Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3713 del 17/02/2010

Cassazione civile sez. trib., 17/02/2010, (ud. 07/01/2010, dep. 17/02/2010), n.3713

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ALTIERI Enrico – Presidente –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Ministero delle Finanze e Agenzia delle Entrate, in persona

rispettivamente de Ministro e del Direttore pro tempore,

rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

cui domiciliano in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrenti –

contro

IPLOM s.p.a., con sede in (OMISSIS), in persona del

legale

rappresentante ing. P.G., rappresentata e difesa per

procura a margine del controricorso e ricorso incidentale dagli

Avvocati VILLANI F. Ludovico e Corrado Papone, elettivamente

domiciliata presso lo studio del primo, in Roma, Via Asiago n. 8/2;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 9 della Commissione tributaria regionale della

Liguria, depositata il 24.5.2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

7.1.2010 dal consigliere relatore Dott. Mario Bertuzzi;

Viste le conclusioni del P.M. in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha chiesto

declaratoria di inammissibilità del ricorso del Ministero delle

Finanze, accoglimento del ricorso principale dell’Agenzia delle

Entrate e rigetto del ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La s.p.a. IPLOM, premesso di avere presentato in data 20.2.1985 istanza di rimborso dell’Iva per l’anno 1984 e che l’Amministrazione aveva accolto la richiesta ma provvedendo all’accredito della somma capitale soltanto il 12.6.1985, propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Genova avverso il silenzio rifiuto formatosi da parte dell’Amministrazione in ordine alla sua successiva istanza di pagamento degli interessi maturati sulla predetta somma con decorrenza dal 90 giorno successivo alla richiesta fino al di del pagamento, chiedendo anche la corresponsione degli interessi anatocistici. Il giudice di primo grado accolse il ricorso e, in sede di gravame, la Commissione tributaria regionale della Liguria, con sentenza n. 9 del 24.5.2004, riformò in parte la decisione impugnata, tenendo ferma la condanna dell’Amministrazione al pagamento degli interessi fino al momento della riscossione, ma respingendo la domanda di pagamento degli interessi anatocistici. in particolare, il giudice di appello ritenne, circa il primo punto, che gli interessi fossero dovuti fino al saldo e non fino al momento dell’ordinativo di pagamento, non essendo stato lo stesso notificato alla contribuente e, in ordine al secondo capo della domanda, che gli interessi anatocistici non erano dovuti non essendosi il ritardo protratto da almeno sei mesi, come richiesto dall’art. 1283 cod. civ., ai fini della decorrenza degli interessi sugli interessi. Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 18.5.2005, ricorrono, sulla base di un unico motivo, il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate.

La società intimata ha notificato controricorso e ricorso incidentale, affidato a tre motivi e ha successivamente depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va disposta la riunione dei due ricorsi ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., in quanto proposti nei confronti della stessa sentenza.

Sempre in via preliminare vanno quindi esaminate le eccezioni della società controricorrente di inammissibilità del ricorso principale.

La prima, che attiene alla legittimazione processuale del Ministero delle Finanze, è fondata.

Tate conclusione di impone in quanto a seguito dell’istituzione dell’Agenzia delle entrate ad opera del D.Lgs. n. 300 del 1999, divenuta operativa dal 1 gennaio 2001, si è verificata una successione a titolo particolare della stessa nei poteri e nei rapporti giuridici strumentali all’adempimento dell’obbligazione tributaria, in forza della quale spetta esclusivamente ad essa la legittimazione processuale in ordine alle relative controversie (Cass. n. 9004 del 2007; Cass. n. 22889 del 2006; Cass. S.U. n. 3118 del 2006). Per contro il Ministero delle Finanze è privo di legittimazione ad processum nè questa può ravvisarsi, nel caso concreto, in forza delle precedenti fasi processuali, tenuto conto che il giudizio di appello, promosso dopo il 1 gennaio 2001, si è svolto con la esclusiva partecipazione della Agenzia delle Entrate.

Infondata appare invece l’eccezione sollevata dalla intimata di inammissibilità del ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate a mezzo dell’Avvocatura dello Stato per difetto di espresso e specifico mandato alle liti, avendo questa Corte già chiarito, con diverse pronunce, che l’Agenzia delle Entrate può avvalersi, per la rappresentanza in giudizio, del citato D.Lgs. n. 300 del 1999, ex art. 72, del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, secondo la disciplina di cui al R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 43, senza la necessità di speciali autorizzazioni, trovando applicazione la regola generale di cui all’art. 1 della legge citata secondo cui gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni e non hanno bisogno di mandato (Cass. n. 11227 del 2007; Cass. n. 24623 del 2006; Cass. n. 12351 del 2005; Cass. n. 12152 del 2005).

