Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3655 del 13/02/2020

Cassazione civile sez. I, 13/02/2020, (ud. 08/11/2019, dep. 13/02/2020), n.3655

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11224/2018 proposto da:

Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via

Guido d’Arezzo n. 2, presso lo studio dell’avvocato Massimo

Frontoni, rappresentata e difesa dall’avvocato Maurizio Parisi,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Mediterranea Costruzioni S.r.l., in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazzale Clodio n.

18, presso Cassazione Amica S.r.l.s., rappresentata e difesa

dall’avvocato Giovanni Luca Salvo, giusta procura speciale per

Notaio Dott. G.A. di (OMISSIS);

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 264/2018 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 16/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

giorno 08/11/2019 dal Cons. Dott. MARCO MARULLI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Messina con sentenza 264/18 del 16.3.2018, per quanto qui ancora rileva, ha accolto l’appello della Mediterranea Costruzioni s.r.l. nei confronti della Banca Monte di Paschi di Siena ed in riforma dell’impugnata decisione di primo grado – che pur accogliendo la domanda di indebito della società aveva ritenuto prescritti i crediti maturati nel decennio antecedente alla data della domanda proposta con citazione notificata il 18.6.2002 – ha condannato la banca a ripetere anche le somme introitate indebitamente prima di questa data e ciò sul presupposto, assecondato dal richiamo ai principi enunciati dalle SS.UU. di questa Corte nella sentenza 24418 del 2010, che il conto corrente si era chiuso alla data 31.12.1996, onde presumendosi la natura ripristinatoria delle rimesse operate dal correntista, l’indebito era insorto alla data di chiusura del conto, e che la banca, pur eccependone la prescrizione e pur essendo gravata del relativo onere probatorio, aveva solo tardivamente dedotto la natura solutoria di tali rimesse.

Più in dettaglio, era nell’occasione avviso del decidente che “quanto alla contestazione relativa alla mancata prova della chiusura del conto corrente, il cui onere grava effettivamente sul correntista, non si può prescindere dal rilevare che tale eccezione è stata sollevata tardivamente esclusivamente nel secondo grado di giudizio, non essendo stata la chiusura del conto oggetto di contestazione durante il primo grado”, sicchè se ne deve assumere provata la circostanza in ossequio al principio di non contestazione; e, per contro, che, presumendosi la natura normalmente ripristinatoria delle rimesse effettuate dal correntista, “la diversa funzione solutoria dei singoli versamenti o di alcuni di essi deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione delle singole annotazioni”, sicchè grava, nella specie, sulla banca l’onere di provare la natura solutoria delle rimesse in contrasto con il normale meccanismo del rapporto.

Per la cassazione di detta sentenza oppongono ricorso in via principale la banca con quattro motivi e la società in via incidentale con un solo motivo.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2. Con il primo motivo del ricorso principale la banca censura l’affermazione operata in sentenza circa la data di chiusura del conto, lamentando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5, sulla deduzione che non vi era nella specie prova che il rapporto si fosse chiuso “in data antecedente a quella di instaurazione del presente giudizio” la violazione e falsa applicazione, nell’ordine, dell’art. 2033 c.c. in quanto “in assenza di prova del saldo di chiusura del rapporto, difettando il presupposto del pagamento, la domanda di ripetizione d’indebito proposta è inammissibile”; dell’art. 112 c.p.c. in quanto, atteso il regime di normale rilevabilità ufficiosa delle eccezioni, “nel caso in esame, posto che l’avvenuto pagamento è presupposto indefettibile dell’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c., non vi è dubbio che l’inammissibilità della domanda avrebbe dovuto essere rilevata d’ufficio”; dell’art. 115 c.p.c. in quanto il principio di non contestazione richiamato in sentenza, codificato con la novella processuale del 2009, “non è applicabile al giudizio in esame, introdotto con atto di citazione notificato in data 18.6.2002”.

