Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3773 del 12/02/2021

Cassazione civile sez. VI, 12/02/2021, (ud. 02/12/2020, dep. 12/02/2021), n.3773

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10054-2020 proposto da:

O.E., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso

la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato DAVIDE VERLATO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 3550/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 09/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 02/12/2020 dal Consigliere Relatore Dott. UMBERTO

LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA e RAGIONI DELLA DECISIONE

La Corte, rilevato che:

con ordinanza del 27/12/2017 il Tribunale di Venezia ha respinto la domanda di protezione internazionale ed umanitaria proposta da O.E., cittadino della Nigeria;

il richiedente, di religione cristiana ed etnia (OMISSIS), proveniente da (OMISSIS) in Delta State, aveva riferito di aver lasciato la Nigeria a causa dell’accusa di favoreggiamento dell’omosessualità; di aver conosciuto mentre alla ricerca di un nuovo lavoro un tale G., da cui si era recato insieme all’amico L.; G. aveva proposto loro un lavoro a patto di avere un rapporto sessuale con lui; che lui non aveva accettato a differenza di L., che però non aveva ottenuto il lavoro promesso, che ne era insorta una lite, con intervento della polizia che aveva arrestato entrambi; di essere stato accusato dalla famiglia dell’amico e poi ricercato dalla polizia e dal fratello di L., tale F., affiliato alla pericolosa banda (OMISSIS); di aver pertanto deciso di fuggire;

con sentenza del 9/9/2019 la Corte di appello di Venezia ha rigettato l’appello proposto dall’ O. con aggravio delle spese del grado;

avverso la predetta sentenza con atto notificato il 3/3/2020 ha proposto ricorso per cassazione O.E., svolgendo due motivi;

l’Amministrazione intimata ha depositato memoria 4/5/2020 al solo fine di prender parte all’eventuale discussione orale;

è stata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., la trattazione in camera di consiglio non partecipata;

ritenuto preliminarmente che il ricorrente assuma impropriamente che la sentenza 9/9/2019 impugnata sia stata “notificata” al difensore in grado di appello “in pari data” per riferirsi alla comunicazione ad opera della cancelleria, come dimostra il contestuale riferimento al termine lungo per l’impugnazione ex art. 327 c.p.c., e la prodotta relata di notifica a mezzo p.e.c..

Diritto

RITENUTO

che:

la preliminare esposizione, non ordinata e non articolata, nè rapportata a specifici mezzi di ricorso in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., di una serie di recriminazioni rivolte alla sentenza impugnata nelle pagine da 2 a 11 (non numerate) del ricorso si sovrappone, pressochè integralmente, ai due articolati mezzi di ricorso di cui alle pagine 12 e 13;

con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione alla domanda di protezione umanitaria e ai principi relativi all’onere della prova in materia di protezione internazionale e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, relativi all’esame del richiedente asilo e alla valutazione del materiale istruttorio utilizzabile, comprese le informazioni da acquisire d’ufficio per integrare gli elementi istruttori offerti dal richiedente D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 27, comma 1 bis;

il ricorrente aggiunge che la valutazione di non credibilità del racconto del richiedente non era stata ancorata a elementi di carattere oggettivo, relativi alla situazione del Paese di origine, che non era stata acquisita alcuna aggiornata informazione circa la situazione generale dello Stato del richiedente ai fini anche della valutazione circa la sua personale vulnerabilità e che non era stata effettuata alcuna indagine circa le forme di violenza e persecuzione in atto nel Paese con particolare riferimento alle condizioni degli omosessuali, gravemente discriminati;

secondo il ricorrente, la valutazione negativa circa la credibilità del racconto del richiedente asilo non produceva conseguenze ai fini della domanda di protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c), e della domanda di protezione umanitaria e la decisione impugnata era illegittima non avendo tenuto conto di tale criterio, non avendo valutato la situazione generale dello Stato di provenienza, anche sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali della persona;

