Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3674 del 17/02/2010

Cassazione civile sez. un., 17/02/2010, (ud. 02/02/2010, dep. 17/02/2010), n.3674

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente –

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente di Sezione –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro

tempore, e Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e

difende per legge;

– ricorrenti e controricorrenti a ricorso incidentale –

contro

ILMO Illuminazione di Lorato Danilo & C s.a.s., in persona del

legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma,

Piazzale Clodio 14, presso l’avv. Lo Bianco Angelo, rappresentata e

difesa dall’avv. Pace Francesco, giusta delega a margine del

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia (Milano), Sez. n. 41, n. 389/41/00, del 4 dicembre 2000,

depositata il 3 gennaio 2001, non notificata;

Udita la relazione svolta nella Pubblica Udienza del 2 febbraio 2010

dal Consigliere Dott. Raffaele Botta;

Uditi l’avv. Paolo Gentili per l’Avvocatura Generale dello Stato e

l’avv. Fabio Pace per delega per la società controricorrente e

ricorrente incidentale;

Udito il P.G., nella persona dell’Avvocato Generale Dott. Domenico

Iannelli, che ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità

dei ricorsi per sopravvenuta carenza di interesse.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La controversia concerne l’impugnazione di una cartella di pagamento emessa a seguito del controllo relativo alla dichiarazione integrativa presentata il 30 giugno 1992 nella quale la ditta individuale Lorato Danilo, poi conferita nella Ilmo illuminazione di Lorato Camillo & C s.a.s., aveva proceduto al riporto del credito 1990 al 1991, omettendo, però, di riversarlo per intero a titolo di imposta integrativa.

La Commissione adita accoglieva il ricorso, ritenendo la decadenza dell’Ufficio dal potere di procedere ad iscrizione a ruolo della maggiore imposta liquidata a seguito di domanda di condono per l’anno 1992, in quanto la notifica della cartella esattoriale era avvenuta successivamente alla scadenza del termine per l’accertamento. La decisione era confermata in appello, con la sentenza in epigrafe, avverso la quale il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate proponevano ricorso per cassazione con due motivi con i quali lamentava la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 115 e 116 c.p.c., D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 17, 18 e 25) e vizio di motivazione.

Si costituiva la società ILMO con controricorso e contestuale ricorso incidentale condizionato, articolato in cinque motivi, con cui contestava nella forma e nel merito la richiesta dell’Amministrazione finanziaria, chiedendo in via principale la conferma della sentenza impugnata ed in via subordinata la cassazione della sentenza stessa per i motivi indicati.

Con memoria successivamente depositata la società resistente, premesso che era entrata in vigore la disciplina del condono ex L. n. 289 del 2002 e che aveva ricevuto da parte del Concessionario del servizio di riscossione comunicazione della possibilità di estinguere il debito ai sensi e per gli effetti dell’art. 12 della legge citata, rappresentava di aver pagato la somma quantificata dal concessionario, richiedendo, quindi, l’estinzione del giudizio per sopravvenuta cessazione della materia del contendere. La Quinta Sezione Civile di questa Corte, con ordinanza n. 25566 del 2009, rilevato, da un lato, che le disposizioni di cui alla L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9, sono state dichiarate in contrasto con l’ordinamento comunitario dalla Corte di Giustizia con sentenza del 17 luglio 2008 (in causa C-132/06), pronunciata in una procedura di infrazione a carico dell’Italia, e, dall’altro, che la richiesta di estinzione del processo presentata dalla società contribuente costituisce un ostacolo processuale all’esame del merito in ragione della conseguente inammissibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, e ritenuto che la questione fosse questione di massima di particolare importanza ne ha rimesso l’esame alle Sezioni Unite della stessa Corte, ragione per la quale la causa è chiamata all’udienza odierna. La società contribuente ha depositato ulteriore memoria nella quale ribadisce la tesi che l’adesione al condono previsto dalla L. n. 289 del 2002, art. 12, avrebbe determinato la cessazione della materia del contendere, sostenendo la inapplicabilità nel caso di specie della sentenza della Corte di Giustizia.