3. Con il secondo motivo del ricorso principale la banca censura poi l’affermazione operata in sentenza circa la presunzione ripristinatoria delle rimesse effettuate dal correntista, con il riflesso corollario che la prescrizione ai fini dell’esercitata azione di indebito comincerebbe perciò a decorrere dalla data di chiusura del conto, lamentando sotto questa angolazione, e sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione, dell’art. 2697 c.c. in quanto l’invocata presunzione opera solo nei confronti dei conti affidati “mentre nel caso in esame, invece il rapporto di conto corrente non godeva di alcuna apertura di credito”, sicchè tutte le rimesse avrebbero dovuto presumersi solutorie; e la violazione dell’art. 2935 c.c. in quanto la banca, allorchè resiste all’azione di indebito promossa dal correntista eccependo la prescrizione delle relative pretese, può farlo anche “in modo generico”, sicchè essa non è tenuta a comprovare la natura solutoria di ogni singola rimessa, costituendo ciò materia di accertamento peritale.

4. La vicenda così rappresentata merita di essere rimeditata alla luce dei chiari enunciati resi dalle SS.UU. di questa Corte con la sentenza n. 15895 del 13/06/2019 a composizione del contrasto insorto nella giurisprudenza delle sezioni ordinarie in merito alle modalità di formulazione dell’eccezione di prescrizione da parte della banca.

5. Si ricorderà che, poichè secondo quanto affermato dal pregresso pronunciamento delle medesime SS.UU. (Cass., Sez. U. 2/12/2010, n. 24418), a cui si è richiamata anche la sentenza in disamina, la prescrizione all’azione di indebito ha diversa decorrenza a seconda della natura solutoria o ripristinatoria della rimessa, dato che nel primo caso il termine iniziale di essa coincide con la data di registrazione della rimessa in conto, mentre nel secondo caso la prescrizione prende corso alla data di chiusura del conto allorchè la banca reclami il pagamento del saldo passivo annotato sul medesimo, di seguito al predetto pronunciamento si era posta la questione se, nel formulare l’eccezione di prescrizione, la banca dovesse necessariamente indicare il termine iniziale del decorso della prescrizione, e cioè se essa dovesse provare la natura solutoria di ciascuna rimessa, a partire dalla quale l’inerzia del titolare del diritto diviene rilevante, o se possa limitarsi ad opporre tale inerzia, spettando poi al giudice verificarne effettività e durata, in base alla norma in concreto applicabile. Scrutinando la questione – e sintetizzando qui per economia espositiva – un primo orientamento si era indirizzato a credere che l’eccezione di prescrizione genericamente formulata dalla banca con riferimento a tutte le rimesse affluite sul conto, senza indicazione di quelle aventi natura solutoria, avrebbe dovuto giudicarsi inammissibile, presumendosene la natura ripristinatoria, in ragione del che sarebbe stato perciò onere della banca, che eccepisce la prescrizione, allegare e provare quali sono le rimesse che hanno invece avuto natura solutoria, con l’ulteriore conseguenza che, a fronte della formulazione generica dell’eccezione, indistintamente riferita a tutti i versamenti intervenuti sul conto in data anteriore al decennio decorrente a ritroso dalla data di proposizione della domanda, il giudice non può supplire all’omesso assolvimento di tali oneri, individuando d’ufficio i versamenti solutori. Un secondo orientamento si era invece mostrato convinto che la banca non fosse tenuta a fornire una specifica indicazione delle rimesse solutorie cui è applicabile la prescrizione, risultando un tale incombente estraneo alla disciplina positiva dell’eccezione, posto che secondo un costante indirizzo interpretativo seguito dalla giurisprudenza di legittimità a partire dalla sentenza delle SS.UU. n. 10955 del 25 luglio 2002, elemento costitutivo della eccezione di prescrizione estintiva è solo l’inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio, mentre la determinazione della durata di questa, necessaria per il verificarsi dell’effetto estintivo, si configura come una quaestio iuris concernente l’identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge, con la conseguenza che spetta al giudice stabilire quando la prescrizione abbia compiuto il suo corso.

