Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 381 del 10/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 381 Anno 2014
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: PAGETTA ANTONELLA

SENTENZA

sul ricorso 3791-2012 proposto da:
IREN S.P.A. – (già IRIDE S.P.A.) C.F. 07129470014, in
persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22,
presso lo studio dell’avvocato VESCI GERARDO, che la
rappresenta e difende unitamente agli avvocati BONINI
2013

ATTILIO e ZAMBON FABIOLA, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2881
contro

ISTITUTO NAZIONALE

I.N.P.S.
SOCIALE,

C.F.

80078750587,

in

DELLA
persona

PREVIDENZA
del

suo

Data pubblicazione: 10/01/2014

Presidente e legale rappresentante pro tempore, in
proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A.
Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S. C.F.
05870001004, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

9-9
FREZZA

presso

l’Avvocatura

Centrale

SGROI ANTONINO, MARITATO LELIO, D’ALOISIO CARLA,
giusta delega in atti;
– controri correnti nonchè contro

EQUITALIA NOMOS S.P.A.;
– intimata –

avverso la sentenza n. 535/2011 della CORTE D’APPELLO
di GENOVA, depositata il 02/08/2011 r.g.n. 385/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 15/10/2013 dal Consigliere Dott. ANTONELLA
PAGETTA;
udito l’Avvocato D’AMOLI CLAUDIO per delega VESCI
GERARDO;
udito l’Avvocato D’ALOISIO CARLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI, che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati

.

Fatto e diritto
La Corte di appello di Genova, in riforma della decisione di primo grado, respingeva la opposizione
della IRIDE s.p.a. avverso la cartella esattoriale n. 110 2008 00439495 40 ( notificata il 3 settembre
2008) di importo pari a € 56.135, 32 a titolo contributi per CIGO e per CIGS e di sanzioni
interessi e somme aggiuntive richiesti dall’INPS in relazione ai periodo da novembre 2006 a giugno
2007 e avverso la cartella esattoriale n. 11011020080070764369000 (notificata il 26 novembre 2008)

interessi, relativi ai periodi aprile 2006-ottobre 2006 /novembre 2006 – maggio 2007.
Riteneva la Corte territoriale, che alla società appellata, società a capitale misto detenuto in quota
maggioritaria , direttamente o indirettamente, dal Comune di Torino, non fosse applicabile il disposto
dell’art. 3, comma 1 d. lgs CPS n. 869 del 1947, come sostituito dall’art. 4 L. n. 270 del 1988 che
esonera dall’applicazione delle norme sulla cassa integrazione guadagni degli operai dell’industria, tra le
altre, “le imprese industriali degli enti pubblici anche se municipalizzate e dello Stato”. In particolare, il
giudice di appello, in dichiarata adesione alle pronunce n. 14847 del 2009 e n. 5816 del 2010 di questa
Corte, considerava insufficienti ai fini dell’esonero gli elementi valorizzati, invece, dal primo giudice
che aveva ricondotto alla nozione di “impresa pubblica”, sottratta all’obbligo contributivo, anche la
impresa in cui l’ente pubblico eserciti un’influenza dominante come nel caso in cui sia detentore della
totalità o della maggioranza del capitale sociale, controlli la maggioranza dei voti azionari, abbia diritto
alla nomina di più della metà dei componenti del consiglio di amministrazione, svolga attività di
direzione e vigilanza. Respingeva quindi le eccezioni di decadenza dal potere di iscrizione a ruolo dei
contributi in controversia ai sensi dell’art. 25 d. lgs n. 46 del 1999 nonché le ulteriori eccezioni della
società aventi ad oggetto vizi formali della cartella esattoriale; escludeva poi la prospettata la
violazione dell’art. 24, comma 3 d. lvo n. 46 del 1999 per avere l’istituto proceduto a iscrizione a ruolo
ed emissione delle cartelle esattoriali in pendenza dei ricorsi amministrativi presentati negli anni 2002 e
2003 , sul rilievo che secondo la norma invocata l’iscrizione non può essere eseguita in pendenza di
ricorso giudiziario mentre la pendenza di ricorso amministrativo- avente peraltro ad oggetto nel caso
in esame – contributi riferiti a periodo anteriore rispetto a quello oggetto di causa non impediva
l’iscrizione al fine di rispettare i termini di decadenza di cui all’art. 25 ; ribadiva la correttezza della
misura delle sanzioni civili.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la IREN s.p.a ( già IRIDE s.p.a.) sulla base di
due motivi.
L’INPS in proprio ed anche quale procuratore della S.C.C.I. s.p.a ha depositato controricorso.
Equitalia Nomos s.p.a. è rimasta intimata.
La società IREN ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proe. eiv:

