Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3693 del 12/02/2021

Cassazione civile sez. II, 12/02/2021, (ud. 17/12/2020, dep. 12/02/2021), n.3693

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18009-2017 proposto da:

EDILQUATTRO SRL, GIA’ BERNARDELLI INERTI SRL, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA UGO DE CAROLIS, 101, presso lo studio

dell’avvocato GIUSEPPE MONTORO, rappresentata e difesa dall’avvocato

CARLO AMBROSINI, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI MONTICHIARI (BS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

APPIA NUOVA 96, presso lo studio dell’avvocato PAOLO ROLFO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURO BALLERINI, in

virtù di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 652/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 05/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/12/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie della ricorrente.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. La Bernardelli Inerti S.r.l. (poi divenuta Edilquattro S.r.l.), proponeva opposizione avverso l’ordinanza – ingiunzione n. 9734/2009 con la quale le era stata irrogata la sanzione pecuniaria di Euro 475.813,20 per la violazione della L.R. Lombardia n. 14 del 1998, art. 29, comma 2 in relazione all’abusiva escavazione di materiali litoidi per mc. 77.638.

Deduceva che aveva acquistato la cava oggetto dei fatti di causa solo il (OMISSIS), senza avere proceduto ad attività di scavo, con la conseguenza che i fatti contestati erano da addebitare alla precedente proprietaria dell’area, la Fin Beton. Inoltre, deduceva che la contestazione era stata effettuata in maniera tardiva, mentre nel merito contestava la correttezza dell’accertamento.

Nella resistenza del Comune di Montichiari, autore dell’ordinanza impugnata, il Tribunale di Brescia con la sentenza n. 3293 del 17/10/2013 rigettava l’opposizione.

La Corte d’Appello di Brescia con la sentenza n. 652 del 5/5/2017 ha rigettato l’appello dell’opponente.

In primo luogo, rilevava che la documentazione versata in atti dall’appellante in sede di precisazione delle conclusioni in appello (comunicazione inoltrata dalla società alienante al Comune in data 13/10/2005 e comunicazione del Comune del 5/1/2017 in risposta a richiesta di accesso agli atti) era inutilizzabile in quanto tardivamente prodotta, trattandosi di documenti formatisi ancor prima dell’introduzione del giudizio e che ben potevano essere prima acquisiti dall’appellante.

Nè poteva addursi che gli stessi fossero stati rilasciati dopo istanza di accesso agli atti del Comune, posto che tale richiesta era stata tardivamente proposta per inerzia della parte.

Ancora, dovevano essere disattese le richieste di ammissione dei mezzi di prova avanzate nel corso del primo grado, e ciò sia per l’estrema genericità delle richieste medesime, sia per il fatto che non erano state reiterate in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado.

Quanto al difetto di legittimazione attiva, la Corte distrettuale rilevava che dalla condotta tenuta dalla parte e dagli accertamenti tecnici compiuti in corso di causa poteva concludersi nel senso che la situazione rappresentata nella tavola planimetrica del 22/3/2007 era rappresentativa dell’effettivo stato dei luoghi a quella data, il che consentiva di confermare la conclusione che l’attività di scavo abusivo fosse stata compiuta dalla società appellante.

Del pari dovevano essere disattese le critiche all’operato del CTU, in quanto gli accertamenti compiuti erano retti da validi criteri tecnici e confortavano la correttezza delle conclusioni cui il medesimo era pervenuto.

Quanto al motivo relativo alla pretesa tardività della contestazione, i giudici di appello osservavano che, come emergeva dalla dinamica dei fatti, il processo di accertamento della violazione si era concluso solo il 9/9/2008, sicchè avuto riguardo a tale data, la notifica della contestazione, avvenuta il 7/10/2008, era da reputarsi del tutto tempestiva, dovendo peraltro escludersi che vi fosse stata colpevole inerzia dell’amministrazione, attesa la complessità degli accertamenti da compiere.

Infine, quanto al mezzo di gravame con il quale ci si doleva della mancata ammissione al pagamento in misura ridotta della sanzione, atteso l’accertamento di un volume estratto inferiore a quello contestato, la sentenza rilevava che tale forma di pagamento è alternativa all’opposizione, sicchè non può essere richiesta una volta che la parte sia addivenuta alla decisione di proporre opposizione.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Edilquattro S.r.l. sulla base di tre motivi.