Diritto

MOTIVAZIONE

1. Preliminarmente deve essere disposta la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2. Il punto di partenza per la soluzione della questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite non può che essere la richiamata sentenza della Corte di Giustizia. Si tratta di una sentenza pronunciata in una procedura di infrazione promossa dalla Commissione per incompatibilità degli artt. 8 (“Integrazione degli imponibili per gli anni pregressi”, che consente ai contribuenti, per i quali non ricorrono le circostanze elencate nel comma 10 della medesima norma, di presentare una dichiarazione integrativa relativamente ai periodi di imposta per i quali i termini per la presentazione della dichiarazione siano scaduti entro il 31 ottobre 2002) e 9 (“Definizione automatica per gli anni pregressi”, cd. “condono tombale”, che consente ai contribuenti, per i quali non ricorrono le circostanze elencate nel comma 14 della medesima norma, di definire i redditi con il versamento di alcune somme normativamente predeterminate) della L. n. 289 del 2009 con norme del Trattato e della cd. sesta direttiva in materia di IVA. La norma del Trattato che si assume violata è l’art. 10 che testualmente afferma: “Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle Istituzioni della Comunità. Essi facilitano quest’ultima nell’adempimento dei propri compiti. Essi si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente Trattato”. Le norme della direttiva in materia IVA, 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE, con cui si individua il contrasto sono, invece, l’art. 2 (secondo cui “sono soggette all’IVA le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso all’interno del Paese da un soggetto passivo che agisce in quanto tale, nonchè le importazioni di beni”) e art. 22 (in particolare, il punto 4, secondo cui “Ogni soggetto passivo deve presentare una dichiarazione entro un termine che dovrà essere stabilito dagli stati membri…”, il punto 5, secondo cui “Ogni soggetto passivo deve pagare l’importo netto dell’IVA al momento della presentazione periodica. Gli Stati membri possono tuttavia stabilire un’altra scadenza per il pagamento di questo importo o per la riscossione di acconti provvisori”, il punto 8, secondo cui “…

gli stati membri hanno la facoltà di stabilire altri obblighi che essi ritengono necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’imposta e ad evitare le frodi”).

3. I Giudici Comunitari, pur riconoscendo che gli Stati membri godono di una certa libertà in relazione ai modi da utilizzare per garantire il rispetto degli obblighi a carichi dei soggetti passivi di imposta, affermano che tale libertà, tuttavia, “è limitata dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie della Comunità e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti, e questo sia all’interno di uno degli Stati membri che nell’insieme di tutti loro” (par. 39). In questa prospettiva, la Corte di Giustizia rileva “ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 8, i contribuenti che non hanno osservato gli obblighi relativi agli esercizi d’imposta compresi tra il 1998 e il 2001 – ovvero, in determinati casi, un anno soltanto prima dell’adozione di questa legge – possono sottrarsi ad ogni accertamento e alle sanzioni applicabili fino a un limite equivalente al doppio dell’importo dell’IVA che risulta nella dichiarazione integrativa”. La rinuncia all’accertamento da parte delle autorità italiane, nonostante possa essere “applicabile, in linea di principio, qualora il contribuente dichiari e corrisponda l’importo che avrebbe dovuto pagare inizialmente”, tuttavia, se l’accertamento “può essere eseguito solo per gli importi superiori al doppio di quelli che il soggetto passivo ha comunicato nella dichiarazione integrativa dell’IVA”, ne consegue una situazione “tale da indurre fortemente i contribuenti a dichiarare soltanto una parte del debito effettivamente dovuto”, sottraendosi così “definitivamente agli obblighi ad essi incombenti di dichiarare e di pagare l’importo dell’IVA normalmente dovuto per i periodi d’imposta compresi fra il 1998 ed il 2001” (par. 40). Quanto alla L. n. 289 del 2002, art. 9, la Corte di Giustizia osserva che l’importo dell’IVA dovuto “si discosta maggiormente da quello che il contribuente avrebbe dovuto pagare”, dato che “un soggetto passivo che non ha presentato la dichiarazione relativa agli esercizi di imposta compresi tra il 1998 ed il 2001 può sottrarsi ad ogni controllo e a qualunque sanzione amministrativa tributaria e penale, versando un importo corrispondente al 2% dell’IVA dovuta sulle cessioni di beni e sulle prestazioni di servizi da lui effettuate ed un importo pari al 2% dell’IVA detratta nel medesimo periodo. Questa percentuale è dell’I,5% per un’imposta esigibile o per un’imposta detratta che superi EUR 200.000 e dell’1% per un importo eccedente EUR 300.000.

