Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3704 del 14/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 14/02/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 14/02/2020), n.3704

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18043-2018 proposto da:

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR

presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato ELIO TROMBETTA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE;

– intimato –

avverso il decreto n. 53166/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositato il 05/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata dell’01/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONELLO

COSENTINO.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Il sig. C.A. ha impugnato per cassazione il decreto con cui la corte d’appello di Roma ha dichiarato improponibile la domanda di equa riparazione da lui proposta il 14 maggio 2012 in relazione all’irragionevole durata di un giudizio amministrativo instaurato il 26 gennaio 1989, ancora pendente alla data dell’introduzione della domanda di equa riparazione.

La corte territoriale ha motivato la propria decisione richiamando il disposto del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54, comma 2, convertito, con modificazioni, nella L. 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, e argomentando che nel giudizio presupposto non risultava essere “stata mai presentata istanza di prelievo durante tutto il corso del giudizio amministrativo” (pag. 3, terzo capoverso, del decreto).

Il ricorso si articola in due motivi, entrambi riferiti al vizio di violazione di legge.

Con il primo motivo si denuncia la violazione degli artt. 71,81 e 82 codice del processo amministrativo e della L. n. 1034 del 1971, art. 54, comma 2, nonchè dell’allegato n. 3 al codice del processo amministrativo e della L. n. 89 del 2001 in cui la corte territoriale sarebbe incorsa non qualificando come istanza di prelievo la istanza di fissazione di udienza depositata dal ricorrente, nel giudizio presupposto, in data 24/5/2011.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione del D.L. n. 112 del 2008, artt. 54, comma 2, convertito nella L. n. 133 del 2008, e successive modificazioni, nonchè della L. n. 89 del 2001, e si solleva, in subordine, la questione di legittimità costituzionale di tale disposizione in relazione all’art. 117 Cost., comma 1, con riferimento agli artt. 6, 13 e 46 Carta EDU.

Il Ministero dell’economia e delle Finanze non ha spiegato difese in questa sede.

Il secondo motivo di ricorso risulta fondato.

Nelle more del presente giudizio di legittimità, infatti, è stata pubblicata la sentenza della Corte costituzionale n. 34 del 6 marzo 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, e successive modifiche.

La Consulta, nel richiamare la costante giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui i rimedi preventivi, volti ad evitare che la durata del procedimento diventi eccessivamente lunga, sono ammissibili, o addirittura preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma ciò solo se “effettivi” e, cioè, nella misura in cui velocizzino la decisione da parte del giudice competente (così, in particolare, Corte EDU, grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia), ha ricordato come già con la sentenza del 2 giugno 2009, Daddi contro Italia, detta Corte, pur dichiarando il ricorso inammissibile per il mancato esperimento del rimedio giurisdizionale interno, aveva preannunciato che una prassi interpretativa ed applicativa del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, nel testo antecedente alla modifica di cui al D.Lgs. n. 104 del 2010 – che avesse avuto come effetto quello di opporsi all’ammissibilità dei ricorsi ex lege “Pinto” (relativi alla durata di un processo amministrativo conclusosi prima del 25 giugno 2008), per il solo fatto della mancata presentazione di un’istanza di prelievo – avrebbe privato sistematicamente alcune categorie di ricorrenti della possibilità di ottenere una riparazione adeguata e sufficiente. Ha altresì rammentato che, più di recente, con la sentenza 22 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia, la Corte EDU aveva affrontato il problema dell’effettività del rimedio nazionale ex lege n. 89 del 2001, soggetto alla condizione di proponibilità del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, ed esaminando diacronicamente tale disposizione, fino al testo scaturito dalle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 104 del 2010, aveva conclusivamente ritenuto che la procedura nazionale per lamentare la durata eccessiva di un giudizio dinanzi al giudice amministrativo, risultante dal combinato disposto della “legge Pinto” con la disposizione stessa, non potesse essere considerata un rimedio effettivo ai sensi dell’art. 13 CEDU. Ciò soprattutto sul rilievo che il sistema giuridico nazionale non prevedeva alcuna condizione volta a garantire l’esame dell’istanza di prelievo. Per l’effetto, la Corte costituzionale ha ritenuto che la norma in esame si pone in contrasto con la “costante giurisprudenza della Corte EDU”, atteso che l’istanza di prelievo, cui fa riferimento il D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2 (prima della rimodulazione, come rimedio preventivo, operatane dalla L. n. 208 del 2015), non costituisce un adempimento necessario ma una mera facoltà del ricorrente (ex art. 71 codice del processo amministrativo, comma 2, la parte “può” segnalare al giudice l’urgenza del ricorso), con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio), risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia nè con l’obiettivo del contenimento della durata del processo nè con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata.

La sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma che subordinava la proponibilità della domanda di equo indennizzo alla necessaria presentazione dell’istanza di prelievo per contrasto con i parametri convenzionali della CEDU (art. 6 par. 1), la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quella dell’art. 117 Cost., comma 1, impone quindi l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, con assorbimento del primo, e la cassazione del decreto impugnato, la cui ratio decidendi risiede proprio nell’applicazione di tale norma.

Alla cassazione consegue il rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte d’appello di Roma.

Giova peraltro precisare che il giudice di rinvio dovrà altresì verificare se il processo presupposto – che il decreto impugnato afferma essere ancora pendente alla data della domanda di equa riparazione (pag. 2, primo capoverso, lett. “c”, del decreto) – sia stato definito, nel grado, prima del 31 ottobre 2016. Solo in tal caso, infatti, la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sarebbe rilevante nel presente giudizio; qualora, invece, il processo presupposto risultasse ancora pendente alla data del 31 ottobre 2016 l’intera vicenda andrebbe riguardata alla luce della disciplina dettata dalla L. n. 208 del 2015.

La Corte costituzionale ha infatti chiarito, nella stessa sentenza n. 34 del 2019, che la disciplina intertemporale dettata dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 777, lett. a), b) ed m), impone di distinguere tra i processi che siano stati definiti, nel grado, entro il 31 ottobre 2016 e quelli che a tale data fossero ancora pendenti. Solo per questi ultimi gli effetti (di improponibilità) derivanti dalla normativa vigente prima dell’entrata in vigore della L. n. 208 del 2015, possono ritenersi “sterilizzati”, giacchè per i medesimi l’ammissibilità della domanda di equa riparazione per l’eccessiva durata di processi amministrativi risulta ora condizionata dalla intervenuta proposizione del “rimedio preventivo” dell’istanza di prelievo “almeno sei mesi prima” della scadenza del termine di ragionevole durata del processo.

Il Giudice delle leggi ha infatti sottolineato come il tenore letterale della disposizione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 6, comma 2-bis (introdotto, insieme al comma 2-ter dello stesso articolo, dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 777, lett. m)) ne implichi chiaramente l’applicabilità (solo) pro futuro, chiarendo che una tale condizione – riscritta ora nei più incisivi termini di un onere di diligenza posto a carico della parte chiamata a cooperare con il giudice al fine di evitare il superamento del termine di ragionevole durata del processo – non può che riferirsi a processi ancora pendenti, la cui ragionevole durata si protragga per il tempo necessario a consentire alle parti di proporre l’istanza di prelievo nel termine introdotto dalla L. n. 208 del 2015. Il che, appunto, spiega perchè, ai sensi della L. n. 89 del 2001, stesso art. 6, successivo comma 2-ter, la così riformulata condizione di proponibilità si applichi (solo) nei processi amministrativi che eccedano (nel grado) il rispettivo termine di ragionevole durata al 31 ottobre 2016, in data, quindi, di oltre sei mesi successiva a quella (1 gennaio 2016) di entrata in vigore della L. n. 208 del 2015.

In conclusione, la L. n. 89 del 2001, nuovo art. 1-ter, si applica in relazione a processi presupposti ancora pendenti (nel grado) alla data del 31 ottobre 2016, mentre quelli già definiti a tale data ricadrebbero, ratione temporis, sotto la previgente disciplina della improponibilità, dettata dal D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, e successive modificazioni, caducata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 34 del 2019.

Al giudice del rinvio è demandata anche la liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia ad altra sezione della corte di appello di Roma, che regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2020

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