Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3705 del 12/02/2021

Cassazione civile sez. II, 12/02/2021, (ud. 12/11/2020, dep. 12/02/2021), n.3705

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rosanna – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24500-2019 proposto da:

M.A.M., rappresentato e difeso dall’avv. LAURA

BALDASSARRINI, e domiciliato presso la cancelleria della Corte di

Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA depositato il 04/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/11/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con decreto del 4.7.2019 il Tribunale di Ancona rigettava il ricorso avverso il provvedimento con il quale la Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale aveva respinto la domanda di M.A.M. volta al riconoscimento della protezione, internazionale o umanitaria.

Propone ricorso per la cassazione di tale decisione M.A.M. affidandosi a tre motivi.

Resiste con controricorso il Ministero dell’Interno.

Il ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè il Tribunale avrebbe ingiustamente rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria senza considerare l’integrazione raggiunta in Italia.

La censura è fondata.

Va innanzitutto considerato che il Tribunale ha escluso la sussistenza, nel caso di specie, dei requisiti per la concessione della tutela umanitaria senza procedere ad una specifica valutazione del contesto di origine del richiedente orientata con riferimento alla domanda di protezione umanitaria.

In argomento, va considerato che la valutazione che il giudice di merito è chiamato a svolgere ai fini del riconoscimento, o del diniego, della protezione umanitaria non coincide con quella relativa alla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della tutela internazionale, nelle due forme dello status e della protezione sussidiaria, nelle sue diverse articolazioni. Con riguardo alla protezione internazionale, infatti, il giudice deve valutare la condizione del Paese di origine del richiedente unitamente alla sua condizione personale, per verificare se vi siano, in concreto, le condizioni per poter ritenere integrate le ipotesi degli atti di persecuzione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, commi 1 e 2, in relazione ai motivi descritti dall’art. 8, commi 1 e 2 medesimo testo normativo; ovvero se ricorrano, in alternativa, le condizioni per la configurazione del danno grave di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, nelle varie declinazioni previste dalle lett. a), b) e c) di quest’ultima disposizione. La disamina che il giudice di merito deve condurre, pertanto, è specificamente rivolta alla verifica della sussistenza, o meno, dei profili legittimanti la tutela internazionale, e quindi specificamente di ipotesi di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale, genere o opinione politica (ai fini dello status di rifugiato) e di pericolo di danno grave alla persona derivante dal suo potenziale assoggettamento a condanna a morte o esecuzione della relativa pena (ai fini della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. a), tortura o altra forma di trattamento inumano o degradante (ai fini della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. b), ovvero di minaccia alla vita e alla persona di un civile derivante da un contesto di violenza generalizzata (ai fini della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c). Si tratta pertanto di uno scrutinio specificamente orientato alla verifica della sussistenza, in relazione alla persona del richiedente e con riferimento al contesto del suo Paese di origine, di profili di pericolo per la sua vita o incolumità personale, nelle varie declinazioni previste dalle norme di cui ai richiamati D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7,8 e 14.

Al contrario, in relazione al riconoscimento della protezione umanitaria la valutazione concerne sia la persona del richiedente, che il suo contesto di origine, da valutare in forma ponderata rispetto al livello di integrazione raggiunto in Italia, ma non necessariamente alla ricerca di eventuali profili di rischio di danno alla sua persona o alla sua incolumità, bensì in vista di una più completa protezione del nucleo essenziale dei suoi diritti e delle sue prerogative personali.

Siddetta valutazione, dunque, non è soltanto quantitativamente, ma anche qualitativamente diversa da quella che il giudice di merito è chiamato a svolgere, nell’ambito dell’esercizio del potere – dovere di cooperazione istruttoria declinato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, poichè alla verifica della sussistenza, in relazione alla persona del richiedente ed al suo contesto di origine, di profili di rischio per la sua vita o la sua incolumità personale (rilevanti ai fini della protezione internazionale) si sostituisce una più articolata valutazione del suo contesto di vita, nel Paese di origine ed in Italia, e del percorso di integrazione conseguito, al fine di verificare se l’eventuale rimpatrio potrebbe esporre il richiedente al rischio di subire un danno non necessariamente inerente alla sua vita o alla sua incolumità personale, ma comunque idoneo a limitare o condizionare le sue prerogative individuali, in maniera tanto ampia e significativa da far regredire i suoi diritti inviolabili al di sotto della soglia minima di intangibilità correlata ad un’esistenza dignitosa.