Il Comune di Montichiari resiste con controricorso.

La ricorrente ha depositato memorie in prossimità dell’udienza;

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., quanto alla mancata valutazione di documenti nuovi indispensabili ai fini della decisione.

Si deduce che in sede di conclusioni in appello era stata prodotta una comunicazione della Fin Beton, originaria proprietaria della cava, al Comune; recante la data del 12/10/2005, documento ottenuto solo a seguito di richiesta di acceso agli atti.

Tale documento ha carattere di indispensabilità in quanto idoneo a dimostrare che in realtà l’attività di scavo in eccedenza rispetto a quanto autorizzato era stata già compiuta dalla detta società.

Ancora, analoga censura è mossa quanto alla mancata considerazione delle fatture emesse dalla Fin Beton nei confronti della ricorrente per la vendita di materiali inerti in epoca anteriore all’acquisto della cava, nonchè al riscontro alla richiesta di accesso agli atti, in relazione all’elenco reversali del Comune di Montichiari, che attestano un versamento di somme da parte della Fin Beton per un quantitativo estratto non corrispondente a quello effettivamente scavato.

Nella sostanza si deduce che tale documentazione, nonchè le prove orali reiterate in appello, avrebbero carattere di indispensabilità e quindi non potevano non essere prese in esame dal giudice di appello.

Il motivo è infondato.

Parte ricorrente reputa, infatti, erroneamente applicabile alla fattispecie la previsione di cui all’art. 345 c.p.c. nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla novella di cui alla L. n. 134 del 2012, che appunto consente l’ingresso in appello di prove ritenute indispensabili (alla luce di quanto specificato da Cass. S.U. n. 10790/2017), senza però considerare che nel procedimento di appello risultava già applicabile la nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c. che, a seguito della novella del 2012, consente l’ammissione di nuovi mezzi di prova o la produzione di nuovi documenti solo se la parte dimostri di non averli potuto proporre o produrre in primo grado per causa ad essa non imputabile.

Infatti, questa Corte, ha chiarito che (Cass. n. 26522/2017) nel giudizio di appello, la nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, quale risulta dalla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012 è applicabile nel caso in cui la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012, trovando quindi applicazione il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, senza che assuma rilevanza rindispensabilità” degli stessi, e ferma per la parte la possibilità di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (conf. Cass. n. 6590/2017, secondo cui la modifica, in senso restrittivo rispetto alla produzione documentale in appello, dell’art. 345 c.p.c., comma 3, operata dal D.L. n. 83 del 2012, trova applicazione, mancando una disciplina transitoria e dovendosi ricorrere al principio “tempus regit actum”, solo se la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della L. n. 134 del 2012, di conv. del D.L. n. 83 cit. e, cioè, dal giorno 11 settembre 2012).

Poichè la sentenza impugnata dinanzi alla Corte d’Appello è stata pubblicata in data 17/10/2013, risulta incensurabile la decisione gravata, che ha appunto escluso che potesse procedersi alla produzione di documenti, sicuramente preesistenti alla stessa data di introduzione del giudizio, non potendosi addurre a giustificazione del tardivo deposito il richiamo alla procedura di accesso agli atti, avendo i giudici di appello correttamente evidenziato che la procedura era stata tardivamente attivata per inerzia colpevole della parte appellante, che ben avrebbe potuto attivarsi in data anteriore per acquisire tale documentazione.

Ad abundantiam, va altresì ricordato che, anche nel caso in cui si fosse reputato applicabile il vecchio testo dell’art. 345 c.p.c., la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che (Cass. n. 12574/2019), ove si invochi l’indispensabilità della documentazione, è necessario che la relativa produzione avvenga, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione nell’atto introduttivo del secondo grado di giudizio, salvo che la loro formazione sia successiva e la loro produzione si renda necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo (conf. Cass. n. 11510/2014; Cass. n. 12731/2011), sicchè anche in relazione a tale profilo la produzione invocata dalla ricorrente non poteva essere utilizzata dal giudice di appello.