di importo pari a € 439.143, 07, a titolo di contributi per CIGO e CIGS, sanzioni, somme aggiuntive ed

Con il primo motivo la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 3 comma 2 del
DLCPS n. 896 del 1947, dell’art. 2 L. n. 1115 del 1968, dell’art. 1 L. n. 464 del 1982, dell’art. 1 L. n. 164
del 1975, dell’art. 4 della L. n. 270 del 1988 , dell’art. 22 L. n. 142 del 1990. dell’art. 113 T.U. d. 1gs n.
267 del 2000, dell’art. 35 L. n. 448 del 2001, dell’art. 2 comma 2 d. lgs n. 158 del 1995, dell’art. 3 comma
28 d. lgs n. 163 del 2006, dell’art. 2 d. 1gs n. 333 del 2003, dell’art. 20 comma 2 L: n. 133 del 2008 e
dell’art. 2359 cod. civ. nonché motivazione insufficiente illogica e contraddittoria su un punto decisivo
della controversia . Eccepisce che la giurisprudenza di legittimità richiamata nella sentenza

modifiche in ragione della legge n. 448 del 2001 e del d.lgs. n. 333 del 2003, di attuazione della
direttiva 2000/52/111/CE. Ricorda, in particolare, che, ai sensi dell’art. 35 della suddetta legge n.
448 del 2001, l’unica forma gestionale dei servizi pubblici locali, che ha sostituito le precedenti, è
la società di capitali partecipata ed è pertanto questa che deve essere qualificata come l’ente
strumentale dell’ente locale per l’esercizio dei pubblici servizi e che l’art. 2 del d.lgs. n. 333 del
2003, definisce “impresa pubblica” ogni impresa nei cui confronti i poteri pubblici esercitino,
direttamente o indirettamente una situazione di controllo. Tale posizione di controllo sarebbe
configurabile nel caso di specie; in conseguenza la società ricorrente, costituisce impresa pubblica,
per un servizio pubblico, sottoposta al regime pubblicistico di legge, presentando elementi che la
differenziano dalla società per azioni di diritto comune. Irrilevante sarebbe poi la circostanza
valorizzata dalla Corte di appello che il capitale di IRIDE s.p.a. è detenuto da altra società per azioni
in quanto nessuna norma di legge e tantomeno l’art. 35 L. n., 448 del 2001 cit., impone una
partecipazione soltanto diretta dell’Ente territoriale nella società di capitali dovendosi, anzi, evidenziare
che l’ad 35 dispone la derivazione ex art. 2112 cod. civ., di rami di azienda dalla originaria società per
azioni in cui l’azienda municipalizzata, ai sensi dell’art. art. 22 L. n. 142 del 1990, si è trasformata e di
cui i comuni conservano la maggioranza azionaria in altre società di capitali dalla prima controllate.

Con il secondo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 3 comma 1 del d.
lgs C.p.S. n. 869 del 1947 sostenendo, in sintesi, l’errore della decisione impugnata per non avere esteso
ad essa società l’esonero dalla contribuzione già riconosciuto dall’INPS