A composizione dell’accennato contrasto le SS.UU., aderendo al secondo degli orientamenti citati, hanno enunciato il principio che “in tema di prescrizione estintiva, l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da apertura di credito, è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte”.

6. Tanto precisato, e venendo all’esame della specie in giudizio, reputa il collegio, in ragione di quanto dianzi statuito dalle SS.UU., di dover conferire precedenza logica alla delibazione del secondo motivo di ricorso.

Ed invero ai fini della prescrizione la data di chiusura del conto si mostra rilevante, secondo l’insegnamento di SS.UU n. 24418/2010, solo in relazione alle rimesse aventi natura ripristinatoria, sicchè la relativa questione, di cui si occupa il primo motivo di ricorso, risulta recessiva rispetto al tema illustrato dal detto secondo motivo, che, sfrondato di ogni suggestione fattuale afferente al carattere affidato o meno del rapporto intrattenuto dalla Mediterranea con la banca, pone il collegio di fronte al medesimo interrogativo a cui hanno dato risposta le SS.UU con l’arresto più recente.

Va da sè, quindi, che nei limiti della violazione di legge enunciata con riferimento all’art. 2935 c.c., il motivo deve giudicarsi fondato in ossequio al soprascritto comando monofilattico. Sarà perciò compito del giudice del rinvio cui la causa, previa cassazione dell’impugnata sentenza in parte qua, andrà rimessa per il necessario seguito, indagare la natura delle rimesse effettuate dalla ricorrente e, sulla base del riscontro compiuto, accertare se la dispiegata eccezione di prescrizione, giusta i principi già affermati dalle SS.UU. n. 24418/2010 – peraltro incidentalmente confermati anche dall’arresto più recente -, meriti di essere condivisa o vada altrimenti disattesa.

7. La fondatezza del predetto secondo motivo del ricorso principale, nel mentre, caducando alla radice il pronunciamento impugnato, assorbe, in guisa di assorbimento improprio, ogni altra doglianza di cui ai successivi motivi del medesimo ricorso, nonchè l’unico motivo del ricorso incidentale, non determina l’assorbimento anche del primo motivo del ricorso principale.

8. Ancorchè, come si è dianzi appena accennato, il motivo si mostri logicamente subordinato al secondo, nondimeno riguardo ad esso permane immutato, anche accogliendo quest’ultimo, l’interesse cassatorio della ricorrente.

Il motivo investe infatti un capo autonomo dell’impugnata decisione che, per quanto sia destinato a rivestire rilevanza solo laddove all’esito dello scrutinio di merito demandato al giudice del rinvio sia accertato che anche una sola delle rimesse effettuate abbia avuto natura ripristinatoria, qualora non fosse scrutinato determinerebbe il passaggio in giudicato dell’affermazione che si legge in sentenza, dirimente in tal caso ai fini del decorso della prescrizione eccepita dalla banca in forza degli enunciati delle SS.UU. 24418/2010, secondo cui è provata l’avvenuta chiusura del conto al momento di incardinamento della domanda di indebito.

Va per l’appunto al riguardo osservato che il ragionamento sviluppato sul punto dalla Corte d’Appello muove dalla premessa cui aderisce anche la ricorrente con la prima lagnanza contenuta nel motivo – che nella logica della natura presuntivamente ripristinatoria delle rimesse effettuate dal correntista gravi sul medesimo, che agisca ai fini dell’indebito, la prova dell’avvenuta chiusura del conto, giacchè come annotato dalle SS.UU. 24418/2010, prima di quella data, nessun pagamento ha avuto luogo, mentre il pagamento che può dare vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si traduce in uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens ovvero quello che avviene allorchè la banca reclami a chiusura del conto il saldo passivo registrato sullo stesso. Seguendo questa impostazione la Corte perviene all’assunto di ritenere provata l’avvenuta chiusura del conto sulla base di una duplice considerazione: da un lato giudica tardiva l’obiezione sollevata dalla banca al riguardo solo nel corso del giudizio di secondo grado, e a tale ratio si correla la seconda lagnanza di cui al motivo; dall’altro si appella al principio di non contestazione poichè, non avendo la chiusura del conto formato oggetto di contestazione in primo grado deve ritenersi provata per effetto del citato principio l’avvenuta dimostrazione che il conto all’atto di promuovere il giudizio fosse stato chiuso, ratio a cui si riporta la terza lagnanza pure espressa nel motivo.