Nè vale invocare, come fatto nelle memorie, che la fattispecie riguarderebbe un’opposizione ad ordinanza ingiunzione per la quale risultano applicabili le norme dettate per il processo del lavoro, con l’indicazione del limite della indispensabilità, ancora operante per le dette controversie, anche a seguito della novella del 2012, e ciò avuto riguardo alla circostanza che il processo in esame è stato introdotto in primo grado nel 2009, e quindi prima che la novella di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011 estendesse le norme dettate per le controversie di lavoro anche agli appelli in materia di opposizione ad ordinanza ingiunzione.

Giova quindi far richiamo a quanto affermato da Cass. S.U. n. 2907/2014, a mente delle quali nei giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, introdotti nella vigenza della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 23 come modificato dal D.Lgs. n. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 26 e quindi prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, l’appello deve essere proposto nella forma della citazione e non già con ricorso, trovando applicazione, in assenza di una specifica previsione normativa per il giudizio di secondo grado, la disciplina ordinaria di cui agli artt. 339 c.p.c. e ss.

Ne consegue che il richiamo alle regole dettate per il processo ordinario di cognizione implica altresì che trovi applicazione, quanto al regime delle prove in appello, la disciplina dell’art. 345 c.p.c., come scaturente dalla riforma del 2012.

Quanto, invece, alla mancata ammissione delle ulteriori richieste istruttorie, avanzate in primo grado e reiterate in sede di appello, rileva il Collegio che, in disparte l’inammissibilità del motivo nella parte in cui, a fronte della valutazione di genericità delle stesse formulato in sentenza alla pag. 7, risulta omessa la trascrizione del loro contenuto, impedendo quindi alla Corte di poter vagliare sulla base del contenuto del ricorso, l’effettiva correttezza della valutazione resa al riguardo dal giudice di merito, il ricorso è inammissibile anche perchè non risulta attingere l’altra ratio che fonda il giudizio negativo speso sul punto dalla Corte distrettuale.

Questa, infatti, ha rilevato che in sede di conclusioni in primo grado, la società aveva fatto riferimento al contenuto della memoria conclusiva del 10/10/2013, la quale a sua volta si richiamava al contenuto dell’atto di opposizione, che in ordine alle richieste istruttorie faceva solo riferimento alla necessità di una CTU, poi effettivamente svolta.

Per l’effetto ha ritenuto che le richieste di prova avanzate in sede di conclusioni in appello fossero inammissibili in quanto non trovavano corrispondenza in quelle di cui alle conclusioni in primo grado.

Avverso tale argomentazione manca una specifica censura della ricorrente, occorrendo in ogni caso ribadire l’incensurabilità del ragionamento del giudice di appello, alla luce della giurisprudenza di questa Corte che anche di recente ha ribadito che (Cass. n. 11752/2018) in tema di ammissione di nuove prove in appello, anche ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nella formulazione, “ratione temporis” applicabile, anteriore sia alla novella introdotta con la L. n. 69 del 2009 che a quella di cui al D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella L. n. 134 del 2012 (ma, come detto, non applicabile nella fattispecie), il giudizio d’indispensabilità relativo a prove documentali nuove non può riguardare quelle dichiarate inammissibili nel grado precedente. In tale ipotesi la richiesta di ammissione doveva essere reiterata all’udienza di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado, dovendo altrimenti ritenersi che la parte vi avesse tacitamente rinunciato con conseguente inammissibilità della riproposizione della medesima richiesta in appello.

In senso conforme Cass. n. 15029/2019, secondo cui nel caso in cui il giudice di primo grado non accolga alcune richieste istruttorie, la parte che le ha formulate ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni, poichè, diversamente, le stesse devono ritenersi rinunciate e non possono essere riproposte in appello, neppure ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 3, (nel testo previgente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella L. n. 134 del 2012), in quanto il giudizio d’indispensabilità, operato dal giudice del gravame, riguarda le nuove prove e non quelle dichiarate inammissibili o tacitamente rinunciate.

Il motivo deve quindi essere disatteso.

3. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 14 quanto alla tardività della contestazione ed alla conseguente nullità del provvedimento opposto.

Si deduce che già il 16 marzo 2007 la Polizia Municipale aveva dato atto della movimentazione di terra all’interno della cava, e che dopo una serie di rilievi condotti anche dal Corpo Forestale, già il 4 luglio 2007 era stata disposta la sospensione di ogni attività nella cava.