Qualora l’importo dovuto in applicazione dell’art. 9 superi un determinato livello, la parte eccedente tale importo è ridotta dell’80%. Gli importi che devono essere pagati non possono essere inferiori a EUR 500. Ne consegue che la L. n. 289 del 2002, art. 9 consente ai contribuenti che non hanno osservato gli obblighi in materia di IVA, relativi agli esercizi d’imposta compresi tra il 1998 ed il 2001, di sottrarsi definitivamente a questi ultimi e alle sanzioni dovute per il mancato rispetto degli stessi, versando una somma forfettaria invece di un importo proporzionale al fatturato realizzato. Orbene, queste somme forfettarie sono sproporzionate rispetto all’importo che il soggetto passivo avrebbe dovuto versare sulla base del volume d’affari risultante dalle operazioni da lui effettuate, ma non dichiarate” (par. 41-42).

Dette disposizioni pregiudicano, ad avviso dei giudici europei, “seriamente il corretto funzionamento del sistema comune dell’IVA …, introducendo rilevanti differenze di trattamento tra i soggetti passivi sul territorio italiano”, alterando “il principio di neutralità fiscale” e violando “l’obbligo di garantire una riscossione equivalente dell’imposta in tutti gli Stati membri” (par.

43-44). In particolare, le predette disposizioni, “introducendo una misura di condono appena dopo la scadenza dei termini entro cui i soggetti passivi avrebbero dovuto pagare l’IVA e richiedendo il pagamento di un importo assai modesto rispetto a quello effettivamente dovuto”, consentono “ai soggetti passivi interessati di sottrarsi definitivamente agli obblighi ad essi incombenti in materia di IVA, anche se le autorità fiscali nazionali avrebbero potuto individuare almeno una parte di questi contribuenti durante i quattro anni precedenti alla data di prescrizione dell’imposta normalmente dovuta” (par. 52). Sicchè “occorre ritenere fondato il ricorso proposto dalla Commissione e dichiarare che la Repubblica italiana, avendo previsto alla L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9 una rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi d’imposta, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 2 e 22 della sesta direttiva nonchè dell’art. 10 Trattato CE” (par. 53).

4. Il problema da affrontare è se la predetta sentenza comporti l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare, considerandole illegittime, le disposizioni della L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9, e, in particolare se vi possano essere effetti, e nel caso quali, della decisione dei giudici europei anche in ordine alle disposizioni di cui all’art. 12 della medesima legge. La sentenza della Corte di Giustizia investe specificamente due sole norme della L. n. 289 del 2002, che vengono censurate non tout court, ma per le particolari modalità in esse previste, tali da consentire ai contribuenti “infedeli”, tanto nel caso del condono con dichiarazione integrativa (art. 8), quanto nel caso del cd. “condono tombale” (art. 9), “di sottrarsi definitivamente agli obblighi ad essi incombenti in materia di IVA”. La Corte di Giustizia, in buona sostanza, non ascrive alla fattispecie di infrazione considerata, la astratta possibilità che uno Stato membro, nell’esercizio della sua discrezionalità, possa adottare misure di definizione agevolata dell’imposta, ma circoscrive tale possibilità entro i limiti in cui la misura di agevolazione consenta una reale emersione dell’evasione, e non si risolva in una definitiva rinuncia all’accertamento e alla riscossione dell’imposta.

La sentenza in questione, pertanto, investe esclusivamente le misure di definizione agevolata dell’imposta adottate dal legislatore ed essendo pronunciata nell’ambito di una procedura di infrazione che prelude all’applicazione possibile di una sanzione deve essere interpretata restrittivamente. La stessa Corte di Giustizia con sentenza del 10 settembre 2009 in causa C-457/07, ha avuto modo di precisare la necessità di una interpretazione restrittiva delle sentenze pronunciate in esito ad una procedura di infrazione, affermando che “nel procedimento di esecuzione di una sentenza che abbia previamente accertato l’inadempimento di obblighi comunitari da parte di uno Stato membro, la Commissione deve attenersi alla stretta corrispondenza tra il giudicato dell’originario procedimento di infrazione e l’oggetto del successivo procedimento di esecuzione”.

Nel caso sottoposto all’esame di queste Sezioni Unite, tuttavia, non si pone un problema che concerne misure di definizione agevolata dell’imposta, in relazione alle quali potrebbe sorgere la questione della eventuale disapplicazione, da parte del giudice nazionale, delle norme interne che tali misure abbiano disposto e ritenute, dalla Corte di Giustizia, incompatibili con il diritto comunitario.

