Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3798 del 17/02/2010

Cassazione civile sez. I, 17/02/2010, (ud. 17/12/2009, dep. 17/02/2010), n.3798

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. SALVATO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

V.G. – domiciliata ex lege in ROMA, presso la

Cancelleria della Corte di cassazione, rappresentata e difesa

dall’avv. Alfonso Luigi Marra, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero della giustizia, in persona del Ministro pro-tempore;

– intimato –

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma depositato il

2.9.2006;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del

17 dicembre 2009 dal Consigliere dott. Luigi Salvato;

P.M., S.P.G. Dr. Sgroi Carmelo, che ha depositato conclusioni

scritte.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

V.G. adiva la Corte d’appello di Roma, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio promosso innanzi al Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del lavoro, avente ad oggetto il riconoscimento dell’adeguamento del sussidio di disoccupazione per L.S.U., proposto con ricorso del 18 giugno 2001, deciso con sentenza del 21 marzo 2002, appellata con ricorso del 18 giugno 2002, non ancora deciso.

La Corte d’appello di Roma, con decreto del 2.9.2006, fissata la durata ragionevole del giudizio in 2 anni e 6 mesi per il primo grado e due anni per l’appello, riteneva violato il relativo termine per anni uno e liquidava per il danno non patrimoniale la complessiva somma di Euro 800,00, condannando altresì il Ministero della giustizia a pagare le spese del giudizio.

Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso V. G., affidato a tredici motivi; non ha svolto attività difensiva il Ministero della giustizia.

Ritenute sussistenti le condizioni per la decisione in camera di consiglio è stata redatta relazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comunicata al Pubblico Ministero e notificata alla ricorrente.

Il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- La relazione sopra richiamata ha il seguente tenore:

“1.- Con i primi otto motivi è denunciata erronea e falsa applicazione di legge (L. n. 89 del 2001, art. 2, e art. 6, p. 1 CEDU), in relazione al rapporto tra norme nazionali e la CEDU, nonchè della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e di questa Corte ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, omessa decisione di domande (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; artt. 112 e 132 c.p.c.) e, in sintesi, sono poste le seguenti questioni:

a) relative alla efficacia della CEDU nell’ordinamento interno ed all’efficacia vincolante per il giudice nazionale della giurisprudenza della Corte EDU (sostanzialmente riproposta in tutti i motivi, richiamando sentenze della Corte Europea e di questa Corte;

in tutti i motivi è anche reiterata la tesi della vincolatività del parametro temporale e di liquidazione del danno stabiliti dalla Corte EDU; nel primo riassuntivamente, in buona sostanza, sono indicati gli argomenti poi ribaditi negli altri mezzi) ed è formulato il seguente quesito la L. n. 89 del 2001 e specificamente l’art. 2 costituisce applicazione dell’art. 6 par. 1 CEDU e in ipotesi di contrasto tra la legge Pinto e la CEDU, ovvero di lacuna della legge nazionale si deve disapplicare la legge nazionale ed applicare la CEDU? (primo motivo);

b) Questioni relative alla durata ed al periodo di tempo di riferimento per la liquidazione del risarcimento (peraltro, nonostante la formulazione di specifici quesiti in ordine a questi profili, sono svolti su di essi argomenti anche nei motivi sintetizzati sub c), poichè il ricorso ribadisce e reitera le stesse questioni, svolgendole senza darsi cura di rispettare la coerenza tra indicazione della rubrica e contenuto del motivo).