Al” Azienda Energetica

Municipalizzata trasformatasi successivamente in società per azioni . ai sensi dell’art. 22 L n. 142
del 1990
I suddetti motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.
Gli stessi non sono fondati e devono essere rigettati.
Questa Corte, con le sentenze n. 19087, n. 20818, n. 20819, n. 22318, del 2013, ha già avuto modo
di pronunciarsi con riguardo ad analoga fattispecie, confermando, con articolate motivazioni,
l’orientamento secondo cui la società partecipata non può identificarsi con “le imprese industriali
degli enti pubblici, trattandosi di società di natura essenzialmente privata nella quale

impugnata faceva riferimento ad un diverso contesto normativo il quale aveva subito rilevanti

l’amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto
privato, dovendosi altresì escludere, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella
propria dello schema societario, che la mera partecipazione — per maggioranza , ma non totalitaria,
da parte dell’ente pubblico sia idonea a determinare la natura dell’organismo attraverso cui la
gestione del servizio pubblico viene attuata”.
Questa Corte ha, quindi, affermato, che la forma societaria di diritto privato è per l’ente locale la
dello strumento giuridico, in cui il perseguimento dell’obiettivo pubblico è caratterizzato
dall’accettazione delle regole del diritto privato. Quindi le società per azione a partecipazione
pubblica vanno escluse dal concetto di “imprese pubbliche” (citate sentenze Cassazione) A tale
orientamento, che si condivide, questa Corte intende dare continuità, anche in ragione delle
argomentazioni di seguito illustrate, che pongono in evidenza come l’evoluzione della normativa
comunitaria e nazionale promuova forme e strumenti di natura essenzialmente non autoritativa per
la gestione dei servizi pubblici locali (rispetto alla quale, peraltro, si sta progressivamente
sviluppando una attività, a carattere strumentale, di costumer care) e di attività di impresa
dell’amministrazione pubblica.
Storicamente, può ricordarsi che il fenomeno delle società a partecipazione pubblica ha visto lo
Stato assumere la veste di imprenditore, in particolare, o a partire dagli anni trenta del novecento,
per poi passare negli anni ’90 alla privatizzazione formale di enti pubblici sino a pervenire a
fenomeni di esternalizzazione di attività dell’amministrazione, al fine di renderne meno farraginosa
l’azione amministrativa (cfr., Cass., S.U., ordinanza n. 19667 del 2003).
Come si vedrà, certo non è senza rilievo l’oggetto di servizio pubblico locale dell’attività esercitata
mediante società di diritto privato, e la partecipazione pubblica alle stesse, preoccupandosi,
tuttavia, il legislatore comunitario e quello nazionale che non vengano lese le dinamiche della
concorrenza nel mercato e per il mercato, introducendo misure cd. antitrust, misure legislative di
promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere
all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della
competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche;
misure per favorire l’apertura del mercato alla concorrenza. garantendo i mercati ed i soggetti che in
essi operano (cfr. Corte cost., sentenza n. 430 del 2007).
Ciò tuttavia, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, non è
dirimente ai fini previdenziali in esame, atteso che proprio il passaggio della gestione dei servizi
pubblici locali da soggetti pubblici (quali le aziende municipalizzate) a soggetti privati, anche se
partecipati, incide sulla disciplina dei rapporti di lavoro in modo significativo, e fa venir meno le

modalità di gestione degli impianti consentita dalla legge e prescelta dall’ente stesso per la duttilità

condizioni a cui il legislatore ha connesso l’esclusione dal pagamento della contribuzione in
questione.. Tenuto conto della ratio decidendi della pronuncia della Corte d’Appello e dei motivi di
ricorso, un compiuto vaglio di questi ultimi in relazione alla normativa di riferimento, richiede di
soffermarsi sul rilievo che assume l’esercizio di un pubblico servizio locale da parte di società per
azioni partecipata, come avviene nel caso di specie, per le ragioni sopra esposte.
A sostegno delle proprie tesi difensive, la ricorrente ha fatto riferimento alla disciplina della
societario. Tali modelli, così come le cd. imprese strumentali, presentano molteplici peculiarità e
pongono diverse problematiche proprio con riguardo agli effetti della partecipazione pubblica, ma
a fini diversi da quelli della contribuzione previdenziale, per la quale permane l’esclusivo rilievo del
carattere privato della società, come si vedrà dalla ricognizione normativa che segue.
L’assetto originario dei servizi pubblici locali è stato delineato dall’art. 22 della legge 142 del
1990, poi confluito negli artt. 112 e 113 del d.lgs. n. 267 del 2000, recante il Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali.
L’art. 112 del T.U. afferma che gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono
alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni ed attività rivolte
alla realizzazione di fini sociali, nonché a promuovere lo sviluppo economico e civile delle
comunità locali. L’art. 113, così come formulato originariamente, prevedeva, indipendentemente
dalla rilevanza economica o meno dei servizi, la possibilità per gli enti locali sia di ricorrere alla
gestione in economia sia di affidare la gestione dei servizi pubblici locali in concessione anche a
società per azioni a prevalente capitale pubblico. Successivamente l’art. 35 della legge n. 448 del
2001 sostituiva l’art. 113 ed introducendo l’art. 113-bis, provvedendo in tal modo a distinguere le
formule da adottare per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza industriale da quelle per la
gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale.
Tale riforma era stata resa necessaria al fine di assicurare l’apertura del mercato dei servizi pubblici
di rilevanza industriale, ed il rispetto dei principi comunitari della libera circolazione delle merci,
della libera prestazione dei servizi e soprattutto della libera concorrenza; infatti, il novellato art. 113
affidava la gestione dei servizi di rilevanza industriale esclusivamente a società di capitali,
abrogando la gestione in economia che restava invece possibile per i servizi pubblici privi di
rilevanza industriale. Tale novella veniva seguita da altri interventi legislativi, con una nuova
formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 267 del 2000 ad opera dell’art. 14 del d.l. 269 del 2003 e

