Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3658 del 13/02/2020

Cassazione civile sez. I, 13/02/2020, (ud. 08/11/2019, dep. 13/02/2020), n.3658

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9751/2016 proposto da:

G.V., G.F., elettivamente domiciliati in

Roma, Via degli Scipioni n. 110, presso lo studio dell’avvocato

Machetta Marco, rappresentati e difesi dagli avvocati Dente Angelo,

Giorgi Vittorio, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Gesad Officina Meccanica S.r.l., in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Viale Tiziano n. 80,

presso lo studio dell’avvocato Ricciardi Paolo, rappresentata e

difesa dall’avvocato Ricciardi Stefano, giusta procura a margine del

controricorso;

contro

A.G., A.L., A.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 257/2015 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 18/04/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/11/2019 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Su ricorso di F. e G.V. era ingiunto a Gesad Officina Meccanica s.r.l. il pagamento della somma complessiva di Euro 142.596,12: importo domandato a titolo di restituzione di un finanziamento operato dagli istanti, quali soci, in favore della società intimata.

Gesad proponeva opposizione deducendo che i G. avevano ceduto a terzi i crediti vantati nei propri confronti e che pertanto nulla era dovuto ai predetti. Chiedeva inoltre di chiamare in giudizio R., G. e A.L., cessionari del credito.

Nel giudizio di opposizione gli ingiungenti sostenevano di aver ceduto agli A. solo le quote sociali, non anche il credito avente ad oggetto il rimborso del finanziamento, mentre i terzi chiamati aderivano alla prospettazione della società opponente.

Il Tribunale di Salerno decideva la causa con sentenza con cui accoglieva l’opposizione e revocava il decreto ingiuntivo. La pronuncia si basava sul riconosciuto trasferimento del credito azionato in via monitoria agli A..

2. – Il gravame proposto era poi respinto dalla Corte di appello di Salerno con sentenza del 10 aprile 2015. Il giudice distrettuale confermava la decisione del Tribunale fondandola su più rilievi: l’utilizzabilità, sul piano interpretativo, dell’argomento basato sulla sproporzione tra il prezzo corrisposto dai cessionari per l’acquisto delle quote (Euro 898.635,00) e il valore nominale di queste (Euro 49.400,00); la non decisività della intitolazione dell’atto come “cessione di quote a responsabilità limitata” a fronte del contenuto della pattuizione, che prevedeva i cessionari restassero “investiti di ogni diritto e ragione ai cedenti spettante nei confronti della società”; l’esito della prova testimoniale, di cui il giudice di primo grado aveva dato “una lettura esauriente e motivata”.

3. – I G. hanno proposto un ricorso per cassazione articolato in sei motivi illustrati da memoria. Resiste con controricorso Gesad.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2469 c.c.. La sentenza, ad avviso dei ricorrenti, avrebbe violato il principio per cui nella valutazione dell’oggetto del trasferimento delle quote sociali ex art. 2469 c.c. non deve tenersi conto dell’oggetto “mediato” del trasferimento, in quanto le quote, quali beni di “secondo grado”, sono distinte e separate dai beni e diritti compresi nel patrimonio sociale e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione e alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all’esercizio dell’attività sociale: a tali posizioni, spiegano gli istanti, le parti possono attribuire un valore del tutto svincolato da ogni rapporto col patrimonio sociale, a seconda dei loro interessi; è dedotto inoltre che il principio in questione escluderebbe la possibilità che, “nell’interpretare l’oggetto dell’atto di trasferimento, si possa tenere conto di elementi esterni quali il rapporto tra il preteso valore della quota all’atto del trasferimento e gli altri diritti vantati dal socio cedente verso la società”.

Il motivo è infondato.

