Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3656 del 13/02/2020

Cassazione civile sez. I, 13/02/2020, (ud. 08/11/2019, dep. 13/02/2020), n.3656

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7245/2016 proposto da:

R.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Ludovisi n.

35, presso lo studio dell’avvocato Ridola Mario G., rappresentato e

difeso dall’avvocato Bonmassar Silvia, giusta procura speciale in

calce alla comparsa di costituzione di nuovo difensore autenticata

per Notaio C.L. di (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

M.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via F. Denza n.

27, presso lo studio dell’avvocato Vannutelli Patrizio,

rappresentato e difeso dall’avvocato Feliziani Cristiana, giusta

procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1292/2015 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

pubblicata il 16/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/11/2019 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con atto di citazione notificato il 26 aprile 2002 R.M. evocava in giudizio M.M., con cui deduceva di aver instaurato una collaborazione societaria che prevedeva la divisione degli utili derivanti dalla loro attività professionale; assumeva che il convenuto, cui era stato versato il corrispettivo di un incarico per la progettazione di un complesso immobiliare conferito all’associazione – corrispettivo costituito da Lire 100.000.000 e da un appartamento, rientrante tra quelli che dovevano essere realizzati, del valore di Lire 250.000.000 -, aveva mancato di corrispondergli la quota di sua spettanza; chiedeva quindi la condanna dello stesso M. alla metà del compenso, oltre che alla rendicontazione degli ulteriori compensi percepiti per incarichi ricevuti in costanza del rapporto associativo, con pagamento delle relative spettanze.

Il convenuto, oltre a resistere alle domande attrici, proponeva domanda riconvenzionale con cui chiedeva la condanna della controparte a rendere il conto dei compensi da essa percepiti nel corso del rapporto, e al pagamento delle relative quote di propria competenza; domandava, altresì, la condanna di controparte al pagamento della parte del compenso di un incarico conferito da tale Z.O. e della quota del saldo passivo di un conto corrente, cointestato ai soci, che egli aveva ripianato.

Il Tribunale di Massa dichiarava che il convenuto era tenuto al pagamento, in favore dell’attore, della somma di Euro 52.971,25.

2. – In sede di gravame la pronuncia di primo grado era riformata e la Corte di appello di Genova, con sentenza del 16 novembre 2015, condannava R. al pagamento, in favore di M., della somma di Euro 17.379,81, oltre interessi. In sintesi, la Corte di merito rilevava che M. aveva ammesso di aver ricevuto l’intero compenso per le prestazioni svolte in forma associata, ma che il diritto di credito di R. alle quote di sua spettanza si era prescritto, salvo che per l’importo di Lire 70.000.000, portato dall’ultima, in ordine di tempo, delle fatture prodotte in giudizio. Osservato che non costituivano oggetto di impugnazione le altre statuizioni della sentenza di primo grado aventi ad oggetto la quantificazione degli ulteriori crediti opposti in compensazione, il giudice distrettuale quantificava nei termini sopra indicati l’importo dovuto da una parte ( R.) nei confronti dell’altra ( M.).

3. – La pronuncia della Corte di Genova è impugnata per cassazione da R. con un unico motivo di ricorso. M. resiste con controricorso e svolge una impugnazione incidentale condizionata basata su tre motivi. Il medesimo M. ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con l’unico motivo di ricorso principale R. denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 113 c.p.c., comma 1, artt. 329,333,345 e 346 c.p.c.. Secondo l’istante avrebbe errato la Corte di appello nell’affermare che si era formato un giudicato interno preclusivo dell’applicazione del termine di prescrizione decennale. Osserva che l’appellante aveva impugnato il capo della sentenza in relazione al mancato accoglimento dell’eccezione di prescrizione, onde la Corte di appello era stata investita dell’accertamento circa il fondamento dell’eccezione medesima; rileva che la determinazione della durata della prescrizione integra una quaestio juris devoluta, come tale, al giudice, onde la Corte territoriale avrebbe dovuto verificare se al rapporto dedotto in lite fosse applicabile la prescrizione decennale o quella triennale.

Vanno anzitutto disattese le eccezioni di inammissibilità sollevate dal controricorrente con riferimento all’impugnazione svolta.

M. ha anzitutto dedotto che il ricorso sarebbe carente dell’esposizione sommaria dei fatti ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), e che la censura svolta risulterebbe priva di autosufficienza.

Tali rilievi sono palesemente infondati. Per un verso lo svolgimento della vicenda sostanziale è processuale è contenuta nelle prime quattro pagine del ricorso per cassazione; per altro verso, la mancata specifica indicazione (ed allegazione) degli atti o documenti sui quali il motivo si fondi può comportarne la declaratoria di inammissibilità solo quando si tratti di censura rispetto alla quale uno o più specifici atti o documenti fungano da fondamento, e cioè quando, senza l’esame di quell’atto o di quel documento, la comprensione del motivo di doglianza e degli indispensabili presupposti fattuali sui quali esso si basa, nonchè la valutazione della sua decisività, risulterebbero impossibili (Cass. Sez. U. 5 luglio 2013, n. 16887): nella fattispecie la doglianza sollevata col primo motivo appare pienamente comprensibile e, del resto, il controricorrente nemmeno indica quali siano gli atti o i documenti che, in quanto necessari all’intelligibilità della censura, andassero concretamente richiamati nel corpo del ricorso.