dell’art. 4 della legge n. 350 del 2003.
Dette norme sostituivano il criterio della rilevanza industriale con quello della rilevanza
economica. In proposito si può ricordare quanto affermato dalla Corte costituzionale con la

gestione dei servizi pubblici locali, all’impresa pubblica, alle peculiarità del proprio modello

sentenza n. 325 del 2010 e cioè che in àmbito comunitario non viene mai utilizzata l’espressione
«servizio pubblico locale di rilevanza economica», ma solo quella di «servizio di interesse
economico generale» (SlEG), rinvenibile, in particolare, negli artt. 14 e 106 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
Detti articoli non fissano le condizioni di uso di tale ultima espressione, ma, in base alle
interpretazioni elaborate al riguardo dalla giurisprudenza comunitaria (ex multis, Corte di giustizia
chiarezza che la nozione comunitaria di SIEG, ove limitata all’ambito locale, e quella interna di
SPL di rilevanza economica hanno «contenuto omologo» (Corte costituzionale, sentenza n. 272 del
2004).. Entrambe le suddette nozioni, interna e comunitaria, fanno riferimento infatti ad un servizio
che: a) è reso mediante un’attività economica (in forma di impresa pubblica o privata), intesa in
senso ampio, come qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato
mercato; b) fornisce prestazioni considerate necessarie (dirette, cioè, a realizzare anche “fini
sociali”) nei confronti di una indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere dalle loro
particolari condizioni..
Le due nozioni, inoltre, assolvono l’analoga funzione di identificare i servizi la cui gestione deve
avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a terzi secondo
procedure competitive ad evidenza pubblica (citata sentenza Corte cost. n. 325 del 2010).
Può osservarsi come la normativa comunitaria ammette la gestione diretta del SPL da parte
dell’autorità pubblica nel caso in cui lo Stato nazionale ritenga che l’applicazione delle regole di
concorrenza (e, quindi, anche della regola della necessità dell’affidamento a terzi mediante una gara
ad evidenza pubblica) ostacoli, in diritto od in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art.
106 TFUE).. Successivamente al richiamato intervento del Giudice delle Leggi, è poi intervenuto
l’art. 23-bis del d.l. 112 del 2008, convertito dalla legge n.133 del 2008. La disciplina dettata da
tale norma si caratterizzava per il fatto che fissava una normativa generale di settore, volta a
restringere, rispetto al livello minimo stabilito dalle regole concorrenziali comunitarie, le ipotesi di
affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica, consentite solo in casi eccezionali ed al ricorrere di specifiche condizioni, la cui
regolamentazione veniva, peraltro, demandata ad un regolamento governativo, poi adottato con il
d.P.R. 7 settembre 2010 n. 168.
Tale disciplina superava il vaglio di legittimità costituzionale (sentenza Corte cost. n. 325 del 2010),
ma veniva abrogata dal referendum popolare dell’ 11 e 12 giugno 2011, realizzandosi, pertanto,
l’intento referendario di «escludere l’applicazione delle norme contenute nell’art. 23-bis che
limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di

