta è giustificata con la disposizione dell’art. 32, comma 5, di detta legge, per la quale “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8”, sostenendosi che, trovando la disposizione stessa applicazione a tutti i procedimenti pendenti all’entrata in vigore della legge (comma 7), la sentenza dovrebbe essere cassata nella parte relativa alla corresponsione del risarcimento, onde quantificarne l’importo nella misura indennitaria sopra indicata, ed a tale scopo sarebbe necessaria “la rimessione della causa sul ruolo”.

L’ingresso nel presente giudizio di legittimità della questione dei detti nuovi criteri di quantificazione è, tuttavia, subordinato alla sussistenza delle condizioni processuali per esaminare la richiesta di risarcimento del lavoratore. Tali condizioni si verificherebbero nel caso che, rigettati i motivi di censura contro la dichiarata nullità del termine, dovesse esaminarsi un motivo di impugnazione che affronti anche il punto della liquidazione del risarcimento effettuata dal giudice di merito.

Nel caso di specie, tuttavia, l’impugnazione non tocca questo punto specifico, di modo che non sorge questione circa l’applicabilità dell’invocato ius superveniens e non si pone alcun problema di procedere a nuova liquidazione del risarcimento, che è questione ormai non più sub iudice.

8.- In conclusione, il ricorso deve essere rigettato senza ulteriori statuizioni, neppure in punto di spese, non avendo G. svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2011

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