Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3801 del 14/02/2020

Cassazione civile sez. I, 14/02/2020, (ud. 14/01/2020, dep. 14/02/2020), n.3801

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9125/2019 proposto da:

A.K., elettivamente domiciliato presso lo studio

dell’Avv. Luca Froldi, che lo rappresenta e difende giusta procura

speciale alle liti in calce al ricorso per cassazione.

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1740/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

pubblicata in data 14/08/2018.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. A.K., cittadino nato il (OMISSIS), ha formulato domanda di protezione internazionale alla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma 2, sezione di Ancona, che veniva rigettata con provvedimento notificato il 23 dicembre 2016.

2. Il richiedente ha narrato di avere conosciuto una ragazza, che aveva rifiutato di abortire e che lo aveva chiamato dicendogli di fuggire perchè i genitori di lei, ai quali la ragazza si sarebbe rivolta per chiedere aiuto, lo volevano uccidere in quanto, essendo lui cristiano e lei musulmano, avrebbero commesso un fatto abominevole; che la madre e la sorella erano state aggredite da alcune persone di origine musulmana e poi erano morte; che lui si sarebbe rifugiato presso un’amica della madre, ma si era accorto di essere seguito per cui era scappato a Lagos e successivamente aveva lasciato la Nigeria.

3. Il Tribunale di Ancona, adito con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., non riconosceva la chiesta protezione internazionale nelle forme della protezione sussidiaria e la protezione umanitaria e, con ordinanza del 21 settembre 2017, confermava il provvedimento di diniego della Commissione.

4. Avverso tale provvedimento A.K. proponeva appello denunciando carenza di istruttoria e violazioni di legge e la Corte di appello di Ancona, con sentenza emessa il 14 agosto 2018, rigettava l’appello negando la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione internazionale, sia essa sussidiaria, che umanitaria.

5. A.K. ricorre in cassazione con due motivi.

6. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese ed è intervenuta nel giudizio ai soli fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo A.K. lamenta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, esponendo che era stata omessa ogni contestazione nei confronti del ricorrente e che non gli era stato chiesto alcun chiarimento, nè erano state approfondite le dichiarazioni dal medesimo rese in sede di audizione davanti alla Commissione territoriale competente e che, pertanto, la decisione della Corte di appello di Ancona si era fondata esclusivamente sui verbali di audizione della Commissione territoriale di Ancona e sulle argomentazioni del procuratore del giudizio di primo grado.

Ad avviso del ricorrente il Giudice aveva omesso di verificare la veridicità dei fatti e la corrispondenza tra quanto detto in sede di audizione dinanzi alla Commissione territoriale e nel ricorso di primo grado ascoltando il richiedente, che non era stato messo nella condizione di fornire in maniera chiara ed esaustiva le proprie argomentazioni, deduzioni e mezzi probatori.

1.1 Il motivo è inammissibile.

Come si evince dalla lettura della sentenza, la Corte territoriale ha affermato che la vicenda narrata dal richiedente e le motivazioni che lo avevano indotto a lasciare il Paese d’origine erano essenzialmente di natura privata, senza che fosse stato concretamente dimostrato che fosse stata richiesta una protezione alle Autorità nigeriane e che la stessa fosse stata rifiutata, circostanza questa valutata unitamente al fatto (acclarato da una fonte internazionale) che il centro ove sarebbe avvenuta l’uccisione della madre o della sorella del richiedente (Uromi nell’Edo State) era caratterizzato dalla presenza di cristiani che costituivano la maggior parte della popolazione e che vivevano pacificamente.

Tale elemento, hanno precisato i giudici di secondo grado, si rifletteva sulla complessiva attendibilità del racconto, così come la circostanza che egli fosse privo di documenti senza che potesse trovare giustificazione nelle circostanze del suo allontanamento dalla Nigeria. I giudici di secondo grado hanno, quindi, compiuto un accertamento in fatto, non più censurabile in sede di legittimità, in esito al quale hanno ritenuto inattendibile la narrazione del richiedente, elemento questo di fondamentale importanza, poichè secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione “In materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5” (Cass., 12 giugno 2019, n. 15794).

Con la conseguenza che l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e con l’ulteriore corollario che il giudice deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate.

Ciò nel rispetto dei principi affermati da questa stessa Corte sull’onere della prova in materia di protezione internazionale, materia che non si sottrae al principio dispositivo, pur nei limiti esposti in relazione al principio della cooperazione istruttoria del giudice, principio quest’ultimo che concerne il versante dell’allegazione e non quello della prova (Cass., 29 ottobre 2018, n. 27336).

Non si può, quindi, dire omessa alcuna attività da parte del giudice di merito in quanto non è stato indicato il contenuto delle allegazioni da verificare, quand’anche in via ufficiosa.

Il ricorrente lamenta semplicemente la mancata audizione del richiedente asilo nel corso del giudizio di merito e il conseguente onere di verifica giudiziale ufficioso, senza precisare gli elementi che il giudice avrebbe dovuto riscontrare.

2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

In particolare il ricorrente ritiene che, contrariamente a quanto affermato dai giudici di secondo grado, doveva tenersi in considerazione la situazione di instabilità dell’intero Paese, anche per quanti provenivano da una regione del Sud e che la vicenda del richiedente non poteva essere ricondotta ad una mera vicenda privata, ma una vicenda che lo riguardava in quanto di religione cristiana, fatto che, vista la situazione nigeriana, lo esponeva di per sè a gravi pericoli.

2.1 Il motivo è inammissibile.

Il richiedente, infatti, non coglie l’autonoma ratio decidendi posta a fondamento del rigetto della domanda di protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. b), costituita dalla inattendibilità del racconto, ostativa alla configurabilità di una minaccia individuale alla vita o alla persona in relazione alla vicenda prospettata dal richiedente.

I giudici di secondo grado, infatti, hanno evidenziato che il richiedente proviene da uno Stato dove abitano per la maggioranza cristiani che vivono in modo pacifico, con ciò escludendo che l’area di provenienza del richiedente (Edo State) fosse interessata da una situazione di violenza generalizzata di tale gravità e diffusione da mettere a repentaglio l’esistenza ed incolumità della persona.

I giudici di merito hanno esaminato la fattispecie, concludendo nel senso che la vicenda di contrasto narrata dal richiedente atteneva in sostanza alla sfera privata e familiare, dal momento che nessun motivo di reale contrasto persecutorio derivava in capo al medesimo dalla sua appartenenza alla religione cristiana.

A fronte di tale accertamento, le circostanze indicate dal ricorrente, non risultano decisive in quanto non vengono dedotte situazioni di violenza idonee ad integrare il presupposto previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Il ricorrente, infatti, si limita a richiamare la giurisprudenza di merito, asserendo che è da tempo orientata a riconoscere tale forma di protezione ai cittadini nigeriani in virtù della situazione di instabilità del Paese, anche per quanti provengono dalle regioni meridionali.

Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass., 2 ottobre 2019, n. 24647).

Ciò in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave, potendo l’esistenza di un conflitto armato interno portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. c), della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia Europea (Corte di Giustizia, causa C-285/12, Diakitè, sentenza 30 gennaio 2014 e causa C-465/07, Elgafaji, sentenza 17 febbraio 2009).

Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Cass., 13 agosto 2018, n. 20721).

3. Il ricorso va, conclusivamente, dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese per la mancata attività difensiva da parte dell’Amministrazione intimata.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2020

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