UE, 18 giugno 1998, C-35196, Commissione c. Italia) e dalla Commissione europea, emerge con

gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il
servizio idrico)» (sentenza Corte cost. n. 24 del 2011).
L’art. 4 del d.l. 138 del 2011 riprendeva in larga parte la disciplina abrogata per via referendaria,
sollevando dubbi di legittimità costituzionale confermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza
n. 199 del 2012, atteso il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare
desumibile dall’art. 75 Cost.
modificazioni, dalla 1. n. 148 del 2011, ad opera della sentenza della Corte Costituzionale n. 199 del
2012, è conseguito un effetto di semplificazione; con la conseguente applicazione, nella materia dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica, oltre che della disciplina di settore non toccata dalla
detta sentenza, della normativa e dei principi generali dell’ordinamento europeo, nonché di quelli
affermati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e di quella nazionale.
Così riepilogato il quadro di riferimento normativo comunitario e nazionale, si deve rilevare come
una prima definizione giurisprudenziale della figura dell’in house, è fornita dalla sentenza della
Corte di giustizia delle Comunità europee del 18 novembre 1999, causa C-107/98 — Teckal. In
quella sede si è affermato che non è necessario rispettare le regole della gara in materia di appalti
nell’ipotesi in cui concorrano i seguenti elementi: a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul
soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi; b) il soggetto
aggiudicatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di
appartenenza.. Con la sentenza n. 50 del 2013, la Corte costituzionale ha, poi, affermato che: la
Corte di giustizia dell’Unione europea ha riconosciuto che rientra nel potere organizzativo delle
autorità pubbliche degli Stati membri “autoprodurre” beni, servizi o lavori, mediante il ricorso a
soggetti che, ancorché giuridicamente distinti dall’ente conferente, siano legati a quest’ultimo da una
“relazione organica” (il cd. affidamento in house). Allo scopo di evitare che l’affidamento diretto a
soggetti in house si risolva in una violazione dei principi del libero mercato e quindi delle regole
concorrenziali, che impongono sia garantito il pari trattamento tra imprese pubbliche e private, la
stessa Corte ha affermato che è possibile non osservare le regole della concorrenza a due
condizioni. La prima è che l’ente pubblico svolga sulla società in house un controllo analogo a
quello esercitato sui propri servizi; la seconda è che il soggetto affidatario realizzi la parte più
importante della propria attività con l’ente pubblico (citata sentenza 18 novembre 1999, in causa C107/98, Teckal). Come si può rilevare, dunque, la finalizzazione della spa alla gestione in house di
un servizio pubblico, come nel caso di specie, non muta la natura giuridica privata della società con
riguardo alle ricadute previdenziali dei rapporti di lavoro, ma assume rilievo nell’ordinamento
nazionale e comunitario con riguardo al mercato e alla tutela della concorrenza.

All’azzeramento della normativa contenuta nell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con