In questo senso, questa Corte ha avuto modo di affermare, con giurisprudenza ormai consolidata (cfr., in motivazione, cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298; nonchè, conforme, Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 17130 del 14/08/2020, Rv. 658471), che occorre innanzitutto verificare se la condizione del Paese di origine sia tale da esporre la persona del richiedente la protezione al rischio di subire una compromissione dei suoi diritti della persona, il cui “catalogo aperto” riceve riconoscimento e protezione in base all’art. 2 Cost. e all’art. 8 della Convenzione E.D.U. Occorre, in particolare, valutare se l’esistenza e l’entità della lesione dei diritti fondamentali dell’individuo, dipendente dal contesto di vita nel Paese di provenienza del richiedente, sia tale da integrare un’effettiva deprivazione dei diritti umani che possa giustificare la decisione di emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita. In quest’ambito, la condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche la mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. L’allegazione di una situazione di partenza di vulnerabilità, può, pertanto, non essere derivante soltanto da una situazione d’instabilità politico-sociale che esponga a situazioni di pericolo per l’incolumità personale, anche non rientranti nei parametri del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 o a condizioni di compromissione dell’esercizio dei diritti fondamentali riconducibili alle discriminazioni poste a base del diritto al rifugio politico, non aventi tuttavia la peculiarità della persecuzione personale potenziale od effettiva. La vulnerabilità può quindi essere la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute, oppure può dipendere da una situazione politico-economica molto grave con effetti d’impoverimento radicale riguardanti la carenza di beni di prima necessità, di natura anche non strettamente contingente, ovvero discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del paese di origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili). Queste ultime tipologie di vulnerabilità richiedono un rigoroso accertamento delle condizioni di partenza di privazione dei diritti umani nel paese d’origine, perchè la ratio della protezione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano la dignità di individuo. Accertamento che, sia per l’ampiezza dello spettro che per il peculiare angolo prospettico dal quale è compiuto, non coincide con quello, più limitato (come ambito) e più specifico (come prospettiva) previsto ai fini della verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, se non altro in vista della natura “chiusa”, e non invece “aperta”, delle ipotesi previste per la prima (D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 ed 8) e la seconda forma (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14) di protezione internazionale.

Ne consegue che, nel caso specifico, il Tribunale ha errato nella misura in cui non ha svolto alcuna verifica del contesto di origine del richiedente, che – come detto – costituisce il punto di partenza della decisione di emigrare, con riguardo alla richiesta di tutela umanitaria, limitandosi a richiamare la più ristretta valutazione compiuta ai fini del diniego dello status e della protezione internazionale. E’ stata, in tal modo frustrata la disposizione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, commi 1 e 1.1, e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, che non introducono una fattispecie di tutela “minore” rispetto alle due forme previste per la protezione internazionale, ma stabiliscono, per l’ampiezza delle ipotesi tratteggiate e delle espressioni usate (in particolare, “In nessun caso…” di cui al comma 1, e “Non sono ammessi…” di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1.1) una forma di protezione idonea ad abbracciare tutte le ipotesi di lesione rilevante dei diritti inviolabili della persona umana che, pur non rientrando nei rigidi canoni della protezione internazionale, siano tuttavia idonee a condizionare pesantemente, in senso negativo, la vita dell’individuo e le sue aspettative e prerogative individuali.