la compressione e limitazione all’esercizio dei diritti umani in Nigeria era un dato di fatto oggettivo e notorio e suscettibile di prova presuntiva ex art. 115 e 116 c.p.c., tenuto conto delle autorevoli fonti informative citate anche dalla sentenza impugnata;

si sarebbero verificati pertanto difetto di istruttoria e vizio di motivazione;

il motivo, imperniato sulla violazione dell’obbligo di cooperazione istruttoria, quanto alla richiesta di protezione sussidiaria e di protezione umanitaria, appare inammissibile perchè non pertinente alla ratio decidendi della sentenza impugnata;

questa infatti, confermando il giudizio di inattendibilità del narrato espresso dal Tribunale, si è basata sulla valutazione di non credibilità intrinseca del racconto personale del richiedente asilo e in particolare della non credibilità della vicenda del suo incolpevole coinvolgimento nei contatti con l’omosessuale G. e delle conseguenze che ne sarebbero derivare in termini di accusa di favoreggiamento, posto che rispetto a questi temi le indagini sollecitate, segnatamente in ordine alle condizioni degli omosessuali in Nigeria, sarebbero state del tutto inconferenti;

la censura circa la non oggettività del giudizio di non credibilità, è espressa in termini assolutamente generici e comunque rivolti a sovvertire l’accertamento e la valutazione del fatto, insindacabili in sede di legittimità, se non per vizio motivazionale nei limiti attualmente consentiti del c.d. “minimo costituzionale” ex art. 360 c.p.c., n. 5;

la doglianza circa la omessa valutazione d’ufficio della situazione generale della Nigeria è manifestamente infondato, perchè la valutazione è stata eseguita, mentre la disciplina persecutoria dell’orientamento omosessuale non è stata ritenuta rilevante alla luce della non credibilità della vicenda personale riferita;

è pur vero, poi, che in tema di protezione internazionale sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), la valutazione di non credibilità intrinseca del narrato dal richiedente, non fa venire meno il potere-dovere del giudice di verificare anche d’ufficio D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, la sussistenza della dedotta situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato interno o internazionale, tale da determinare minaccia grave e individuale alla vita o alla persona dei civili (Sez. 1, 4/11/2020, n. 24580; Sez. 1, 28/7/2020, n. 16122; Sez. 1, 6/7/2020, n. 13940; Sez. 1, 6/7/2020, 13944; Sez. 1, 29/5/2020 n. 10286; Sez. 1, 7/2/2020, n. 2954; Sez. 1, 31/1/2019, 3016; Sez. 1, 19/4/2019 n. 11101; Sez. 1, n. 14283/2019, cit.; Sez. 3, 12/5/2020, n. 8819; Sez. 6, 28/6/2018, n. 17069);

tuttavia nella specie la Corte veneta non si è sottratta a tale adempimento e il ricorrente semplicemente dissente dai risultati dell’indagine eseguita;

analoghe considerazioni valgono anche per la richiesta di protezione umanitaria;

è vero infatti che nei procedimenti in materia di protezione internazionale, i presupposti necessari al riconoscimento della protezione umanitaria devono essere individuati autonomamente rispetto a quelli previsti per le due protezioni maggiori, non essendo tra loro sovrapponibili, ma i fatti storici posti a fondamento della positiva valutazione della condizione di vulnerabilità ben possono essere gli stessi già allegati per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o la concessione della protezione sussidiaria, spettando poi al giudice qualificare detti fatti ai fini della riconduzione all’una o all’altra forma di protezione (Sez. 3, n. 8819 del 12/05/2020, Rv. 657916 – 05) e che il giudizio di scarsa credibilità della narrazione del richiedente, relativo alla specifica situazione dedotta a sostegno di una domanda di protezione internazionale, non preclude al giudice di valutare altre circostanze che integrino una situazione di vulnerabilità ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, poichè la statuizione su questa domanda è frutto di una valutazione autonoma e non può conseguire automaticamente al rigetto di quella concernente la protezione internazionale (Sez. 1, n. 8020 del 21/04/2020, Rv. 657498 – 01); nella fattispecie tuttavia i fattori di vulnerabilità evidenziati dal ricorrente attengono, da un lato, a una vicenda personale, giudicata non credibile, e, dall’altro, alla situazione socio-politica generale della Nigeria, in dissenso rispetto alla valutazione di fatto espressa dalla Corte di appello;

