Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3675 del 17/02/2010

Cassazione civile sez. un., 17/02/2010, (ud. 02/02/2010, dep. 17/02/2010), n.3675

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente –

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente di Sezione –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

Mulazzani G & G s.r.l., in persona del legale rappresentante

pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Gracchi 128,

presso l’avv. Pettinato Salvatore, che la rappresenta e difende,

giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro

tempore, e Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e

difende per legge;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale delle

Marche (Ancona), Sez. n. 8, n. 35/8/00, del 27 marzo 2000, depositata

il 16 giugno 2000, non notificata;

Udita la relazione svolta nella Pubblica Udienza del 2 febbraio 2010

dal Consigliere Dott. Raffaele Botta;

Uditi l’avv. Salvatore Pettinato per la società ricorrente e l’avv.

Paolo Gentili per l’Avvocatura Generale dello Stato;

Udito il P.G., nella persona dell’Avvocato Generale Dott. Domenico

Iannelli, che ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità

del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La controversia concerne l’impugnazione di un avviso di rettifica dell’IVA per l’anno 1993, con il quale si accertava un maggior debito IVA e si irrogavano le prescritti sanzioni, richiedendosi gli interessi di legge, sulla scorta dell’individuazione di otto rilievi addebitati alla società contribuente.

La Commissione adita accoglieva parzialmente il ricorso, rideterminando il reddito imponibile. L’appello del contribuente veniva respinto con la sentenza in epigrafe, la quale accoglieva l’appello incidentale dell’Ufficio.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso la società contribuente con quattro motivi.

Resistevano il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate con controricorso.

Su concorde richiesta delle parti di estinzione del processo per intervenuta definizione della lite, L. n. 289 del 2002, ex art. 16, la Quinta Sezione Civile di questa Corte, con ordinanza n. 25692 del 2009, rilevato, da un lato, che le disposizioni di cui alla L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9, sono state dichiarate in contrasto con l’ordinamento comunitario dalla Corte di Giustizia con sentenza del 17 luglio 2008 (in causa C-132/06), e, dall’altro, che la richiesta di estinzione del processo presentata dall’amministrazione ricorrente costituisce un ostacolo processuale all’esame del merito in ragione della conseguente inammissibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, e ritenuto che la questione fosse questione di massima di particolare importanza ne ha rimesso l’esame alle Sezioni Unite della stessa Corte, ragione per la quale la causa è chiamata all’udienza odierna. L’Avvocatura Generale dello Stato ha depositato memoria con la quale sostanzialmente dichiara di “ritirare” la richiesta di estinzione del giudizio a seguito del condono, perchè la richiesta non può che essere condizionata alla validità del condono, che tale non può più essere ritenuto alla luce della sentenza della Corte di Giustizia.

Diritto

MOTIVAZIONE

1. Con la sentenza del 17 luglio 2008 (in causa C-132/06), pronunciata in una procedura di infrazione promossa dalla Commissione Europea, la Corte di Giustizia ha ritenuto incompatibili la L. n. 289 del 2009, artt. 8 e 9 con l’art. 10 del Trattato e con gli artt. 2 e 22 della cd. sesta direttiva in materia di IVA. In particolare, la Corte di Giustizia ha rilevato che la L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9, pregiudicano “seriamente il corretto funzionamento del sistema comune dell’IVA …, introducendo rilevanti differenze di trattamento tra i soggetti passivi sul territorio italiano”, alterando “il principio di neutralità fiscale” e violando “l’obbligo di garantire una riscossione equivalente dell’imposta in tutti gli Stati membri” (par. 43-44). Le predette disposizioni, “introducendo una misura di condono appena dopo la scadenza dei termini entro cui i soggetti passivi avrebbero dovuto pagare l’IVA e richiedendo il pagamento di un importo assai modesto rispetto a quello effettivamente dovuto”, consentono “ai soggetti passivi interessati di sottrarsi definitivamente agli obblighi ad essi incombenti in materia di IVA, anche se le autorità fiscali nazionali avrebbero potuto individuare almeno una parte di questi contribuenti durante i quattro anni precedenti alla data di prescrizione dell’imposta normalmente dovuta” (par. 52).

2. Il problema da affrontare è se la predetta sentenza comporti l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare, considerandole illegittime, le disposizioni della L. n. 289 del 2002.

La risposta non può che essere negativa, in quanto le norme considerate, da un lato, gli art. 8 e 9, predetta Legge – dichiarate incompatibili con il diritto comunitario dalla ricordata sentenza della Corte di Giustizia, la quale, peraltro, essendo pronunciata nell’ambito di una procedura di infrazione che prelude all’applicazione possibile di una sanzione deve essere interpretata restrittivamente – e dall’altro l’art. 16, stessa legge, hanno tra esse, oggetti, scopi e rationes legis assolutamente diversi.

Le prime due concernono misure di definizione dell’imposta, la terza, invece, concerne misure di definizione delle liti pendenti, in funzione di una riduzione del contenzioso in atto, secondo parametri che non hanno alcun collegamento con la definizione dell’imposta (e in particolare con la tipologia delle varie imposte), ma rispondono a due criteri fondamentali: a) il valore della lite; b) l’esito parziale della lite medesima al momento della domanda di definizione, commisurando l’importo dovuto dal contribuente a seconda che al momento della presentazione della domanda di definizione della lite sia soccombente l’amministrazione, o il contribuente o non vi sia stata ancora pronuncia.

3. Emerge con tutta evidenza che la disposizione in esame non prevede alcuna rinuncia all’accertamento dell’imposta, il cui potere è già stato esercitato (ed è contestato nella sua legittimità), bensì esclusivamente autorizza l’amministrazione finanziaria a “transigere” l’esito (sempre incerto) della lite a determinate condizioni, che rappresentano i limiti dell’offerta di “disponibilità” alla transazione. Si tratta di una misura meramente deflattiva del contenzioso in atto, che consente all’amministrazione di concludere in un modo comunque positivo (con un incasso) la propria contestata azione accertativa.

Sicchè non c’è, e non ci può essere, alcuna ragione per disapplicare la norma in esame, in conseguenza della pronuncia della Corte di Giustizia in ordine al conflitto tra la L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9 e la direttiva IVA. 4. Il perfezionamento della “transazione”, certificato dalla concorde richiesta delle parti, depositata in atti, che venga dichiarata l’estinzione del giudizio, determina, secondo il “diritto vivente”, la cessazione della materia del contendere, in conseguenza della quale il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, essendo venuto meno l’interesse alla definizione del giudizio e, quindi, ad una pronuncia sul merito dell’impugnazione, facendo venir meno il potere- dovere del giudice di pronunciare sull’originario thema decidendum (Cass. S.U. nn. 368 del 2000; 78 del 2003; 14059 del 2004; Cass. nn. 6083 del 2002; 1205 del 2003; 11176 del 2004; 13565 e 14250 del 2005).

Nel caso disciplinato dalla L. n. 289 del 2002, art. 16, è la stessa legge (comma 8) a stabilire che il provvedimento da adottare, quando la regolarità della definizione della lite sia attestata dall’amministrazione, è la dichiarazione di estinzione del processo.

In questo senso deve essere, pertanto, risolta la controversia in esame, con la compensazione delle spese tra le parti stante la soluzione transattiva, concordemente voluta dalle parti.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Dichiara estinto il processo. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2010

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