L’istante deduce che il parametro di durata ragionevole del giudizio, fissato dalla giurisprudenza in tre anni per il primo grado, due anni per il secondo ed un anno per la fase di legittimità, non sarebbe applicabile al processo del lavoro e previdenziale, in considerazione della disciplina che lo caratterizza e sono, quindi, formulati i seguenti quesiti di diritto: è corretto determinare (…) la durata ragionevole del processo in anni due per il primo grado e in un anno e mezzo per il giudizio di appello, ovvero qual è la durata ragionevole de presente processo? (secondo motivo); richiamando alcune sentenze della Corte EDU e ribadendo il vincolo derivante dalla CEDU, una volta accertato il diritto all’equo indennizzo lo stesso va liquidato per l’intera durata del processo (come sancito dalla giurisprudenza di Strasburgo) ovvero solo per il periodo eccedente tale durata (come previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, n. 3, lett. a) (terzo motivo) e una volta accertato il diritto all’equo indennizzo lo stesso va liquidato nella misura annua di Euro 1.000,00-1.500,00 (quarto motivo) ed il decreto sarebbe carente nella motivazione in ordine a questo profilo ed alla mancata osservanza del parametro della Corte EDU, che liquida una somma oscillante tra Euro 1.500,00 ed Euro 1.000,00 per ogni anno del giudizio (quinto motivo);

c) Questioni concernenti la quantificazione del danno (anche dette questioni, benchè oggetto dei quesiti qui in esame sono accennate anche nei motivi sintetizzati supra, poichè il ricorso ribadisce e reitera le stesse questioni).

Secondo l’istante, nelle cause aventi ad oggetto la materia previdenziale dovrebbe essere liquidato un bonus di Euro 2.000,00 (sono richiamate alcune sentenze della Corte EDU), ed è formulato il seguente quesito spetta un’ulteriore somma rationae materiae (bonus di Euro 2.000,00) trattandosi di materia previdenziale come stabilito dalla CEDU, o comunque l’equo indennizzo per tali materie va calcolato in misura maggiore? (sesto motivo) e su questa domanda la Corte d’appello non si è pronunciata (settimo motivo), incorrendo in difetto di motivazione (ottavo motivo) (peraltro in questo mezzo, incongruamente rispetto alla rubrica è dedotto anche il difetto di motivazione sulla liquidazione delle spese del giudizio, che costituisce oggetto dei motivi sintetizzati nel che segue).

1.1.- I motivi dal nono al tredicesimo denunciano violazione dell’art. 6, p. 1 CEDU e dell’art. 1 del protocollo addizionale, della L. n. 89 del 2001, art. 2, degli artt. 91, 92, 112 e 132 c.p.c., delle tariffe professionali, nonchè difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5, artt. 112 e 132 c.p.c.), nella parte concernente la liquidazione delle spese del giudizio e, in sintesi, sono poste le seguenti questioni:

a) la liquidazione delle spese – nonchè la decurtazione della nota spese, operata in difetto di motivazione – incide sul diritto della parte e dell’avvocato e le stesse devono essere poste a carico del soccombente, specie nel giudizio nel quale vi è una parte debole (sono richiamate alcune sentenze della Corte EDU) ed è formulato il seguente quesito di diritto è legittimo, con riferimento alla fattispecie che ci occupa, un accoglimento della domanda con liquidazione di spese insufficiente o parziale compensazione delle spese, anche in considerazione dell’art. 1 prot. add CEDU direttamente applicabile al caso di specie? (motivo 9);

b) nella specie dovrebbe aversi riguardo alle tariffe per il giudizio innanzi alla Corte EDU e, comunque, non alla tariffa concernente i procedimenti di volontaria giurisdizione, poichè questa Corte, in alcune sentenze (richiamate) avrebbe escluso che quello in esame sia riconducibile a detta categoria di procedimenti, con conseguente applicabilità della tabella B 1 per i diritti e della tabella A 3 per gli onorari ed è formulato il seguente quesito di diritto alla fattispecie concreta e con riguardo alle spese di lite, premesso che trattasi di un procedimento ordinario contenzioso (e non di V.G.) vanno applicate le tariffe professionali per i procedimenti ordinari contenziosi (e non quelli di volontaria giurisdizione)? (motivo 10) ed il decreto sarebbe, comunque carente di motivazione sul capo della liquidazione delle spese (motivo 11); inoltre, il giudice del merito avrebbe errato nel liquidare le spese ed è formulato il seguente quesito può il giudice, nel liquidare le spese ed in presenza di nota spese specifica, disattendere la stessa liquidando spese, diritti ed onorari inferiori a quelli richiesti e comunque escludere o ridurre alcune delle voci tariffarie indicate nella nota spese? (motivo 12) e sul punto è denunciato anche difetto di motivazione riportando nel ricorso (motivo 13).