Quindi con comunicazione dell’8 aprile 2008 il Comune aveva contestato all’opponente dei comportamenti illegittimi,

Il giudice di appello ha reputato come dies a quo per la decorrenza del termine di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 14 quello coincidente con il deposito da parte della Topcom degli esiti dei suoi accertamenti, mentre, a detta della ricorrente, il termine deve essere fatto retroagire all’aprile o al giugno del 2007, allorchè vi erano stati già degli accertamenti della Polizia Municipale che avrebbero messo il Comune nella giuridica possibilità di avviare il procedimento amministrativo sanzionatorio.

La colpevole inerzia della PA non può andare in danno del privato.

Il motivo deve essere rigettato.

La sentenza gravata ha fatto applicazione del tradizionale principio di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 27702/2019), in tema di sanzioni amministrative, qualora non sia avvenuta la contestazione immediata della violazione, il momento dell’accertamento – in relazione al quale collocare il “dies a quo” del termine previsto della L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 2, per la notifica degli estremi di tale violazione – non coincide con quello in cui viene acquisito il “fatto” nella sua materialità da parte dell’autorità cui è stato trasmesso il rapporto, ma va individuato nel momento in cui detta autorità abbia acquisito e valutato tutti i dati indispensabili ai fini della verifica dell’esistenza della violazione segnalata, ovvero in quello in cui il tempo decorso non risulti ulteriormente giustificato dalla necessità di tale acquisizione e valutazione; il compito di individuare, secondo le caratteristiche e la complessità della situazione concreta, il momento in cui ragionevolmente la contestazione avrebbe potuto essere tradotta in accertamento e da cui deve farsi decorrere il termine per la contestazione spetta al giudice del merito, la cui valutazione non è sindacabile nel giudizio di legittimità, ove congruamente motivata (conf., ex multis, Cass. n. 1043/2015; Cass. n. 7681/2014).

Il giudice di appello, con accertamento in fatto, ha dato atto dei vari eventi succedutisi nel tempo ed ha escluso che vi fosse una colpevole inerzia da parte del Comune, attesa la complessità degli accertamenti richiesti, di modo che la censura della ricorrente mira a contrastare un giudizio che risulta riservato esclusivamente al giudice di merito, e come tale non suscettibile di sindacato in questa sede.

Ma proprio con specifico riferimento alla tipologia di illecito contestato, occorre ricordare come anche di recente questa Corte abbia precisato che (Cass. n. 14592/2019) in materia di sanzioni amministrative, l’escavazione abusiva del terreno per estrazione e trasporto di materiali derivati, costituisce illecito permanente, il cui momento consumativo è caratterizzato da una situazione giuridica già realizzata e che si protrae nel tempo fino a che perdura la condotta illecita del contravventore; ne consegue che il termine di novanta giorni per la notifica del verbale di accertamento decorre dalla data di cessazione della permanenza ovvero, quando non vi sia la prova di tale cessazione, dalla data dell’accertamento della violazione.

In motivazione è stato evidenziato che la consumazione dell’illecito permanente in questione prosegue non solo se continua l’attività illecita di scavo, ma anche ove i responsabili siano rimasti inerti, non attivandosi per l’eliminazione della prodotta alterazione del suolo e del sottosuolo in assenza della prescritta autorizzazione e, quindi, non provvedendo alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi.

Pertanto, la permanenza persiste fin quando non ne vengano eliminati gli effetti nella loro materialità od antigiuridicità, ovvero fino al momento in cui lo stato dei luoghi (in cui è stata realizzata illegittimamente la cava) non sia stato ripristinato o la sua alterazione sia stata resa legittima, affermazione questa che rende evidente l’inconferenza delle deduzioni della ricorrente quanto ai vari sopralluoghi effettuati da organi di polizia ovvero all’adozione di un ordine di sospensione dell’attività (avendo il precedente ora richiamato a sua volta escluso l’inesigibilità dell’attività di eliminazione della situazione antigiuridica rilevante sul piano sanzionatorio amministrativo, a causa della sottoposizione del sito a sequestro penale, poichè l’attività di ripristino – a fronte di un ordine adottato in merito dalla competente autorità amministrativa – sarebbe stata eseguibile ad opera dei responsabili previo ottenimento, su loro legittima iniziativa, del dissequestro dell’area da parte del giudice penale finalizzato proprio a rendere possibile l’eliminazione degli effetti illegali della condotta e la rimessione in pristino).