Il principio secondo cui la cessione delle azioni o delle quote di una società di capitali o di persone fisiche ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta (ad es.: Cass. 19 luglio 2007, n. 16031; Cass. 13 dicembre 2006, n. 26690) è, ad avviso del Collegio, invocato a sproposito. Esso è stato enunciato da questa Corte avendo riguardo al problema dell’applicabilità al contratto di cessione di azioni o quote societarie delle norme sull’annullamento per errore e sulla risoluzione per assenza delle qualità (promesse, o essenziali all’uso) del bene compravenduto. E’ stato osservato, al riguardo, che l’estensione di tali norme alla compravendita di partecipazioni sociali, come è appunto la compravendita di quote di società a responsabilità limitata, suscita particolari problemi, proprio in quanto in detta ipotesi il contratto ha solo come oggetto mediato la quota ideale del patrimonio sociale: in conseguenza – è stato chiarito -, il difetto di qualità previsto dall’art. 1427 c.c. come causa di annullamento e dall’art. 1497 c.c. come causa di risoluzione del contratto, in relazione alla compravendita di partecipazioni sociali, essendo queste attributive di un insieme di diritti ed obblighi in relazione ad una società, può riguardare unicamente la “qualità” dei diritti ed obblighi che in concreto la partecipazione sociale sia idonea ad attribuire: infatti, il valore economico della partecipazione non attiene all’oggetto del contratto, ma alla sfera delle valutazioni motivazionali delle parti, potendo assumere, pertanto, rilievo giuridico solo ove, in relazione alla consistenza economica della partecipazione, siano state previste esplicite garanzie contrattuali, ovvero nel caso di dolo di un contraente, che rende annullabile il contratto in relazione ad ogni tipo di errore determinante del consenso (Cass. 21 giugno 1996, n. 5773, in motivazione).

Come anticipato, i rilievi svolti nel motivo, e fondati sulla indicata diversificazione tra oggetto immediato e oggetto mediato della compravendita di partecipazioni societarie, appaiono non pertinenti alla fattispecie di cui si dibatte. Per un verso, infatti, le argomentazioni svolte dalla Corte di merito risultano dirette a chiarire il significato e la portata del contratto di cessione intercorso tra i G. e gli A., onde si collocano su di un piano – quello ermeneutico – del tutto distinto da quello su cui si è misurata questa S.C. nella richiamata giurisprudenza (giurisprudenza che si è occupata – come si è detto – dei rimedi di cui dispone l’acquirente delle azioni o delle quote della società in ipotesi di carenze o vizi incidenti sui beni ricompresi nel patrimonio sociale); per altro verso, la pronuncia impugnata, contrariamente a quanto pare ritengano i ricorrenti, non ha preso affatto in considerazione il patrimonio della società (o entità facenti parte dello stesso), ma si è limitata a valorizzare, sul piano interpretativo, lo scostamento, veramente ragguardevole, del valore nominale della quota dal prezzo versato dai cessionari, traendo da tale dato (e da altri elementi, richiamati supra, nella narrativa processuale) il convincimento che la cessione avesse ad oggetto anche il diritto di credito al rimborso del finanziamento.

2. – Il secondo motivo lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1325,1346 e 1364 c.c.. Secondo i ricorrenti, la Corte di appello avrebbe errato nel dedurre da un’espressione generale di stile, quale quella contenuta nell’art. 6 del contratto (“il cessionario rimangono investiti di ogni diritto in ragione ai cedenti spettante nei confronti della società”), la circostanza per cui il contratto avrebbe avuto ad oggetto anche il trasferimento, non determinato, nè determinabile, di un diritto diverso, del quale le parti non avevano fatto menzione; nel corpo del motivo viene inoltre osservato come i contraenti non avessero alcun interesse, sul piano fiscale, a far figurare la sola cessione delle quote per il valore loro convenzionalmente attribuito, e a non scindere il valore conferito alle quote da quello imputabile al credito ceduto.

Col terzo motivo è lamentata la violazione falsa applicazione dell’art. 2467 c.c., in relazione agli artt. 1325,1346 e 1364 c.c., oltre che all’art. 1375 c.c.. Assumono gli istanti che la sentenza impugnata era censurabile nella misura in cui aveva affermato che da un atto volto a regolare un determinato rapporto contrattuale – nel caso di specie la cessione di quote societarie – si potesse desumere la volontà delle parti di “disporre di un rapporto del tutto diverso”, anche sul piano della qualificazione giuridica, il quale, per giunta, avrebbe coinvolto un soggetto terzo.

I due motivi, che possono scrutinarsi congiuntamente, sono privi di fondamento.

