Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3808 del 15/02/2021

Cassazione civile sez. I, 15/02/2021, (ud. 08/01/2021, dep. 15/02/2021), n.3808

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19041/2019 proposto da:

S.M.B., elettivamente domiciliato in presso la CANCELLERIA

civile della CORTE SUPREMA di CASSAZIONE e rappresentato e difeso

dall’avvocato Antonino Ciafardini, in forza di procura speciale in

atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 15/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

08/01/2021 da Dott. IOFRIDA GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Ancona, con decreto n. cronol. 6282/2019, depositato il 15/5/2019, ha respinto la richiesta di S.M.B., cittadino del (OMISSIS), a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria ed umanitaria.

In particolare, i giudici hanno rilevato che: la situazione narrata dal richiedente (essere stato costretto a lasciare il Paese d’origine, per sfuggire alle violenze di gruppi politici contrapposti, essendo un simpatizzante del (OMISSIS)) consisteva in un solo evento grave, di carattere quindi occasionale, e non integrava nè i presupposi per il riconoscimento dello status di rifugiato, i difetto di atti persecutori allegati, nè un pericolo di danno grave ai fini della richiesta di protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, lett. a) e b), in difetto di allegazioni in ordine ad eventuali richieste di protezione alle forze dell’ordine ed al mancato intervento di queste; con riferimento ai presupposti di tutela di cui alla lette della stessa legge, il Bangladesh non era interessato da violenza indiscriminata, come emergeva dai Report Country Policy and Information ed Easo 2017; non ricorrevano le condizioni per la concessione del permesso per ragioni umanitarie, non emergendo ragioni di particolare vulnerabilità dello straniero nè rilevando una situazione di particolare integrazione in Italia.

Avverso la suddetta pronuncia, S.M.B. propone ricorso per cassazione, notificato il 7/6/2019, affidato a quattro motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che si costituisce al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione).

Diritto

RAGIONE DELLA DECISIONE

1 Il ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3,4,5,6 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU, sia il difetto di motivazione, travisamento dei fatti ed omesso esame di fatti decisivi, in relazione alla ritenuta non credibilità del racconto, preciso e dettagliato nonchè corredato da documentazione (attestante che il richiedente era stato oggetto di una denuncia per gravissimi fatti di sangue ai danni di esponenti della (OMISSIS), pur essendone stato, viceversa parte offesa); 2) con il secondo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, per non avere il Tribunale applicato il principio dell’onere probatorio attenuato, avvalendosi dei propri poteri istruttori, e per non avere valutato la credibilità del richiedente alla luce dei suddetti parametri normativi; 3) con il terzo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per non avere il Tribunale riconosciuto la sussistenza di una minaccia grave alla vita del cittadino straniero derivante da una situazione di violenza indiscriminata, ai fini della chiesta protezione sussidiaria, sulla base di generiche fonti internazionali; 4) con il quarto motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6, per non avere la Corte d’appello riconosciuto la sussistenza dei motivi umanitari per la concessione della relativa tutela, malgrado la sussistenza di un regolare rapporto lavorativo.

2. Le prime due censure in punto di erronea valutazione della credibilità sono inammissibili, perchè non pertinenti al decisum in quanto il racconto è stato ritenuto credibile (salvo che per la non autenticità della documentazione prodotta in merito alla denuncia sporta nei suoi riguardi) ma non integrante i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o umanitaria.

3. La terza censura è inammissibile.

Quanto alla violazione del dovere di cooperazione istruttoria del giudice, vero che nella materia in oggetto il giudice abbia il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti (Cass. 13 dicembre 2016, n. 25534). Inoltre, si è ulteriormente chiarito (Cass. 27593/2018) che “in tema di protezione internazionale, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati”, cosicchè “la valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate” (cfr. anche (Cass. 27503/2018 e Cass. 29358/2018).

In sostanza, l’attenuazione del principio dispositivo in cui la cooperazione istruttoria consiste si colloca non sul versante dell’allegazione, ma esclusivamente su quello della prova, dovendo, anzi, l’allegazione essere adeguatamente circostanziata, cosicchè solo quando colui che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, ed in quali limiti, nel Paese straniero di origine dell’istante si registrino i fenomeni tali da giustificare l’accoglimento della domanda (Cass. 17069/2018).

Sempre in tema (Cass. 29358/2018), una volta assolto l’onere di allegazione, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, e quindi di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari, è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente.

Nella specie, il Tribunale ha attivato il dovere di cooperazione istruttoria, indicando le fonti informative consultate.

Nel ricorso, non si spiegano le ragioni per le quali, nello specifico, sussisterebbero i presupposti per il riconoscimento della tutela in favore del ricorrente, limitandosi il racconto a riferire di scontri nel paese (il Bangladesh) tra due partiti, senza alcun riferimento alla situazione personale del richiedente.

Nonostante la formale denuncia della violazione di legge, parte ricorrente mira, insomma, del tutto inammissibilmente, a confutare le valutazioni di merito operate dalla Corte distrettuale, tra le quali quella relativa alla sua inattendibilità, tenuto conto che il riconoscimento della protezione sussidiaria, cui il motivo sostanzialmente si riferisce, presuppone che il richiedente rappresenti una condizione, che, pur derivante dalla situazione generale del paese, sia, comunque, a lui

riferibile e sia caratterizzata da una personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

4. Anche il quarto motivo risulta inammissibile.

Questa Corte ha di recente chiarito (Cass. 4455/2018) che “in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza”.

Il diritto alla protezione umanitaria è in ogni caso collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.l. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicchè essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio: non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio: i seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al cit. D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

In conclusione, la sproporzione tra i due contesti di vita non possiede di per sè alcun rilievo, salvo emerga che essa ha determinato specifiche ricadute individuali, distinte da quelle destinate a prodursi sulla generalità delle persone provenienti dal medesimo ambito territoriale.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recenti sentenze nn. 29459 e 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria “.In definitiva, il carattere “aperto” dei motivi di accoglienza tutelati con la protezione umanitaria non fa venir meno la necessità dell’effettivo riscontro di una situazione di vulnerabilità che non può non partire dalla situazione del Paese di origine del richiedente, correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza.

Nella specie, il Tribunale ha escluso che, nella zona di provenienza del richiedente, sussistono situazioni di deprivazione dei diritti umani fondamentali. Nessuna ulteriore situazione di vulnerabilità, allegata e non considerata dal Tribunale, risulta dedotta in ricorso, essendosi lo stesso limitato a riferire di una situazione personale di povertà ed il processo di integrazione avviato in Italia.

5. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2021

 

 

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