In tal senso, può essere affermato il seguente principio: “Ai fini del riconoscimento, o del diniego, della protezione umanitaria prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, commi 1 e 1.1, la valutazione comparativa sulla situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente, tanto con riferimento al Paese d’origine che in relazione al grado di integrazione da quegli conseguito in Italia, che il giudice di merito è chiamato a svolgere al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 e Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 17130 del 14/08/2020, Rv. 658471) non coincide con l’esame del contesto di origine del richiedente la protezione internazionale finalizzato allo scrutinio relativo alla sussistenza delle condizioni legittimanti per il riconoscimento di quest’ultima protezione. L’ambito delle due valutazioni è infatti diverso, sia per oggetto, essendo quella relativa alla verifica dei presupposti per la protezione internazionale limitata al solo apprezzamento della condizione del Paese di origine del richiedente, mentre quella concernente la protezione umanitaria è estesa anche alla situazione di integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza, quanto per prospettiva, posto che la verifica relativa alle condizioni per la protezione internazionale si ricollega alle ipotesi tipizzate dal D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7,8 e 14 mentre quella concernente la protezione umanitaria va esercitata in riferimento alla natura aperta dell’istituto”.

Inoltre il Tribunale di Ancona non ha adeguatamente considerato il fatto che il ricorrente aveva “… fornito prova di un rapporto di lavoro, anche piuttosto stabile…” (cfr. pag. 6 del decreto impugnato) ritenendo tale circostanza non influente ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, all’esito di un ragionamento logico-giuridico in base al quale l’aspetto dell’integrazione lavorativa finisce per non avere alcun rilievo, nè quando il rapporto ha caratteri di temporaneità, nè quando esso è stabile (cfr. pag. 4 del decreto). In particolare, il ricorrente aveva prodotto un contratto di lavoro a tempo determinato con retribuzione superiore all’importo dell’assegno sociale (cfr. ancora pag. 4 del decreto). Il giudice di merito, dopo aver ritenuto insufficiente tale rapporto ai fini della dimostrazione del radicamento, ha ulteriormente aggiunto che anche nel caso in cui il richiedente avesse documentato un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, avrebbe dovuto essere esclusa la tutela umanitaria, sul presupposto che, in tal caso, il carattere durevole del rapporto sarebbe stato incompatibile con la provvisorietà del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il complessivo ragionamento del giudice di merito finisce per negare qualsiasi rilievo al profilo dell’integrazione lavorativa del richiedente asilo in Italia, ed in tal modo si pone in sostanziale contrasto con i principi affermati da questa Corte, secondo cui la vulnerabilità va apprezzata prendendo le mosse dalla considerazione della situazione interna del Paese di origine del richiedente la protezione umanitaria, e tenendo conto che “Non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, indicandone genericamente la carenza nel paese d’origine, ma è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili. Solo all’interno di questa puntuale indagine comparativa può ed anzi deve essere valutata, come fattore di rilievo concorrente, l’effettività dell’inserimento sociale e lavorativo e/o la significatività dei legami personali e familiari in base alla loro durata nel tempo e stabilità. L’accertamento della situazione oggettiva del Paese d’origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce delle peculiarità della sua vicenda personale costituiscono il punto di partenza ineludibile dell’accertamento da compiere. (cfr. Cass. n. 420/2012, n. 359/2013, n. 15756/2013). E’ necessaria, pertanto, una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.)”(Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298, in motivazione, pagg.9 e 10; ma cfr. anche Cass. Sez. U, Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062 – 02).

Ne consegue che il giudice di merito deve sempre condurre una valutazione che, pur prendendo le mosse da un dato oggettivo (la situazione esistente nel Paese di origine del richiedente) si sviluppa poi interamente sul piano soggettivo, dovendosi apprezzare sia il livello di integrazione in concreto raggiunto dal singolo richiedente in Italia, sia il rischio che, individualmente, costui correrebbe in caso di rientro in patria.