2.- I motivi indicati nel p. 1, da esaminare congiuntamente, perchè giuridicamente e logicamente connessi, sono in parte manifestamente infondati, in parte manifestamente inammissibili.

In linea preliminare, va peraltro evidenziata la manifesta inammissibilità delle argomentazioni (e dei corrispondenti profili dei quesiti) incongrue, non correlate alla ratio decidendi del decreto, che ha in parte accolto la domanda. Analoga conclusione si impone in ordine alle deduzioni che si risolvono in generiche affermazioni sulla diretta applicabilità delle sentenze della Corte di Strasburgo, ovvero sulla congruità della L. n. 89 del 2001, formulate in modo del tutto inconferente e scollegato con la motivazione del decreto.

Ancora preliminarmente, va premesso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il quesito di diritto richiesto dall’art. 366-bis c.p.c., è inadeguato, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso, quando non sia conferente rispetto alla questione che rileva per la decisione della controversia, quale emerge dall’esposizione del motivo (Cass. S.U. n. 8466 del 2008; n. 11650 del 2008); quando si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame (Cass. S.U. n. 6420 del 2008); quando non abbia attinenza nè col giudizio nè col motivo formulato, ma introduca un tema nuovo ed estraneo (Cass. n. 15949 del 2007); quando la sua formulazione non sia precisa, ma si concreti in quesiti multipli o cumulativi (Cass. n. 5471 del 2008; n. 1906 del 2008), logicamente e giuridicamente contraddittori. Posta questa premessa, si osserva:

a) relativamente alle questione sub a), ammissibile e rilevante per l’incidenza su quelle ulteriori, va ribadito il principio enunciato dalle S.U., in virtù del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretare detta legge in modo conforme alla CEDI) per come essa vive nella giurisprudenza della Corte Europea. Siffatto dovere opera, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001 (sentenza n. 1338 del 2004). In termini analoghi è il principio enunciato dalla Corte costituzionale, che, contrariamente all’assunto dell’istante, che si palesa perciò manifestamente erroneo, ha affermato che al giudice nazionale spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1, (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).

Resta dunque escluso che, in caso di contrasto, possa procedersi alla non applicazione della norma interna, in virtù di un principio concernente soltanto il caso del contrasto tra norma interna e norma comunitaria.

In questi termini è il principio che può essere enunciato in relazione al quesito posto con il primo motivo, che rivela la manifesta infondatezza della censura, nei termini in cui è stata proposta.

b) In ordine alle questioni sintetizzate sub b), è manifestamente erronea la tesi dell’istante, nella parte in cui prospetta la possibilità di stabilire un termine di durata del giudizio rigido e predeterminato, identificato nella specie, con argomentazioni talora anche scarsamente chiare, in quello sopra indicato. La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, dispone, infatti, che la ragionevole durata di un processo va verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri stabiliti da detta norma la quale, stabilendo che il giudice deve accertare la esistenza della violazione considerando la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, impone di avere riguardo alla specificità del caso che egli è chiamato a valutare. La violazione del principio della ragionevole durata del processo va dunque accertata all’esito di una valutazione degli elementi previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (ex plurimis, Cass. n. 8497 del 2008; n. 25008 del 2005; n. 21391 del 2005; n. 1094 del 2005; n. 6856 del 2004; n. 4207 del 2004).

In tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo alla quale occorre avere riguardo (tra le molte, sentenza 1^ sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98) e che ha stabilito un parametro tendenziale che fissa la durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, in anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità.

Ed è questo parametro che va osservato, dal quale è tuttavia possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, di detta legge permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez.un., n. 1338 del 2004; in seguito, cfr. le sentenze sopra richiamate).

Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, secondo l’orientamento espresso da questa Corte, al quale va data continuità, la precettività, per il giudice nazionale, non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore di detta base di calcolo:

mentre, infatti, per la CEDU l’importo assunto a base del computo in riferimento ad un anno va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante la L. n. 89 del 2001,art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, non incidendo questa diversità di calcolo sulla complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (Cass. n. 11566 del 2008; n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007).