La seconda eccezione di inammissibilità verte sulla asserita mancata indicazione, nell’atto di impugnazione, delle affermazioni di diritto contenute nella sentenza che si assumerebbero in contrasto con le disposizioni di legge citate nella rubrica del motivo. Anche tale deduzione è priva di consistenza. La censura per cui è invocata la cassazione della sentenza è chiaramente incentrata sulla denuncia di un errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte di appello (quello per cui il tema relativo alla durata della prescrizione integrerebbe “una mera quaestio juris la cui identificazione spetta al potere-dovere del giudice”: ricorso, pag. 10); la deduzione di tale errore è stata tra l’altro rimarcata, nell’atto di impugnazione, facendosi espresso richiamo alla giurisprudenza di questa S.C.. Nè potrebbe rilevare l’ipotetica non riferibilità del motivo a una o più delle norme enunciate nella rubrica di esso; quel che conta è, infatti, che dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato: tant’è che in presenza di quest’ultima condizione l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta nemmeno alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c. (cfr. infatti: Cass. 27 ottobre 2017, n. 25557; Cass. 20 febbraio 2014, n. 4036).

Il motivo, oltre che ammissibile, è fondato.

Sul tema della prescrizione il percorso motivazionale della decisione della Corte di appello si riassume nei seguenti termini: l’affermazione del Tribunale, secondo cui il termine di prescrizione applicabile alla fattispecie sarebbe quello di cui all’art. 2956 c.c. (termine che il giudice di primo grado aveva ritenuto interamente decorso alla data della proposizione della domanda) è errata, giacchè la norma in questione concerne i crediti dei professionisti nei confronti dei committenti; venendo in discorso un accordo associativo è applicabile, invece, la prescrizione decennale; tuttavia “la qualificazione del primo giudice non è oggetto di impugnazione, per cui su di essa si è formato il giudicato”, nè rileva che l’appellato abbia sollevato una contestazione al riguardo, dal momento che sul punto avrebbe dovuto proporsi appello incidentale condizionato; dovendosi ritenere pacifiche le modalità con cui il compenso è stato corrisposto a M., l’unico credito non prescritto è quello relativo al saldo di una sola fattura.

Ora, ha errato la Corte di merito nel ritenere che lo scrutinio della questione di diritto circa il termine prescrizionale applicabile era precluso per effetto del giudicato: infatti, la proposizione di una impugnazione vertente sull’eccepita prescrizione lasciava in vita, sul piano processuale, il tema della norma di diritto a questa applicabile. Il giudicato interno – va osservato – si forma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia: in conseguenza, l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, così espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame (Cass. 17 aprile 2019, n. 10760; Cass. 26 giugno 2018, n. 16853; Cass. 16 maggio 2017, n. 12202). E’ del resto incontestabile che la determinazione della durata della prescrizione, necessaria per il verificarsi dell’effetto estintivo, integri una quaestio juris concernente l’identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge, sicchè compete al giudice di identificare le norme applicabili al caso di specie (Cass. Sez. U. 25 luglio 2002, n. 10955; più di recente, Cass. 27 luglio 2016, n. 15631 e Cass. 22 dicembre 2011, n. 28292, secondo cui la questione relativa all’applicabilità di uno specifico termine di prescrizione attiene all’obbligo inerente all’esatta applicazione della legge, la cui rilevazione non è riservata al monopolio della parte ma può avvenire anche d’ufficio; in argomento, sostanzialmente negli stessi termini, ancora, Cass. 27 luglio 2016, n. 15631 e Cass. 20 gennaio 2014, n. 1064).

In conclusione, la Corte di appello non avrebbe potuto ritenere coperta da giudicato interno la questione circa la norma giuridica applicabile all’invocata prescrizione: una volta preso atto dell’impugnazione sollevata in punto di prescrizione, essa avrebbe dovuto verificarne il decorso applicando la norma che era concretamente riferibile alla fattispecie.

2. – Col primo motivo di ricorso incidentale M. lamenta una violazione o falsa applicazione di norme di diritto. La censura investe l’affermazione della Corte di appello circa l’applicabilità, alla fattispecie, del termine triennale di prescrizione: il giudice del gravame aveva infatti ritenuto che i crediti di R. non nascessero da prestazioni professionali rese nei confronti di un committente, ma da un accordo associativo: ad avviso della stessa Corte andava quindi applicata la prescrizione ordinaria. Osserva la ricorrente incidentale che le parti, nell’affidarsi vicendevolmente alcuni incarichi con l’accordo che il pagamento della relativa prestazione professionale sarebbe stato differito al momento del pagamento da parte del cliente, avevano convenuto il reciproco affidamento delle rispettive committenze; in tal senso, “il diritto vantato dall’arch. R. nasceva dall’aver svolto attività professionale su incarico dell’ing. M.”: per un credito di tale natura, dunque, avrebbe dovuto operare, ad avviso dell’istante, la prescrizione presuntiva di tre anni di cui all’art. 2956 c.c., n. 2.