Parimenti va respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso principale per violazione della L. n. 664 del 1986, art. 7, commi 3 e 4, e L. n. 383 del 2001, art. 10, comma 2, per essere stato l’atto sottoscritto come ricevente dal funzionario dell’Agenzia delle Entrate della Liguria in luogo che dall’Avvocatura distrettuale dello Stato. Sul punto è invero sufficiente rilevare che proprio la disposizione di legge da ultimo citata, in materia di rappresentanza in giudizio dell’Avvocatura dello Stato, dispone che, nel caso di trasmissione a distanza di atti giudiziari mediante mezzi di telecomunicazione, l’obbligo di sottoscrizione è soddisfatto anche con la firma del funzionario titolare dell’ufficio ricevente, oppure di un suo sostituto, “purchè dalla copia fotoriprodotta risultino l’indicazione e la sottoscrizione dell’estensore dell’atto originale” (Cass. n. 12882 del 2008), condizione questa pienamente riscontrabile nella fattispecie (pag. 7 del ricorso dell’Agenzia).

Tanto precisato in ordine alle questioni preliminari, vanno in primo luogo esaminati i primi tre motivi del ricorso incidentale, che investono questioni pregiudiziali, in grado, se ritenute fondate, di definire il giudizio.

Il primo motivo del ricorso incidentale denunzia nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 145 cod. proc. civ., censurando la decisione impugnata per non avere dichiarato inammissibile l’appello per inesistenza della sua notificazione, essendo essa stata effettuata non alla parte presso il suo domicilio eletto, ma presso i suoi difensori.

Il motivo è inammissibile in quanto non investe l’effettiva ratio decidendi della decisione impugnata che, decidendo sulla eccezione preliminare di difetto di notifica dell’atto di appello, l’ha respinta in forza della considerazione che, ai sensi dell’art. 56 cod. proc. civ., essendosi la parte costituita, l’atto aveva raggiunto il suo scopo, con l’effetto che il vizio della notifica eccepito risultava sanato. In particolare il mezzo è inammissibile per genericità in quanto non censura in modo diretto e specifico nè l’affermazione, implicita, del giudice territoriale, che ha ravvisato nella specie una nullità e non un’ipotesi di inesistenza della notificazione, ne la conclusione che il vizio doveva ritenersi sanato a seguito della costituzione in giudizio della parte cui la notifica era destinata.

Il secondo motivo del ricorso incidentale denunzia la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 11 e 12, censurando la decisione per non avere dichiarato inammissibile la costituzione, in entrambi i gradi di giudizio, dell’Agenzia delle Entrate e quindi anche l’atto di appello dalla stessa proposto in ragione del fatto che essa aveva agito in proprio, senza rilasciare alcuna procura alle liti.

Il motivo è manifestamente infondato.

In ordine alla questione proposta, è invero sufficiente osservare che anche nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, che, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente in via incidentale, non è un soggetto di diritto privato ma ha personalità giuridica di diritto pubblico (D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 61), essendo succeduta ex lege al Ministero delle Finanze nei poteri e nei rapporti giuridici strumentali all’adempimento dell’obbligazione tributaria, trova applicazione, la disposizione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 12, commi 1, che, in materia di controversie tributarie, prevede solo per le parti diverse dal Ministero delle Finanze o dall’ente locale il dovere (fatta salva la facoltà prevista nell’ipotesi di cui al successivo comma 5) di farsi assistere in giudizio da un difensore abilitato.

I primi due motivi del ricorso incidentale vanno quindi respinti.

Passando all’esame del ricorso principale proposto dall’Agenzia delle Entrate, con l’unico motivo, denunziando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, comma 5, e del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 44 e 44 bis, si sostiene l’erroneità del capo della decisione impugnato che ha affermato dovuti gli interessi tino alla data dell’effettivo pagamento della somma oggetto di rimborso, assumendosi che tale soluzione contrasta con il principio secondo il quale l’adempimento delle obbligazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria deve ritenersi eseguito mediante l’emissione dell’ordinativo di pagamento, non trovando applicazione nei suoi confronti la regola stabilita dall’art. 1182 cod. civ., che indica il luogo di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, in mancanza di convenzioni o usi, presso il domicilio del creditore.

Il motivo è fondato.