9. Occorre precisare che alla disamina del motivo – e segnatamente delle ultime due lagnanze enunciate, dato che sulla prima non vi è contrasto – non si oppone l’eccezione di giudicato sollevata preliminarmente dalla controricorrente, giacchè il giudicato, che non copre le affermazioni extravaganti presenti in sentenza (Cass., Sez. 1, 18/09/2017, n. 21556), sarebbe ravvisabile nella specie, in guisa di affermazione implicita, solo se la sentenza di primo grado avesse riconosciuto la decorrenza dell’indebito dalla data di chiusura del conto, mentre qui la sentenza di primo grado, come annota la sentenza impugnata, ha inteso commisurarne gli effetti a partire dalle singole operazioni effettuate in conto.

10. Esaminando quindi le sopradette lagnanze superstiti, è presto detto che quella che fa leva sull’inapplicabilità nella specie per ragioni temporali del principio di non contestazione si rivela di ben poco momento.

Il principio di non contestazione, codificato in forma espressa solo con la novella processuale del 2009, quantunque espressione di esso fossero già le chiare previsioni contenute negli artt. 167 e 416 c.p.c., è invero connaturato al carattere dispositivo del processo e alla struttura dialettica a catena propria di ogni sistema processuale organizzato secondo il modello dei blocchi di attività e delle preclusioni successive e si conforma al dovere di lealtà e di probità previsto dall’art. 88 c.p.c. e al più generale principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost. (Cass., Sez. V, 1/10/2018, n. 23710; Cass., Sez. V, 24/01/2007, n. 1540; Cass., Sez. IV, 13/06/2005, n. 12636); onde l’obiezione, che non si vale del ben più attendibile argomento secondo cui l’applicabilità del principio è preclusa quando la parte, che è gravata dell’onere della prova, ometta di allegare e provare i fatti in modo dettagliato ed analitico, così che l’altra abbia il dovere di prendere posizione verso tali allegazioni puntuali e di contestarle ovvero di ammetterle (Cass., Sez. I, 15/10/2014, n. 21487), si rivela, per contro, infondata e va perciò disattesa.

Ciò nondimeno, la statuizione sul punto oggetto di impugnazione non può farsi salva in adesione all’insegnamento secondo cui, ove l’affermazione operata in sentenza sia assistita da una pluralità di rationes decidendi, l’infondatezza del ricorso con riguardo ad una di esse rende inammissibili, per difetto di interesse, le censure relative alle singole ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza. E questo perchè l’idoneità dell’argomento facente leva sul principio di non contestazione a costituire valida ragione di sostentamento della decisione si rivela del tutto effimera alla luce dell’altro argomento messo in campo dalla decisione per rigettare le contestazioni della banca sul punto. Logica, infatti, vuole che se la banca, come riporta la motivazione della sentenza qui impugnata ancorchè per giudicarne tardiva la deduzione, abbia effettivamente eccepito la mancata prova dell’intervenuta chiusura del conto al momento di avviare il giudizio, ciò esclude la pertinenza del richiamo al principio di non contestazione, giacchè, come è intuitivo, l’eccezione sollevata in ordine ad un fatto equivale a contestarlo, di modo che nessun pregio può avere sul piano della legittimazione della decisione la circostanza che il fatto non sia stato contestato quando sia stato invece pur se irritualmente eccepito.