Il Tribunale avrebbe quindi dovuto da un lato considerare gli indiscutibili elementi di integrazione socio-lavorativa forniti dal ricorrente, e dall’altro valutare, in ottica comparativa, se il suo rimpatrio potesse esporlo al rischio di compromissione del nucleo inalienabile dei suoi diritti fondamentali. Il duplice apprezzamento costituisce un unicum, nel senso che entrambi i commi nei quali esso si articola rappresentano un momento necessario dell’unitario procedimento valutativo devoluto al giudice di merito, che quest’ultimo è chiamato a condurre “considerando globalmente e unitariamente i singoli elementi fattuali accertati e non in maniera atomistica e frammentata” (cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 7599 del 30/03/2020, Rv. 657425 e Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 14548 del 09/07/2020, Rv. 658136).

In argomento, in continuità con il più recente orientamento di questa Corte (cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 1104 del 20/01/2020, Rv. 656791) va sottolineato che le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. Sez. U, Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062), in consonanza con la già citata pronuncia n. 4455 del 2018 di questa Corte, hanno chiarito, quanto ai presupposti necessari per ottenere la protezione umanitaria:

1) che non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano;

2) che gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali, sicchè l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13079 del 15/05/2019, Rv. 654164; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13096 del 15/05/2019, Rv. 653885; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 8571 del 06/05/2020, Rv. 657814);

3) che le relative basi normative non sono affatto fragili, ma, al contrario, a “compasso largo”: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della C.E.D.U., promuove infatti l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione;

4) che va pertanto condiviso l’orientamento (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 17130 del 14/08/2020, Rv. 658471) che assegna rilievo centrale alla valutazione comparativa, ex art. 8 C.E.D.U., tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo della dignità personale;

5) che, con riferimento all’ipotesi che precede, non può essere scrutinata la domanda tesa ad ottenere il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il livello di integrazione in Italia del richiedente, nè può affermarsi la sussistenza del predetto diritto in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (cfr. Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 17072 del 28/06/2018, Rv. 649648).

Va, dunque, apprezzata la situazione particolare del singolo soggetto, e non quella, in termini generali ed astratti, del suo Paese di origine; quest’ultima infatti non è di per sè idonea al riconoscimento della protezione umanitaria (cfr. Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 9304 del 03/04/2019, Rv. 653700), ma può “… assumere rilievo ove considerata unitamente alla condizione di insuperabile indigenza alla quale, per ragioni individuali, il ricorrente sarebbe esposto ove rimpatriato, nel caso in cui la combinazione di tali elementi crei il pericolo di esporlo a condizioni incompatibili con il rispetto dei diritti umani fondamentali” (cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 18443 del 04/09/2020, Rv. 658880). Tra le predette condizioni incompatibili va annoverata anche l’ipotesi della “… assoluta ed inemendabile povertà per alcuni strati della popolazione, o per tipologie soggettive analoghe a quelle del ricorrente, e di conseguente impossibilità di poter provvedere almeno al proprio sostentamento, dovendosi ritenere configurabile, anche in tale ipotesi, la violazione dei diritti umani, al di sotto del loro nucleo essenziale” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16119 del 28/07/2020, Rv. 658603; nonchè Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 20334 del 25/09/2020, Rv. 658988, che ha affermato la rilevanza dell’ipotesi in cui la povertà diffusa trasmodi in vera e propria carestia).

La valutazione comparativa che il giudice di merito è chiamato a compiere tra la condizione alla quale il richiedente sarebbe esposto in caso di rimpatrio ed il livello di integrazione dallo stesso conseguito in Italia va dunque compiuta nel rispetto del dovere di collaborazione istruttoria ufficiosa, all’attualità ed in modo unitario, considerando nel suo complesso la storia personale del richiedente ed inquadrandola nel duplice contesto, del Paese di origine e di quello di accoglienza. Di conseguenza, è fallace la valutazione del giudice di merito che si incentri soltanto sulla condizione esistente nel Paese di origine, e non tenga conto del livello di integrazione raggiunto dal richiedente in Italia, e viceversa.