Il Collegio ritiene di dover dare continuità all’orientamento già espresso da questa Corte, da cui non si ravvisano ne sono state dedotte ragioni per discostarsi, secondo cui in tema di Iva e con riguardo alla disciplina dei rimborsi, l’adempimento della relativa obbligazione da parte dell’Amministrazione finanziaria deve ritenersi eseguito – con conseguente liberazione dalla prestazione dovuta – mediante l’emissione dell’ordinativo di pagamento (la cui esecuzione è poi affidata alla tesoreria), non essendo applicabile in materia tributaria la regola del pagamento al domicilio del creditore, stabilita dall’art. 1182 cod. civ.. Ne consegue che – anche alla luce del disposto del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 44, norma dettata in materia di imposte dirette, ma estensibile all’IVA, attesa l’analogia delle modalità di effettuazione dei rimborsi – il termine finale della decorrenza degli interessi sulle somme da rimborsare va individuato nella data in cui avviene la suddetta emissione del mandato di pagamento, restando irrilevanti, a tal fine, sia la data della comunicazione dell’emissione stessa al contribuente, sia quella dell’effettivo accredito della somma da rimborsare (il cui ritardo può, semmai, essere fonte di responsabilità per il tesoriere) (Cass. n. 4235 del 2004).

Nè la decisione impugnata sembra poter trovare sostegno concreto nel principio affermato da questa Corte con la sentenza n. 4760 del 2001, richiamata dalla Commissione regionale, secondo cui, in base al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 44, gli interessi sui crediti di imposta decorrono fino alla data di emissione dell’ordinativo di pagamento, in quanto ritualmente e tempestivamente notificato. Questo arresto infatti conferma e non smentisce il principio che detti interessi vanno computati lino alla data di emissione del mandato di pagamento;

dalla precisazione che esso deve essere comunicato in un termine ragionevole al contribuente, non se ne può per contro inferire che il mandato di pagamento debba liquidare gli interessi fino alla data della sua comunicazione e che, in difetto di essa, gli interessi decorrono fino al giorno del pagamento. Tanto più che, nel caso concreto, la ricorrente non può certo lamentare un ritardo abnorme ed arbitrario nell’accreditamento delle somme dovute, tenuto conto che esso è avvenuto, come risulta dalla cronologia dei fatti esposta nel ricorso, trascorsi pochi giorni dall’ordinativo.

Il ricorso principale va pertanto accolto.

Il terzo ed ultimo motivo del ricorso incidentale, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 1283 cod. civ., ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa punii decisivi della controversia, censura il capo della sentenza impugnata che ha respinto la domanda relativa alla corresponsione degli interessi anatocistici, assumendone l’erroneità per non avere il giudice a qua considerato che: “Il giudizio verte su pronuncia di condanna dell’Amministrazione Finanziaria al rimborso di somma pecuniaria, che solo originariamente aveva natura di interessi, ma che a seguito del separato rimborso del capitale ha perso la sua ancillarità rispetto ad esso (siccome rimborsato sin dal 1990), ed ha a propria volta acquisito natura autonoma di capitale”.

Il mezzo è infondato.

La Commissione regionale ha respinto la domanda della contribuente relativa agli interessi anatocistici sulla base del rilievo che, essendo gli interessi scaduti da meno di sei mesi, non ricorreva nel caso di specie il presupposto oggettivo richiesto dall’art. 1283 cod. civ., secondo cui gli interessi possono produrre a loro volta interessi “sempre che si tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi”. Questa argomentazione appare giuridicamente ineccepibile e non risulta nemmeno investita dal motivo.

Non condividibile appare per contro la censura svolta dalla ricorrente in via incidentale, secondo la quale, a quanto è dato di comprendere, il debito relativo agli interessi, a seguito del rimborso del capitale, non avrebbe più carattere accessorio, ma avrebbe acquisito consistenza di debito di capitale, sicchè gli interessi richiesti non sarebbero più anatocistici. L’argomento non ha pregio, sia per la sua palese inconsistenza giuridica, dal momento che oblitera la distinzione tra capitale ed interessi, sia in quanto si pone in manifesta contraddizione con la stessa domanda di parte, che aveva chiesto il pagamento degli interessi sul capitale e quindi degli interessi sugli interessi, riconoscendo quindi il chiaro carattere accessorio, rispetto al capitale, di quanto domandato. In conclusione, va accolto il ricorso principale dell’Agenzia delle Entrata e respinto quello incidentale della contribuente; la sentenza impugnata va quindi cassata e, ricorrendone le condizioni, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, dichiarando l’obbligo dell’Agenzia di corrispondere gli interessi sul rimborso fino alla data dell’ordinativo di pagamento.

Le spese di lite nei confronti del Ministero si dichiarano compensate, non avendo la sua partecipazione a questa fase del giudizio aggravato in maniera apprezzabile le difese della società intimata. Tra le altre parti si dichiarano altresì compensate le spese dell’intero giudizio, rinvenendosi giusti motivi nelle alterne vicende del processo.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi; dichiara inammissibile il ricorso del Ministero delle Finanze. accoglie il ricorso principale dell’Agenzia delle Entrate e rigetta il ricorso incidentale; cassa, in relazione al ricorso accolto, la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara che gli interessi sulla somma oggetto di rimborso sono dovuti tino alla data dell’ordinativo di pagamento. Compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, il 7 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2010

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