Occorre poi ricordare che (Cass. n. 24528/2018), in tema di sanzioni amministrative per coltivazione di sostanze minerali di cava in eccedenza rispetto ai quantitativi autorizzati, nel caso in cui (come, nella specie, ai sensi delle leggi regionali della Lombardia n. 18 del 1982 e n. 14 del 1998) la sanzione pecuniaria è commisurata alla quantità del materiale abusivamente estratto, l’accertamento del fatto materiale integrante l’infrazione non può ritenersi completato con la generica constatazione dell’abusiva estrazione di materiale, ma soltanto con la esatta quantificazione del materiale estratto ed il deposito, presso il soggetto competente all’irrogazione della sanzione, della definitiva relazione del tecnico incaricato dell’accertamento, sicchè è soltanto da questo momento che, pertanto, può decorrere il termine di novanta giorni previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 14 per la notificazione al trasgressore degli estremi dell’infrazione commessa (conf. Cass. n. 11464/2003), principio questo al quale occorre dare continuità e che conforta vieppiù l’incensurabilità della decisione gravata.

4. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione della L.R. Lombardia n. 14 del 1998, art. 29, comma 2 atteso che, pur essendo emerso all’esito del giudizio, ed alla luce delle conclusioni dell’ausiliario d’ufficio, che il quantitativo illecitamente escavato fosse inferiore a quello oggetto dell’ordinanza opposta, non è stato consentito all’opponente di poter beneficiare della modalità di pagamento della sanzione in misura ridotta, e ciò sebbene fosse risultata erronea la determinazione della sanzione irrogata.

Il motivo è infondato.

La sentenza gravata ha correttamente fatto richiamo al principio espresso da questo giudice secondo cui (Cass. n. 3447/2007) nell’ambito di un procedimento di opposizione a sanzione amministrativa, il giudice non è tenuto a pronunciarsi sulla domanda di rimessione in termini per il pagamento in forma ridotta, essendo quella forma di pagamento alternativa al ricorso in opposizione e non introducibile all’interno di questo, anche in relazione alla perentorietà del termine per la presentazione L. n. 689 del 1981, ex art. 16.

Nè può ritenersi che tale conclusione determini un ingiustificato pregiudizio all’interesse del trasgressore ad avvalersi di tale più favorevole modalità di estinzione dell’illecito, in quanto, anche a voler sorvolare sul fatto che nella specie l’opposizione della ricorrente non era limitata solo a contestare il quantum della sanzione, ma investiva anche l’an dell’illecito, va ricordato che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 11034/1997), con riguardo al pagamento delle sanzioni amministrative in misura ridotta, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 16 nel caso in cui la contestazione del trasgressore sia limitata alla sola entità della sanzione, egli ha diritto di versare la somma che ritiene dovuta, senza essere vincolato alla determinazione (eventualmente erronea) della sanzione contenuta nel verbale di accertamento, il quale, quindi, non può costituire ostacolo all’oblazione stessa (conf. Cass. n. 5615/2003; Cass. n. 8456/2006).

Inoltre, Cass. n. 11139/1994 ha specificato che, ove l’autorità amministrativa competente, non ritenendo sufficiente il versamento, emani l’ordinanza-ingiunzione, l’interessato ha l’onere di proporre opposizione, non contestando la sussistenza della violazione, ma sostenendo che l’entità della somma dovuta è quella per la quale egli ha proceduto al pagamento in misura ridotta, essendo invece escluso che sia possibile effettuare il pagamento in misura ridotta dopo che il giudizio di opposizione all’ordinanza-ingiunzione si sia concluso con la riduzione della sanzione.

Ne discende che la ricorrente, ove avesse inteso limitarsi a contestare solo il quantum della sanzione, ben avrebbe potuto provvedere al pagamento in misura ridotta della somma invece ritenuta congrua, ma avendo invece inteso contestare anche l’effettiva ricorrenza dell’illecito, la proposizione dell’opposizione risulta preclusiva della facoltà di estinzione della sanzione con il pagamento in misura ridotta.

Il motivo deve quindi essere rigettato.

5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

6. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese di legittimità, che liquida in complessivi Euro 10.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2021

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