parimenti del tutto riversata nel merito appare la censura relativa alla notorietà e alla prova presuntiva della violazione dei diritti umani nella zona di provenienza del richiedente, che chiede alla Corte, tra l’altro del tutto genericamente, di confrontarsi direttamente con le fonti di prova e ribaltare il giudizio sui fatti espresso dal Giudice del merito;

con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione di legge con riferimento alla richiesta di un permesso di protezione sussidiaria o per motivi umanitari, nonchè violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, in riferimento al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 4, lett. c), del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, ed infine dell’art. 8 CEDU;

secondo il ricorrente, la valutazione di non credibilità non era stata imparziale e oggettiva ed era mancato il necessario approfondimento istruttorio officioso;

inoltre la decisione sulle domande di protezione sussidiaria ed umanitaria sarebbe stata arbitraria e non corredata della necessaria indagine d’ufficio, con richiami generici a una fonte informativa risalente al 2016 e a un rapporto COI del 2018 non approfondito, in contrasto con numerosi precedenti giurisprudenziali;

non sarebbe stata poi considerata la sistematica violazione dei diritti degli omosessuali e i rischi corsi anche solo sulla base del mero sospetto di omosessualità;

infine ai fini del giudizio di vulnerabilità doveva poi essere valorizzato anche il profilo relativo all’attività lavorativa svolta in Italia;

il motivo è inammissibile;

la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni;

per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., in sede di legittimità occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (Sez. 6 – 3, n. 26769 del 23/10/2018, Rv. 650892 – 01);

la violazione dell’art. 115 c.p.c., può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi, riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre;

analogamente, la violazione dell’art. 116 c.p.c., può essere denunciata per cassazione solo quando il giudice di merito abbia disatteso il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale, e non per lamentare che lo stesso abbia male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova; detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcun piuttosto che a altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato “della valutazione delle prove” (Sez.3, 28/02/2017, n. 5009; Sez. 2, 14/03/2018, n. 6231);

la dedotta violazione dei principi dell’onere probatorio attenuato e del dovere di cooperazione istruttoria è inammissibile perchè riversata nel merito e inconferente rispetto alla ratio decidendi basata sulla non credibilità “intrinseca” del racconto della vicenda personale del richiedente, rispetto alla quale le indagini sollecitate sarebbero state del tutto inconferenti;

il rischio di esposizione a violenza indiscriminata derivante da conflitto armato interno è stato valutato dalla Corte di appello sulla base di informazioni attualizzate, debitamente citate, contestate solo genericamente e nel merito;

anche in tema di protezione umanitaria, la censura appare inammissibile poichè il motivo non affronta e non confuta la ratio con la quale la Corte di appello ha rilevato carenza in capo al richiedente di fattori di vulnerabilità soggettiva diversi da quelli connessi al racconto personale giudicato non credibile (pag. 11 della sentenza impugnata);

la situazione specifica di rischio della zona di provenienza è stata invece valutata dalla Corte con giudizio di merito rispetto al quale il ricorrente manifesta il proprio mero dissenso;

l’integrazione lavorativa del ricorrente viene invocata in modo ancora una volta inammissibilmente generico (pag. 13 del ricorso), disancorato da alcuna evidenza probatoria in fatto e per vero anche da qualsiasi specifica allegazione;

ritenuto pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, senza pronuncia sulle spese in difetto di controricorso della parte intimata.

PQM

La Corte:

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2021

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