Tra i due aspetti, infatti, sussiste – come già detto – un rapporto di strettissima correlazione, esprimibile in termini di proporzionalità inversa, nel senso che tanto più è forte il radicamento in Italia del richiedente la protezione, tanto meno è richieste un apprezzamento della condizione esistente nel Paese di origine che sia direttamente collegato alla situazione individuale del richiedente stesso, ben potendosi, infatti, presumere che la semplice differenza tra i due contesti esponga il soggetto al grave rischio di veder compromesso il suo standard di vita, e con esso, il livello di protezione dei suoi diritti fondamentali che in concreto egli ha conseguito mediante il processo di integrazione avuto nel Paese ospitante.

Il nucleo inalienabile dei diritti fondamentali dell’individuo, al quale fa riferimento la giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte (cfr. ancora Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298; Cass. Sez. U, Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062-02; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 17130 del 14/08/2020, Rv. 658471; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 1104 del 20/01/2020, Rv. 656791) costituisce invero un concetto caratterizzato da un certo livello di elasticità, essendo diversamente declinato nell’ambito dei differenti contesti sociali, politici e culturali esistenti nei vari Paesi e, financo, nelle diverse aree di questi ultimi. Di conseguenza, di fronte ad un soggetto che abbia dimostrato, in termini concreti, una capacità di integrazione socio-lavorativa nel Paese di arrivo particolarmente spiccata, e sia dunque in grado di documentare un’attività di lavoro consistente, durevole e idonea ad assicurargli le risorse per una vita dignitosa, l’apprezzamento circa il rischio di compromissione dei suoi diritti fondamentali in caso di rimpatrio non può non tener conto dei predetti risultati. I quali, infatti, contribuiscono ad individuare, in termini concreti, il livello di protezione delle prerogative fondamentali dell’individuo al quale quest’ultimo ha avuto accesso e che, dunque, ha in via tendenziale diritto di conservare.

In altri termini, quando il richiedente la protezione abbia dimostrato di aver conseguito un alto livello di protezione dei propri diritti inalienabili, è ad esso che va parametrata la valutazione comparativa da compiere tra i due contesti, esistenti in Italia e nel Paese di origine. Qualora invece il giudice di merito facesse riferimento al diverso, ed inferiore, livello che va riconosciuto a chiunque, indipendentemente dal processo di integrazione in concreto conseguito in Italia, l’apprezzamento finirebbe per essere sganciato dal caso concreto e sarebbe condotto in base a mere formule di stile, di per sè non idonee nè ad esprimere la personalizzazione della valutazione, nè ad esplicitare l’effettivo percorso motivazionale posto a fondamento del giudizio. Ne deriva la necessaria individualizzazione, non soltanto del processo valutativo in sè e per sè considerato, ma anche – e preliminarmente – del livello di partenza da considerare nell’ambito del già richiamato apprezzamento comparativo.

Sotto questo profilo, il Tribunale di Ancona ha errato, nel caso di specie, poichè non considerando in alcun modo il processo di integrazione di M.A.M. in Italia ha finito per condure l’apprezzamento comparativo richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte ai fini della concessione, o del diniego, della protezione umanitaria in termini astratti ed in modo del tutto sganciato dal caso specifico. In tal modo, il giudice di merito è pervenuto alla decisione sulla base di una motivazione affetta, sotto un primo profilo, dal vizio di apparenza, nella misura in cui l’astrattezza del ragionamento logico seguito dal giudice di merito impedisce, di fatto, che esso abbia alcuna attinenza con il caso specifico, e sotto un altro profilo dal vizio di irriducibile contrasto logico, nella parte in cui il ragionamento medesimo prima afferma, in linea di mera teoria, la necessità di una ponderazione tra i due contesti, in Italia e nel Paese di origine del richiedente la protezione, che poi, nei fatti, non compie, posto che il procedimento valutativo si è arrestato al mero livello dell’apparenza logica.