In questi termini è il principio che può essere enunciato in relazione ai quesiti posti con il terzo e con il quarto motivo (in relazione a quest’ultimo, nella parte in cui prospetta che il parametro quantitativo va moltiplicato per tutti gli anni di durata del giudizio).

In applicazione di detti principi sono manifestamente infondate le censure concernenti la fissazione della durata ragionevole.

La Corte d’appello ha dimostrato di avere contezza del parametro della Corte EDU, al quale ha prestato osservanza, attestandosi su parametri anche inferiori (ha ritenuto termine ragionevole del giudizio di primo grado quello di anni due e mesi sei; quello di appello è stato fissato, in coerenza con le indicazioni del giudice Europeo, in anni due). Le censure sono svolte in modo astratto, scollegate dalla specificità del caso concreto, evocando un parametro diverso, collegato al tipo di processo, con tesi errata, per quanto sopra esposto. Inoltre, benchè i decreto, nella motivazione, abbia fatto riferimento agli elementi della L. n. 89 del 2001, art. 2, precisando che non sono stati addotti dal ricorrente specifici elementi, per disattendere il parametro applicato (che, come si è detto, è sostanzialmente quello della Corte EDU) l’istante neppure in questa fase ha indicato quali fossero detti elementi, indicandoli e deducendo di averli prospettati al giudice del merito.

Infine, il quesito formulato nel secondo motivo è manifestamente inammissibile, sia in quanto sviluppato senza alcun riferimento concreto alla fattispecie in esame, sia in quanto pretende di rimettere a questa Corte l’accertamento della durata ragionevole nel caso in esame. L’apprezzamento degli elementi che permettono di fissare la misura ragionevole del giudizio è riservata infatti al giudice del merito, spettando invece a questa Corte la verifica in ordine al rispetto del parametro stabilito dalla Corte EDU ed alla completezza, logicità e congruenza della motivazione svolta dal giudice del merito per discostarsene.

I principi enunciati rivelano, inoltre, la manifesta infondatezza delle censure concernenti tutti gli ulteriori profili.

c) Relativamente alla quantificazione del danno, vanno qui ribaditi i seguenti principi, ormai consolidati nella giurisprudenza di questa Corte:

il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e va ritenuto sussistente, senza bisogno di specifica prova (diretta o presuntiva), in ragione dell’obiettivo riscontro di detta violazione, sempre che non ricorrano circostanze particolari che ne evidenzino l’assenza nel caso concreto (Cass. S.U. n. 1338 e n. 1339 del 2004; successivamente, per tutte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 23844 del 2007);

i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte Europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, che deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo che ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno il parametro per la quantificazione dell’indennizzo.

Resta invece escluso che le norme disciplinatrici della fattispecie permettano di riconoscere – come ha invece sostenuto l’istante – una ulteriore somma a titolo di bonus, arbitrariamente indicata in una data entità, svincolata da qualsiasi parametro e dovuta in considerazione dell’oggetto e della natura della controversia.

Infatti, come ha chiarito questa Corte, i giudici Europei hanno affermato che il bonus in questione deve essere riconosciuto nel caso in cui la controversia riveste una certa importanza ed ha quindi fatto un elenco esemplificativo, comprendente le cause di lavoro e previdenziali. Tuttavia, ciò non implica alcun automatismo, ma significa soltanto che dette cause, in considerazione della loro natura, è probabile che siano di una certa importanza (Cass. n. 18012 del 2008). Siffatta valutazione rientra nella ponderazione del giudice del merito che deve rispettare il parametro sopra indicato, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della posta in gioco, il numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass. n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006; n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006).

Il giudice del merito può, quindi, attribuire una somma maggiore – anche il succitato bonus – qualora riconosca la causa di particolare rilevanza per la parte, senza che ciò comporti uno specifico obbligo di motivazione, da ritenersi compreso nella liquidazione del danno, sicchè se il giudice non si pronuncia sul cd. bonus, ciò sta a significare che non ha ritenuto la controversia di tale rilevanza da riconoscerlo (Cass. n. 18012 del 2008); il danno non patrimoniale deve dunque essere quantificato in applicazione di detto parametro, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della posta in gioco, il numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass., n. 1630 de 2006; n. 1631 de 2006; n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 1630 del 2006; n. 163 1 de 2006).