Il motivo è inammissibile, in quanto investe questione estranea alla ratio decidendi.

Poichè la Corte di appello ha affermato che nella fattispecie la prescrizione applicabile era quella triennale, reputando decisiva – a torto – l’assenza di una impugnazione che avesse specificamente investito la quaestio juris circa il termine applicabile al rapporto di obbligazione dedotto in lite, è evidente che le affermazioni formulate in sentenza a proposito della natura di quel rapporto integrino meri obiter dicta. L’effettiva connotazione del rapporto in questione è risultata cioè ininfluente sulla decisione circa il termine di prescrizione applicabile: decisione totalmente condizionata, al contrario, dalla reputata intangibilità dell’accertamento in jure svolto dal Tribunale quanto all’applicazione dei termine di prescrizione triennale. Ciò detto, è appena il caso di ricordare che in sede di legittimità non si possono proporre censure avverso argomentazioni contenute nella motivazione della sentenza impugnata e svolte ad abundantiam o costituenti obiter dicta, proprio perchè esse, in quanto prive di effetti giuridici, non determinano alcuna influenza sul dispositivo della decisione (Cass. 22 ottobre 2014, n. 22380; Cass. 5 giugno 2007, n. 13068).

Sarà naturalmente il giudice del rinvio a dover accertare, sulla base degli elementi di fatto rilevanti ai fini della identificazione del rapporto, quale termine prescrizionale dovesse applicarsi nel caso concreto.

3. – Il secondo mezzo di ricorso incidentale oppone la nullità del procedimento. La Corte di appello avrebbe omesso la pronuncia in ordine a quanto eccepito da M. circa l’inammissibilità della domanda formulata da controparte. Tale inammissibilità derivava dal fatto che la domanda “aveva come presupposto l’avvenuta stipula di un contratto di permuta a favore di entrambi i professionisti”.

Col terzo motivo di ricorso incidentale condizionato è opposta la violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c e art. 2697 c.c.. E’ dedotto che la Corte di appello avrebbe ritenuto pacifica la prospettazione di M., salvo che per il tema del versamento delle quote di spettanza di R.. Rileva l’istante che la contestazione doveva ritenersi tempestiva, avendo riguardo alla disciplina all’epoca vigente e al contenuto della deduzione svolta da esso ricorrente incidentale all’udienza del 24 settembre 2002.

I due motivi sono infondati.

Secondo la Corte di appello, M. aveva ammesso di aver ricevuto l’intero compenso; in assenza di prova del pagamento in favore di R., il giudice del gravame ha poi preso in considerazione l’eccezione di prescrizione, che ha ritenuto solo parzialmente fondata (la prescrizione non avrebbe operato, infatti, per l’importo di Lire 70.000.000 portato da una delle fatture prodotte).

Con le censure in esame, a quanto è dato di comprendere, il ricorrente incidentale mirerebbe a ottenere un risultato più favorevole rispetto a quello conseguito con l’accoglimento, parziale, dell’eccezione di prescrizione.

Si osserva, però, che la decisione impugnata si regge, per quanto qui interessa, sul dato processuale costituito dalla richiamata ammissione dei pagamenti che M. aveva ricevuto. Rispetto a tale accertamento non assumono consistenza le considerazioni svolte dal ricorrente incidentale a pag. 19 del controricorso, ove è richiamato l’atto di appello e, con esso, l’argomento ivi svolto circa la scarsa verosimiglianza di un contratto di prestazione d’opera che remunerasse con il trasferimento immobiliare solo uno dei professionisti associati. Il giudice non è infatti tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132 c.p.c., n. 4, che egli esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito: ne consegue che il vizio di omessa pronuncia non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto (Cass. 12 gennaio 2006, n. 407).

Non appaiono del resto fondate le deduzioni volte a contestare l’ammissione, da parte del ricorrente incidentale, dei nominati pagamenti. Si ricorda, in proposito, che dall’art. 167 c.p.c., comma 1, prima parte, (nel testo novellato dalla L. n. 353 del 1990), la giurisprudenza di questa Corte ha desunto, prima ancora della modificazione dell’art. 115 c.p.c., che il convenuto fosse tenuto, in quell’atto, a sollevare contestazioni chiare e specifiche (Cass. 6 ottobre 2015, n. 19896; in tema pure: Cass. 20 novembre 2008, n. 27596; Cass. 25 maggio 2007, n. 12231). La Corte di appello non avrebbe quindi potuto negare il dato dei pagamenti sulla base di una contestazione, oltretutto generica, formulata non nella comparsa di risposta, ma solo nel corso della prima udienza di trattazione.

4. – In conclusione, il ricorso principale va accolto, mentre quello incidentale è respinto. La sentenza impugnata è dunque cassata in relazione all’impugnazione di R.. La causa è rinviata alla Corte di appello di Genova, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE

accoglie il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Genova, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione prima Civile, il 8 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020

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