Qui si pone la questione se una norma, diversa da quelle di cui alla L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9, investite dalla sentenza della Corte di Giustizia, e cioè l’art. 12 della medesima legge, possa avere, da quest’ultima sentenza, conseguenze in sede di interpretazione conforme da parte del giudice nazionale che portino anche alla sua eventuale disapplicazione.

5. La norma che interessa il presente giudizio concerne una fattispecie definita da alcuni come “rottamazione dei ruoli” e prevede che “relativamente ai carichi inclusi in ruoli emessi da uffici statali e affidati ai concessionari del servizio nazionale della riscossione fino al 31 dicembre 2000, i debitori possono estinguere il debito senza corrispondere gli interessi di mora e con il pagamento: a) di una somma pari al 25 per cento dell’importo iscritto a ruolo; b) delle somme dovute al concessionario a titolo di rimborso per le spese sostenute per le procedure esecutive eventualmente effettuate dallo stesso”.

Non si tratta, come è evidente, di una norma che prevede la definizione agevolata dell’imposta (come sono le disposizioni di cui alla L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9, direttamente investite dalla sentenza della Corte di Giustizia), nè di una norma che regola la definizione delle liti pendenti (come è la disposizione di cui all’art. 16 della medesima legge), ma di una norma che interviene nella fase della riscossione, riducendo l’importo che il contribuente deve pagare ad una percentuale del dovuto.

Questa situazione normativa non appare assolutamente estranea alla ratio decidendi della richiamata sentenza della Corte di Giustizia, in particolare con riferimento a quanto ivi è affermato ai punti 38 e 39, laddove i giudici europei rilevano che se è vero che “nell’ambito del sistema comune dell’IVA, gli Stati membri sono tenuti a garantire il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi e beneficiano, a tale riguardo, di una certa libertà in relazione, segnatamente, al modo di utilizzare i mezzi a loro disposizione”; è altrettanto vero che “questa libertà, tuttavia, è limitata dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie della Comunità e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti, e questo sia all’interno di uno degli Stati membri che nell’insieme di tutti loro.

La Corte ha dichiarato che la sesta direttiva deve essere interpretata in conformità al principio di neutralità fiscale inerente al sistema comune dell’IVA, in base al quale gli operatori economici che effettuano le stesse operazioni non devono essere trattati diversamente in materia di riscossione dell’IVA (sentenza 16 settembre 2004, causa C-382/02, Cimber Air, Racc. pag. 1-8379, punto 24). Ogni azione degli Stati membri riguardante la riscossione dell’IVA deve rispettare questo principio”.

6. La “rottamazione” delle cartelle inerenti la riscossione dell’IVA non può considerarsi – alla luce di una interpretazione adeguatrice della norma, cui il giudice nazionale è tenuto di fronte ad una rilevata incompatibilità con il diritto comunitario di una rinuncia definitiva dello Stato alla riscossione dell’imposta negli importi dovuti – compatibile con il sistema comune dell’IVA. Una riprova la si trova nella stessa disposizione in esame, ove al comma 2-bis è stabilito che “restano comunque dovute per intero le somme relative ai dazi costituenti risorse proprie dell’Unione europea”, un ragionamento che ben può ripetersi anche per quel che concerne l’IVA. Se è pur vero che la norma di cui si discute non introduce una discriminazione tra i contribuenti, a tutti essendo assicurato lo stesso trattamento, è altrettanto vero che essa non risponde al principio di effettività, in quanto non garantisce la riscossione di quanto dovuto dal contribuente in esito ad un accertamento definitivo di un debito tributario per il quale è stata emessa la cartella di pagamento (preliminare alla possibile ed eventuale esecuzione forzata). La percentuale del 25% del debito iscritto a ruolo, pur non essendo di carattere assolutamente marginale, come può essere quella indicata dall’art. 9 della medesima legge e considerata dalla Corte di Giustizia, non appare tale da non determinare una sostanziale rinuncia alla riscossione: nè può dirsi che si tratta di una misura per favorire il pagamento delle somme iscritte a ruolo, in quanto manca come presupposto, non essendo tale misura condizionata alla esistenza di una contestazione sul ruolo da parte del contribuente, uno stato di incertezza sulla effettiva riscuotibilità del debito.