In questi termini sono i principi che possono essere enunciati in relazione ai motivi quinto (in parte qua), sesto ed ottavo ed a quelli riferibili alla quantificazione del danno, anche alla luce del parametro della Corte EDU. In questi termini è il principio che può essere enunciato in relazione al quesito posto con il quarto motivo (nella parte relativa alla quantificazione del risarcimento), sesto e settimo. Siffatti principi sono stati correttamente osservati dal decreto che, per un ritardo di un anno, ha liquidato la somma di Euro 800,00, discostandosi in misura ragionevole (in quanto contenuta in 1/3) dal parametro della Corte EDU, e cioè ha fatto svolgendo una specifica motivazione. Infatti, ha dato conto, da un canto, che i danno non patrimoniale non poteva essere escluso, nonostante la modestia della controversia, perchè coinvolgeva interessi non secondari per la parte ricorrente, dall’altro, ha valorizzato quest’ultimo dato e la circostanza che la controversia aveva ad oggetto una somma di Euro 1.400,00, al solo fine di giustificare la quantificazione in concreto, per apprezzare l’effettiva incidenza della protrazione del giudizio sull’istante.

Siffatta motivazione non è attinta da censure specifiche, poichè la V. si diffonde in deduzioni astratte che non tengono conto della sostanziale osservanza prestata dal giudice del merito al parametro di cui ella pure invoca reiteratamente l’applicazione e non indica quali elementi, concreti e specifici – riferiti alla situazione economico-patrimoniale di essa istante – ha dedotto per dimostrare l’incidenza della controversia in una misura tale da rendere irragionevole la liquidazione operata nel decreto.

2.1.- I motivi indicati nel 1.1, da esaminare congiuntamente, perchè giuridicamente e logicamente connessi, sono in parte manifestamente infondati, in parte manifestamente inammissibili.

In linea preliminare, va evidenziata la manifesta inammissibilità delle censure (e dei corrispondenti profili dei quesiti) incongrue, in quanto non correlate alla ratio decidendi del decreto e che in nessun modo tengono conto della fattispecie, risolvendosi in argomentazioni astratte e prive di pertinenza con il caso di specie, con vizio che si riverbera anche sul quesito di diritto e sull’ammissibilità del motivo in relazione al quale è formulato.

Tanto va rilevato in relazione ai motivi: nono, laddove si fa riferimento ai presupposti della compensazione, nella specie non disposta; alla deduzione che la Corte territoriale avrebbe applicato la tariffa per i procedimenti di volontaria giurisdizione, mancando ogni accenno al riguardo; alla astratta deduzione in ordine alla ammissibilità della riduzione delle spese dedotte nella nota, svincolate da ogni riferimento al caso di specie.

Il quesito che conclude il motivo 12 è, poi, manifestamente inammissibile, siccome non è coordinato con gli argomenti svolti nel mezzo e si conclude con una domanda astratta, insuscettibile di trovare applicazione nel caso di specie. Peraltro, è palese che la specifica depositata dal difensore non ha affatto efficacia vincolante, potendo il giudice del merito eliminare e ridurre le voci che non corrispondono a quelle previste dalla tariffa. Posta questa premessa, le questioni poste vanno risolte facendo applicazione dei seguenti principi, già enunciati da questa Corte:

la L. n. 89 del 2001 non reca nessuna specifica norma in ordine al regime delle spese all’esito dello svolgimento del processo camerale di cui agli artt. 3 e 4 e, in virtù del richiamo ivi effettuato, si applicano sul punto le norme del codice di rito, avendo anche il legislatore dimostrato attenzione a questo profilo, esonerando il ricorrente dal contributo unificato (L. n. 89 del 2001, art. 5-bis.