Può, in conclusione, essere affermato il seguente principio di diritto: “Nell’ambito della valutazione comparativa tra la situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente la protezione umanitaria, rispettivamente in Italia e nel Paese d’origine, richiesta ai fini della concessione, o del diniego, del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298; Cass. Sez. U, Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062-02; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 17130 del 14/08/2020, Rv. 658471; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 1104 del 20/01/2020, Rv. 656791) l’apprezzamento relativo al rischio, in caso di rimpatrio, di privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, ovvero di loro compromissione al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, va condotto non in termini astratti, ma in concreto, ponendo come base di partenza del procedimento di comparazione il livello di integrazione che il cittadino straniero abbia effettivamente realizzato in Italia, sotto i diversi profili sociale, lavorativo e familiare. Sussiste infatti un rapporto di proporzionalità inversa tra i due commi dell’unico procedimento logico di valutazione, nel senso che tanto più è forte il radicamento in Italia del richiedente la protezione, tanto meno è richiesto un apprezzamento funditus della condizione esistente nel Paese di origine che sia direttamente collegato alla situazione individuale del richiedente stesso, dovendosi presumere che la semplice rilevante differenza tra i due contesti possa esporre il soggetto al grave rischio di veder compromesso il suo standard di vita, e con esso, il livello di protezione dei suoi diritti fondamentali che in concreto egli ha potuto conseguire mediante il processo di integrazione avuto nel Paese ospitante e che, quindi, in linea tendenziale ha diritto di conservare”.

Nessun effetto spiega, su quanto sin qui esposto, il recente D.L. 21 ottobre 2020, n. 130 entrato in vigore a decorrere dal 22/10/2020.

L’art. 15 di detto D.L., infatti, nel dettare le disposizioni transitorie, prevede che: “1. Le disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), e) ed f) si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto avanti alle commissioni territoriali, al questore e alle sezioni specializzate dei tribunali, con esclusione dell’ipotesi prevista dall’art. 384 c.p.c., comma 2.

2. Le disposizioni di cui all’art. 2, comma 1, lett. a), b), c), d) ed e) si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto avanti alle commissioni territoriali”.

A differenza del comma 2, che fa riferimento soltanto ai procedimenti pendenti innanzi le Commissioni territoriali, il comma 1 riguarda anche i giudizi, con espressa esclusione della sola fase di rinvio. A prescindere dalla valutazione dell’applicabilità di detta norma – che fa esplicito richiamo soltanto ai giudizi pendenti innanzi le sezioni specializzate dei tribunali – anche ai ricorsi pendenti innanzi la Corte di Cassazione, va osservato che l’ambito della “nuova” protezione speciale delineata dalle disposizioni di immediata applicabilità (giusta il richiamato art. 15) di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), e) ed f), recitano testualmente: “1. Al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all’art. 5, comma 6, dopo le parole “Stati contraenti” sono aggiunte le seguenti: “, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”;

omissis.

e) all’art. 19:

1) il comma 1.1 è sostituito dal seguente: “1.1. Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani. Non sono altresì ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonchè dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.”;

2) dopo il comma 1.1 è inserito il seguente: “1.2. Nelle ipotesi di rigetto della domanda di protezione internazionale, ove ricorrano i requisiti di cui ai commi 1 e 1.1., la Commissione territoriale trasmette gli atti al Questore per il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale. Nel caso in cui sia presentata una domanda di rilascio di un permesso di soggiorno, ove ricorrano i requisiti di cui ai commi 1 e 1.1, il Questore, previo parere della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, rilascia un permesso di soggiorno per protezione speciale.”;

3) al comma 2, lett. d-bis), al primo periodo, le parole “condizioni di salute di particolare gravità” sono sostituite dalle seguenti: “gravi condizioni psico-fisiche o derivanti da gravi patologie”;

f) all’art. 20-bis:

1) al comma 1, le parole “contingente ed eccezionale” sono sostituite dalla seguente: “grave”;

2) al comma 2, le parole “per un periodo ulteriore di sei mesi” sono soppresse, la parola “eccezionale” è sostituita dalla seguente: “grave” le parole “, ma non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro” sono soppresse;

… omissis…”.