Né argomenti possono desumersi dal richiamo della nozione di impresa pubblica che costituisce
anch’essa categoria all’attenzione del legislatore comunitario, che se ne occupa all’art. 86 del
Trattato e poi negli artt. 101, 102 e 103 sul divieto di facilitazioni finanziarie.
Il legislatore comunitario ha, infatti, previsto, e sotto questo aspetto l’ha disciplinata, che essa non
fosse sottratta, in virtù dei rapporti con i pubblici poteri, alle regole del mercato imposte,
indipendentemente dalla loro appartenenza, a tutte le imprese: regole che valgono per tutti gli
Non è senza significato, in proposito, che i caratteri distintivi dell’impresa pubblica devono essere
ricercati nelle direttive sulla trasparenza devono essere ricercati nelle direttive sulla trasparenza
delle relazioni finanziarie fra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche (direttiva 80/723 della
Commissione, successivamente modificata dalle direttive 2000/52 e 2005/81, ora codificate nella
direttiva 2006/111), che hanno posto l’accento sull’esigenza di assicurare la parità di trattamento tra
imprese pubbliche e private e, a questi fini, sulla necessità di una compiuta trasparenza circa le
relazioni finanziarie intercorrenti tra poteri pubblici nazionali e imprese pubbliche, in modo da
distinguere chiaramente il ruolo svolto dalla pubblica amministrazione quale potere pubblico e
quello svolto dalla stessa quale privato.
La qualifica di un soggetto come impresa pubblica prescinde perciò dal fine perseguito, mentre
assume valenza decisiva il legame tra l’impresa e la pubblica amministrazione (intesa nella sua
accezione più ampia, propria alla materia degli appalti, comprensiva perciò anche dell’organismo di
diritto pubblico) “dominante”. Anche in questo caso, occorre rilevare, il peculiare regime della cd.
impresa pubblica, non può determinare, ex sé, ricadute sul regime previdenziale della spa che
rivesta tali caratteristiche. Infine si rileva come esuli, altresì, dal caso di specie la nozione di
società pubblica strumentale, attesa l’esclusione “dei servizi pubblici locali” sancita dall’art. 13 del
d.l. n. 223 del 2006. Le stesse destinate a produrre beni e servizi finalizzati alle esigenze dell’ente
pubblico partecipante, si distinguono dalle società a partecipazione pubblico- privata, esercitate
secondo modelli paritetici, in cui il ruolo degli enti territoriali corrisponde a quello di un azionista di
una società per azioni (cfr., Consiglio di Stato, Sezione VI, 11 gennaio 2013, n. 122).
Così ripercorso il quadro normativo di riferimento circa le modalità di esercizio di un servizio
pubblico locale tramite spa, rileva la Corte che non sussistono le condizioni per escludere la
contribuzione per cui è causa. In ragione di quanto sopra esposto, come già ritenuto da questa

Corte, (Cass. nn. 20818, 20819, 22318, 11417 del 2013, Cass., n. 14847 del 2009), la società

partecipata non può identificarsi con le imprese industriali degli enti pubblici esonerate, trattandosi
di società di natura essenzialmente privata nella quale l’amministrazione pubblica esercita il
controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, e dovendosi escludere, in

operatori economici e non ammettono deroghe per le imprese pubbliche.

mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, che la
mera partecipazione – pur maggioritaria, ma non totalitaria – da parte dell’ente pubblico sia idonea a
determinare la natura dell’organismo attraverso cui la gestione del servizio pubblico viene attuata.
Ne è fondata la doglianza con la quale, nel censurare la statuizione della Corte d’Appello, la
ricorrente tende a far derivare l’esonero della richiesta di contribuzione da un provvedimento
emesso dall’Autorità amministrativa in favore di AEM, in quanto lo stesso dovrebbe ritenersi
ovvero per cessione di ramo d’azienda .Detto provvedimento di accertamento infatti risulta legato
alla condizione dell’Azienda esaminata in relazione alla soggettività specifica del datore di lavoro,
come esistente al momento dell’accertamento ed alle condizioni ivi verificate, con impossibilità di
trasferire detto provvedimento in capo ad altri soggetti economici (Cass., n. 20818 del 2013).
Peraltro, in presenza di trasferimento d’azienda, trova applicazione l’art. 2112 cc, che persegue lo
scopo di garantire ai lavoratori la conservazione dei diritti in caso di mutamento dell’imprenditore
assicurando la continuità del rapporto di lavoro nei confronti dell’azienda, o alla parte di essa,
trasferita ed esistente al momento del trasferimento. È estranea, invece, alla tutela da essa offerta la
garanzia di continuità delle prerogative della struttura aziendale riconosciute alla parte
imprenditoriale dall’autorità amministrativa, atteso che dette prerogative sono condizionate alla
permanenza dei requisiti richiesti dalla legge per il loro riconoscimento.
Consegue il rigetto del ricorso .Sussistono le condizioni di cui all’art. 92 cpc per compensare tra le
parti costituite le spese di giudizio in ragione della complessità delle questioni sottoposte all’esame
della Corte.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese tra le parti costituite.

produrre effetto esonerativo anche per AEM spa e per le società da essa derivate, per scorporo

Roma 15 ottobre 2013
Il Consigliere est.
Il Prette
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Addena GRANATA
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