e, successivamente, D.Lgs. n. 115 del 2002, artt. 10 e 265,) (Cass. n. 23789 del 2004);

le disposizioni degli artt. 91 e segg. c.p.c. in tema di spese processuali trovano applicazione, in linea generale, nel procedimento camerale nel caso in cui questo statuisca su posizioni soggettive in contrasto, come accade nella specie, senza che nessun ostacolo all’applicazione di detta normativa provenga dalla Convenzione CEDU, ovvero dal Protocollo aggiuntivo (Cass. n. 12021 del 2004), restando esclusa l’applicazione analogica delle disposizioni sulle spese vigenti per i procedimenti innanzi alla Corte di Strasburgo (Cass. n. 1078 del 2003); dalla CEDU non discende un obbligo, a carico del legislatore nazionale, di conformare il processo per l’equa riparazione da irragionevole durata negli stessi termini previsti, quanto alle spese, per il procedimento dinanzi agli organi istituiti in attuazione della Convenzione, dovendosi escludere che l’assoggettamento del procedimento alle regole generali nazionali, e quindi al principio della soccombenza, possa integrare un’attività dello Stato che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti dalla Convenzione o ad imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione (Cass. n. 18204 del 2003);

la configurazione del procedimento disciplinato dalla L. n. 89 del 2001 quale procedimento contenzioso comporta l’applicabilità della Tab. A-4 e della Tab. B-1.

Inoltre, va ricordato che, secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, la parte che censura in sede di legittimità la liquidazione delle spese processuali è tenuta ad indicare in modo specifico ed autosufficiente quali siano le voci della tabella forense non applicate dal giudice del merito, elencando in dettaglio le prestazioni effettuate, per voci ed importi, così consentendo al giudice di legittimità il controllo di tale error in iudicando, pena l’inammissibilità del ricorso (Cass. n. 17059 del 2007; n. 8160 del 2001), senza bisogno di svolgere ulteriori indagini in fatto e di procedere alla diretta consultazione degli atti (Cass. n. 3651 del 2007; n. 2626 del 2004). La doglianza richiede, inoltre, che dall’erronea applicazione delle voci della tariffa applicata sia conseguita la lesione del principio dell’inderogabilità ed il ricorrente non può, dunque, limitarsi alla generica denuncia dell’avvenuta violazione del principio di inderogabilità della tariffa professionale o del mancato riconoscimento di spese che si asserisce essere state documentate, in quanto, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, tenuto conto della natura del vizio, devono essere specificati gli errori commessi dal giudice e precisate le voci di tabella degli onorari, dei diritti di procuratore che si ritengono violate, nonchè le singole spese asseritamente non riconosciute (Cass. n. 14744 del 2007; n. 9082 del 2006; n. 13417 del 2001).

Nella specie siffatto onere non risulta adempiuto, posto che il ricorrente ha dedotto che il decreto avrebbe erroneamente individuato le voci della tariffa forense applicabili, omettendo del tutto di indicare che ciò avrebbe comportato la violazione del principio di inderogabilità, tenendo conto che – perchè la censura fosse ammissibile – ciò avrebbe dovuto fare procedendo sia alla specifica indicazione dell’attività svolta (in punto di numero di udienze in CC alle quali ha partecipato, di atti depositati) sia alla trascrizione delle singole voci per le quali ciò sarebbe accaduto (con specifica indicazione per ciascuna di esse della corrispondente voce della tariffa ritenuta applicabile e non, come è accaduto, mediante la mera trascrizione nel ricorso di una specifica, che, così come riportata, risulta anche essere una trascrizione della tariffa, posto che sono elencati addirittura tutti gli scaglioni, sicchè manca, all’evidenza, anche l’indicazione di quale, secondo l’istante era lo scaglione applicabile), nell’osservanza del principio sopra indicato, con conseguente inammissibilità delle censure.

3.- Pertanto, il ricorso, stante la manifesta infondatezza, può essere trattato in camera di consiglio ricorrendone i presupposti di legge”.

2.- Il Collegio reputa di dovere fare proprie le conclusioni contenute nella relazione, condividendo le argomentazioni che le fondano, in quanto danno applicazioni a principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, pure indicata nella relazione, con conseguente rigetto del ricorso.

Non deve essere resa pronuncia sulle spese di questa fase, non avendo l’intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2010

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