Sicchè la L. n. 289 del 2002, art. 12, nella parte in cui comporta, mediante la cd. “rottamazione” delle cartelle di pagamento, una rinuncia parziale (riducendo il dovuto ad una percentuale dell’intero) alla riscossione dell’IVA non è compatibile con la direttiva IVA, in conseguenza di una interpretazione adeguatrice della norma alla luce di quanto affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 17 luglio 2008 (in causa C-132/06), pronunciata in una procedura di infrazione a carico dell’Italia. La predetta norma deve essere, pertanto, disapplicata, con la conseguente inefficacia del pagamento parziale della cartella ad estinguere il debito tributario della società contribuente. Non si pone nel caso di specie, peraltro, una ipotesi di cessazione della materia del contendere, non sussistendo in atti la dichiarazione dell’amministrazione di essere soddisfatta interamente della pretesa tributaria esercitata o la presentazione di una specifica richiesta di estinzione del giudizio. 7. Pertanto deve essere affermato il seguente principio di diritto: “A seguito della sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 17 luglio 2008 in causa C- 132/06 con la quale, in esito ad una procedura di infrazione promossa dalla Commissione Europea, è stata dichiarata l’incompatibilità con il diritto comunitario della L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9 relativamente alla disposta condonabilità dell’IVA alle condizioni in tali norme previste, il giudice nazionale, alla luce di una interpretazione adeguatrice cui egli è tenuto di fronte ad una rilevata incompatibilità con il diritto comunitario di una rinuncia definitiva dello Stato alla riscossione dell’imposta negli importi dovuti, deve disapplicare l’art. 12 della medesima legge, nella parte in cui, relativamente all’IVA, consente di definire una cartella esattoriale con il pagamento del 25% dell’importo iscritto a ruolo, in quanto la predetta disposizione comporta una rinuncia definitiva dell’amministrazione alla riscossione di un credito già definitivamente accertato”. 8. Deve, quindi, esaminarsi il ricorso principale dell’amministrazione le cui censure denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 17, 18 e 25 e vizio di motivazione, affermando l’erroneità della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta decadenza dell’Ufficio per essere stata eseguita la notifica della cartella in data 2 febbraio 1998, senza tener conto del fatto che l’iscrizione a ruolo era intervenuta entro il 31 dicembre 1997.

Il motivo è fondato sulla base del principio più volte affermato da questa Corte secondo cui “in tema di condono fiscale, la L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 39, comma 3, dispone che gli uffici provvedano al controllo delle dichiarazioni integrative ed alla liquidazione delle imposte dovute in base alle dichiarazioni stesse entro il termine di decadenza di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 17, comma 1 (nel testo vigente prima della sostituzione attuata dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 6, comma 1, a decorrere dal 1 luglio 1999), ossia entro il termine di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1 (il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione), calcolato con decorrenza dall’anno 1992. Poichè ai sensi della medesima L. n. 413 del 1991, art. 32, comma 2, e della successiva proroga introdotta dal D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, art. 3, comma 1, convertito, con modificazioni, in L. 24 marzo 1993, n. 75, il termine inizialmente concesso al contribuente per la presentazione della dichiarazione integrativa è stato conclusivamente differito al 20 giugno 1993, deve ritenersi che il termine per la liquidazione delle imposte decorra non dal momento in cui il contribuente abbia provveduto agli adempimenti a suo carico ma dalla nuova scadenza e sia, quindi, a sua volta scaduto il 31 dicembre 1998” (Cass. nn. 20780 del 2005; 11838 del 2006; 11711 del 2007; 14894 del 2008). Sicchè deve considerarsi nei termini la notifica della cartella eseguita nel caso di specie in data 2 febbraio 1998.

9. Pertanto, deve essere accolto il ricorso principale, con assorbimento del primo, terzo, quarto e quinto motivo del ricorso incidentale condizionato, dovendo le questioni ivi proposte essere esaminate nel giudizio di rinvio, essendosi risolto il giudizio nel merito con la dichiarata decadenza dell’Ufficio, ritenendo assorbita ogni altra questione. Deve essere rigettato, invece, il secondo motivo del ricorso incidentale, in quanto sul preteso difetto di legittimazione ad essere soggetto passivo dell’imposizione della società originaria ricorrente, deve ritenersi formato il giudicato, non essendo il ricorso autosufficiente sul punto, non precisando dove e in quali forme questa eccezione sia stata formulata nel giudizio di appello. La sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio della causa ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che provvedere anche in ordine alle spese della presente fase del giudizio.

PQM

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Riunisce i ricorsi. Accoglie il ricorso principale, rigetta il secondo motivo del ricorso incidentale condizionato, dichiarando assorbiti il primo, terzo, quarto e quinto motivo del medesimo ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2010

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