11. Chiarito questo, la specifica doglianza fatta valere con l’argomento della tardiva deduzione dell’eccezione sollevata solo nel giudizio di secondo grado si rivela fondata.

L’assunto in contrario sviluppato dalla Corte d’Appello, che sul trascritto rilievo della tardività della deduzione, ha denegato dapprima la disamina dell’eccezione per poi rigettarla con un argomento logicamente incompatibile con la sua deduzione, si mostra errato alla stregua del principio vigente nel nostro ordinamento processuale della rilevabilità d’ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi della pretesa esercitata dalla parte che non spetti alla controparte eccepire, vuoi in quanto è ad essa espressamente riservato dalla legge il potere di rilevazione, vuoi in quanto il fatto integratore dell’eccezione corrisponda all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio solo dalla parte del titolare (Cass., Sez. U, 27/07/2005, n. 15661). Si è al riguardo precisato, dando corso ad una distinzione riaffiorata, da ultimo, anche in SS.UU. 15895/2019, che “in relazione all’opzione difensiva del convenuto consistente nel contrapporre alla pretesa attorea fatti ai quali la legge attribuisce autonoma idoneità modificativa, impeditiva o estintiva degli effetti del rapporto sul quale la predetta pretesa si fonda, occorre distinguere il potere di allegazione da quello di rilevazione, posto che il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile (pertanto sempre soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze), mentre il secondo compete alla parte (e soggiace perciò alle preclusioni previste per le attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte, dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d’ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito, senza che, peraltro, ciò comporti un superamento del divieto di scienza privata del giudice o delle preclusioni e decadenze previste, atteso che il generale potere – dovere di rilievo d’ufficio delle eccezioni facente capo al giudice si traduce solo nell’attribuzione di rilevanza, ai fini della decisione di merito, a determinati fatti, sempre che la richiesta della parte in tal senso non sia strutturalmente necessaria o espressamente prevista, essendo però in entrambi i casi necessario che i predetti fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultino legittimamente acquisiti al processo e provati alla stregua della specifica disciplina processuale in concreto applicabile” (Cass., Sez. U, 3/02/1998, n. 1099).

12. Non dubita perciò il collegio alla luce dei richiamati principi che, rappresentando il fatto dell’intervenuta chiusura del conto al momento della domanda un elemento costitutivo della fattispecie di indebito, la decisione della Corte che ha negato ingresso alla relativa eccezione, sull’implicito rilievo che essa, essendo stata sollevata tardivamente, non sarebbe perciò rilevabile d’ufficio, oblitera manifestamente la distinzione tra potere di allegazione e potere di rilevazione, nell’osservanza della quale, una volta dato atto della formulazione dell’eccezione, la Corte non avrebbe potuto ricusarne la cognizione a mente dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nell’errata convinzione che essa postulasse l’esercizio da parte del deducente anche di un potere di allegazione, oltre che di rilevazione e ciò malgrado la rilevabilità ex parte non fosse prevista espressamente dalla legge e neppure fosse argomentabile in relazione all’esercizio di un diritto potestativo.

13. Ne discende che l’impugnata sentenza anche per questo capo, in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, andrà, dunque, doverosamente cassata e che la causa andrà perciò rimessa al giudice del rinvio per un rinnovato esame del punto, destinato a divenire determinante all’esito del riscontro a cui condurrà l’indagine demandata in accoglimento del secondo motivo di ricorso.

P.Q.M.

Accoglie il primo ed il secondo motivo del ricorso principale e dichiara assorbiti gli altri motivi del ricorso principale ed il ricorso incidentale; cassa l’impugnata sentenza nei limiti dei motivi accolti e rinvia la causa avanti alla Corte d’Appello di Messina che, in altra composizione, provvederà pure alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione prima civile, il 8 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020

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