Gli istanti lamentano la violazione o falsa applicazione dell’art. 1364 c.c.. Nondimeno, l’art. 1364 c.c. non vieta di accertare, secondo le comuni regole dell’interpretazione, se, nella comune intenzione degli stipulanti, l’oggetto del contratto fosse più o meno ampio, indipendentemente dal tenore letterale delle parole usate, e, quindi, non esclude che l’oggetto stesso, quale effettivamente considerato e voluto dai contraenti, possa comprendere anche rapporti non specificamente menzionati: il relativo accertamento è del resto demandato al giudice del merito (Cass. 16 gennaio 1986, n. 250; Cass. 9 luglio 1976, n. 2616: entrambe le pronunce fanno salva la censura motivazionale, censura che oggi va ricondotta nel ristretto ambito segnato da Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054 e che non è stata comunque formulata col ricorso per cassazione). In tal senso l’accertamento della Corte di appello, che ha ritenuto la pattuizione non limitata alla cessione di quote, che pure figurava nell’epigrafe del contratto, avendo riguardo all’entità del prezzo corrisposto, al contenuto della clausola che qui interessa e alle complessive emergenze della prova testimoniale, si sottrae a censura.

La questione, involgente accertamento di fatto, circa l’asserita indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto contrattuale è poi inammissibile, in quanto la sentenza non se ne occupa, nè gli istanti chiariscono se e come la medesima venne sollevata nella precedente fase del giudizio (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430).

Per le medesime ragioni è inammissibile la doglianza, svolta nel secondo motivo, incentrata sui risvolti fiscali dell’operazione.

3. – Con il quarto motivo la sentenza impugnata è censurata per violazione e falsa applicazione delle regole di interpretazione del contratto. Il mezzo è incentrato sulla dedotta inosservanza, da parte del giudice distrettuale, del principio per cui le regole interpretative del contratto non sono utilizzabili al fine di operare una sostituzione dell’interpretazione del giudice alla volontà contrattuale: in particolare, la Corte di appello non avrebbe potuto trarre dal contratto la conclusione per cui lo stesso prevedeva, a fronte della semplice cessione delle quote, il trasferimento dei diritti relativi al finanziamento.

La censura è inammissibile, in quanto finisce per investire la Corte di una indagine che essa non può compiere.

Va osservato che il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito (Cass. 26 maggio 2016, n. 10891; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465), e che le censure vertenti sull’interpretazione del negozio non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile, ma solo una delle plausibili interpretazioni: sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 27 giugno 2018, n. 16987; Cass. 28 novembre 2017, n. 28319).

4. – Il quinto motivo denuncia, ancora, la violazione e falsa applicazione delle norme circa l’interpretazione e l’oggetto del contratto, lamentando la mancanza di una volontà contrattuale con riferimento alla cessione del credito derivante dal finanziamento. Rilevano i ricorrenti che le regole di interpretazione soggettiva del contratto possono trovare applicazione soltanto quando la volontà contrattuale sia dubbia, non quando la stessa sia assente: con la conseguenza che la Corte territoriale non avrebbe potuto creare una volontà negoziale diversa da quella espressa dalle parti.

Il mezzo è inammissibile.

Esso si risolve nella postulazione di un principio che, nella sua declinazione concreta, presuppone un dato, quello dell’inesistenza di una data volontà contrattuale, che la Corte di appello ha, invece, con un giudizio di fatto non sindacabile in questa sede, positivamente riscontrato.

5. – Col sesto mezzo è opposta la violazione falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e ss. in relazione alla violazione dei criteri gerarchici e, in particolare, alla inosservanza del criterio che conferisce prevalenza alla interpretazione letterale. Viene dedotto che l’interpretazione del contratto si sarebbe basata su criteri interpretativi gerarchicamente sottordinati il cui impiego era da ritenersi precluso avendo specificamente riguardo al significato letterale da attribuire alla clausola controversa.

Il motivo è da disattendere.

Se è vero che le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 c.c. prevalgono su quelli integrativi degli artt. 1365 – 1371 c.c. (per tutte: Cass. 24 gennaio 2012, n. 925), la parte ricorrente non spiega affatto in quale modo la Corte di merito abbia disatteso tale criterio: non specifica, in particolare, quale sarebbero i canoni di interpretazione oggettiva che il giudice distrettuale avrebbe indebitamente anteposto a quelli di interpretazione soggettiva. Deve sottolinearsi che al fine di far valere una violazione delle regole ermeneutiche, il ricorrente per cassazione deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, e, inoltre, precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 16 gennaio 2019, n. 873; Cass. 15 novembre 2017, n. 27136).

6. – In conclusione, il ricorso è respinto.

7. – Segue, secondo soccombenza, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di coniglio della Sezione Prima Civile, il 8 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020

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