La nuova protezione speciale si presenta, prima facie, caratterizzata da un compasso di ampiezza almeno corrispondente a quello della protezione umanitaria previgente all’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito con modificazioni nella L. n. 132 del 2018, nell’interpretazione che di detta forma di protezione è fornita dal consolidato orientamento di questa Corte (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298; Cass. Sez. U, Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062-02; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 17130 del 14/08/2020, Rv. 658471; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 1104 del 20/01/2020, Rv. 656791).

Ne deriva che i principi affermati in precedenza conservano la loro piena validità, tanto con riferimento alla disciplina anteriore al D.L. n. 113 del 2018, da ultimo richiamato, quanto nell’ambito della nuova normativa di cui al D.L. n. 130 del 2020.

La censura di cui al primo motivo del ricorso va pertanto accolta, nei termini di cui in motivazione.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19 e art. 33 della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati, perchè il giudice di merito avrebbe escluso di apprezzare il trattamento subito dal richiedente durante il suo soggiorno in Libia.

Con il terzo motivo, da trattare unitamente al secondo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19 perchè il Tribunale avrebbe omesso qualsiasi istruttoria sulla condizione esistente in (OMISSIS), Paese di provenienza del richiedente.

Le due censure sono fondate.

Il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, impone al giudice di esaminare la domanda di protezione internazionale… alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa. La Commissione nazionale assicura che dette informazioni, costantemente aggiornate, siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali, secondo le modalità indicate dal regolamento da emanare ai sensi dell’art. 38 e siano altresì fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative”.

Le Country of Origin Information (cosiddette “C.O.I.”) assumono quindi un ruolo centrale nell’istruzione e nella decisione delle domande di protezione internazionale, poichè la relativa decisione deve essere assunta, per precisa disposizione normativa, sulla base delle notizie sul Paese di origine, o di transito, del richiedente che siano tratte da fonti informative specifiche ed aggiornate. Nel caso di specie, il Tribunale ha violato tale disposizione, poichè si è limitato a dare atto che il richiedente, nel proporre domanda reiterata di protezione internazionale, non aveva allegato alcun fatto nuovo (cfr. pag. 3 del decreto), senza tuttavia svolgere alcuna indagine circa l’esistenza, in (OMISSIS), di una condizione di violenza generalizzata rilevante ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c). L’omissione non consente di verificare l’attendibilità e la pertinenza delle informazioni utilizzate dal giudice di merito, e si riflette pertanto in una violazione dell’obbligo di collaborazione istruttoria previsto e declinato dal già richiamato D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3. Merita, al riguardo, di essere ribadito il seguente principio, ormai costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte: “Il riferimento operato dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, alle fonti informative privilegiate deve essere interpretato nel senso che è onere del giudice specificare la fonte in concreto utilizzata e il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità di tale informazione rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13449 del 17/05/2019, Rv. 653887; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 13897 del 22/05/2019, Rv. 654174; Cass. Sez.2, Ordinanza n. 9230 del 20/05/2020, Rv. 657701; Cass. Sez.1, Ordinanza n. 13255 del 30/06/2020, Rv. 658130). A tal fine, il giudice di merito è tenuto ad indicare l’autorità o ente dalla quale la fonte consultata proviene e la data o l’anno di pubblicazione, in modo da assicurare la verifica del rispetto dei requisiti di precisione e aggiornamento previsti dal richiamato D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3”.

Anche in presenza di domanda reiterata, dunque, il giudice di merito non è esentato dal dovere di cooperazione istruttoria, che gli impone di valutare la sussistenza, o meno, nel Paese di provenienza del richiedente ovvero in quello di transito, alla data della decisione, di una condizione di pericolosità diffusa rilevante ai fini del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c). In definitiva, il ricorso va integralmente accolto.

Il decreto impugnato va quindi cassato e la causa rinviata al Tribunale di Ancona, in differente composizione, il quale avrà cura di conformarsi ai principi di diritto espressi da questa Corte in relazione ai diversi motivi accolti, nonchè di statuire sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, al Tribunale di Ancona, in differente composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 12 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2021

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