Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3703 del 17/02/2010

Cassazione civile sez. trib., 17/02/2010, (ud. 16/04/2009, dep. 17/02/2010), n.3703

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro in

carica e AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore in carica,

rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i

cui uffici in Roma, Via dei Portoghesi n. 12 sono legalmente

domiciliati; Avverso la sentenza della Commissione Tributaria

Regionale del Lazio n. 112/05/2002 depositata il 22.10.2002, termine

sospeso ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 16;

contro

M.O. residente in (OMISSIS) non costituita

nel presente giudizio di legittimità;

udita la relazione del Consigliere Dr. Renato Polichetti;

Viste le conclusioni scritte del P.G. dott. Maurizio Velardi che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso per manifesta fondatezza.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Considerato quanto segue:

L’Ufficio delle entrate di Rieti rilevate le incongruenze nella contabilità della società Sabema snc, esercente l’attività di commercio all’ingrosso di bevande, in particolare il contrasto tra la merce venduta rispetto ai ricavi minimi dichiarati, emetteva avviso di accertamento per IRPEF 1992 applicando al costo del venduto il ricarico del 21%.

Di conseguenza imputava alla socia M.O. il maggior reddito di partecipazione e notificava il relativo avviso di accertamento.

La contribuente proponeva ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Rieti rilevando che l’ufficio non aveva provato quanto accertato e che i prezzi di gran parte dei prodotti venduti ai grossi clienti erano imposti dalla società fornitrice ed erano diversi da quelli applicati alla generalità dei clienti.

La Commissione accoglieva il ricorso della contribuente, per le stesse ragioni per le quali aveva accolto il ricorso proposto dalla società, ritenendo che l’Ufficio non aveva indicato gli elementi sui quali, in presenza di contabilità regolare aveva fondato l’accertamento D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39.

L’Ufficio secondo i primi giudici non aveva prodotto la documentazione e le fatture prese a campione dalle quali aveva ricavato gli elementi per operare l’accertamento, mentre la contribuente aveva esibito documentazione utile a dimostrare l’illegittimità dell’accertamento.

L’Ufficio proponeva appello alla Commissione tributaria regionale di Roma, chiedendo la riforma della decisione di primo grado per gli stessi motivi dedotti nell’appello avverso la sentenza con la quale la Commissione provinciale aveva accolto il ricorso della n società.

Nell’atto d’appello osservava che la società aveva evidenziato un utile di esercizio di L. 182.968.243 a fronte di ricavi per vendite per L. 2.723.304.211 con una evidente sproporzione visto che l’utile dichiarato risultava pari a 6,69%.

L’Ufficio precisava che era stata rilevata una percentuale di ricarico dichiarata nella misura del 18,21% ritenuta modesta e poco credibile tenuto conto delle caratteristiche dell’azienda e del tipo di attività esercitata. Inoltre dall’esame della documentazione prodotta nonchè dall’analisi delle fatture di acquisto e di vendita relative a merci maggiormente rappresentative con media ponderata si rilevava che il ricarico effettivamente applicato era del 37%. Dal che emergeva, secondo l’Ufficio, che la società aveva posto in essere una contabilità che seppure formalmente regolare non era attendibile per l’evidente contrasto tra i valori dichiarati come costo della merce venduta rispetto ai ricavi minimi dichiarati.

L’Ufficio concludeva quindi che non era giustificato il ricorso alla ricostruzione induttiva dei ricavi che era stata realizzata con l’applicazione al costo merce di un ricarico del 21% “assai prudenziale” (considerato che quello risultante dalle fatture delle merci più rappresentative era del 37%).

L’Ufficio rilevava infine che la società si era limitata a fornire copie di fatture di alcune merci, deducendo che alcune ditte imponevano i prezzi di vendita e pertanto il ricarico applicato dall’Ufficio non era veritiero. Questo però non costituiva una prova e di conseguenza era del tutto generica e priva di riscontri l’affermazione dei primi giudici secondo i quali l’accertamento andava annullato “considerata anche la documentazione fornita dalla parte”. Di conseguenza chiedeva la riforma della decisione sul reddito di partecipazione della socia.

Con la sentenza in epigrafe la Ctr ha respinto l’appello dell’Ufficio. I giudici di appello hanno confermato la sentenza di primo grado ritenendo che “Nel caso in esame si tratta del reddito di partecipazione della Sabema di Musto Antonio & SNC e con sentenza in data odierna questa Commissione ha respinto il relativo appello dell’Ufficio”.

Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso in Cassazione le Amministrazioni in epigrafe indicate eccependo violazione e falsa applicazione della normativa disciplinante la materia nonchè omessa motivazione su punti decisivi della controversia.

La controparte non si è costituita nel presente giudizio. Come stabilito da questa Corte in materia tributaria, l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5 e dei soci delle stesse e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci – salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali – sicchè tutti questi soggetti devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi; siffatta controversia, infatti, non ha ad oggetto una singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, con conseguente configurabilità di un caso di litisconsorzio necessario originario. Conseguentemente, il ricorso proposto anche da uno soltanto dei soggetti interessati impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14 (salva la possibilità di riunione ai sensi del successivo art. 29) ed il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorzi necessari è affetto da nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio (Sezioni Unite 04.06.2008 n. 14815 Rv. 603330).

Nel caso di specie si trattava per l’appunto di una società di persone e, pertanto, il contenzioso giudiziario doveva essere instaurato nei confronti di tutti i soci, ciò che viceversa, nel caso concreto non è avvenuto.

Pertanto devono essere annullate le sentenze di primo grado e di appello con remissione della causa alla commissione provinciale competente per territorio che dovrà attenersi al principio sopra riportato.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione cassa la sentenza di appello e di primo grado e rimette la causa ad altra sezione della commissione provinciale di Roma.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 aprile 2009.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2010

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