Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3653 del 10/02/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 10/02/2017, (ud. 13/01/2017, dep.10/02/2017),  n. 3653

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27699-2015 proposto da:

B.E., P.L., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA PRISCIANO 28, presso lo studio dell’avvocato GUIDO CIPRIANI,

rappresentati e difesi dall’avvocato SANDRO DELMASTRO DELLE VEDOVE;

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

e contro

M.A., M.P.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1615/2015 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 09/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13/01/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

letti gli atti.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

La Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 1615 del 9 settembre 2015 ha rigettato l’appello proposto dagli odierni ricorrenti avverso la sentenza del Tribunale di Biella, con la quale, dato atto della natura simulata della vendita della nuda proprietà di un appartamento effettuata dalla defunta P.A.M., riteneva trattarsi in realtà di una donazione affetta da nullità per vizi di forma, con la conseguenza che l’immobile era destinato a ricadere nella successione della de cuius, della quale erano eredi gli attori, M.A. e P., accogliendo altresì la domanda di restituzione delle somme indebitamente prelevate dai convenuti dal conto corrente della defunta. A tal riguardo la Corte distrettuale rilevava che l’affermazione del Tribunale secondo cui gli attori, in quanto eredi legittimi nonchè legittimari, avevano inteso far accertare la nullità della donazione dissimulata, ovvero la sua riducibilità, era corretta, così come altrettanto corretta era la conclusione secondo cui la prova della simulazione potesse essere offerta con ogni mezzo di prova, ivi incluse le presunzioni e la prova testimoniale. Inoltre poichè l’atto di appello si era incentrato solo sulla contestazione della sussistenza in concreto degli elementi che deponevano a favore della natura simulata della vendita, doveva ritenersi che le premesse in diritto su esposte non fossero state contestate.

Nel merito, dopo avere riepilogato gli elementi che il Tribunale aveva utilizzato per affermare la simulazione, riteneva infondata la doglianza concernente la mancata ammissione delle prove dei convenuti, osservando che i capitoli di prova, finalizzati a dimostrare la preesistenza di un credito vantato da P.L. nei confronti della sorella, in ragione delle vicende successorie del comune genitore, erano del tutto generici, sicchè in assenza della prova del dedotto controcredito, doveva escludersi che il pagamento del prezzo della compravendita dell’immobile oggetto di causa fosse avvenuto mediante la compensazione con le ragioni di credito della convenuta. Quanto alle somme riconosciute a titolo di rendiconto, rilevava che alcuna censura specifica era stata mossa avverso tale parte della motivazione, in quanto pur richiedendosi la riforma di tale capo di condanna, mancava uno specifico motivo idoneo ad inficiare la correttezza della decisione adottata dal Tribunale.

P.L. e B.E. hanno proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di quattro motivi, e gli intimati non hanno svolto difese in questa fase.

Giova premettere che al presente giudizio trova applicazione la nuova previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come novellata dalla L. n. 134 del 2102, di conversione del D.L. n. 83 del 2012, alla luce della previsione di cui all’art. 54, comma 3, che appunto dispone che la nuova formulazione della norma si applichi ai ricorsi proposti avverso sentenze pubblicate a far data dal trentesimo giorno successivo alla data di pubblicazione della legge di conversione.

Pertanto, tenuto conto della data di pubblicazione della sentenza impugnata (9/9/2015) è. pacifica l’applicazione della novella al caso di specie.

Con il primo motivo di ricorso si denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 la violazione dell’art. 115 c.p.c. nella parte in cui la Corte d’Appello ha confermato la decisione del Tribunale di non ammettere i capitoli di prova articolati dai ricorrenti e volti a dimostrare l’esistenza di un credito in favore della P.L. nei confronti della sorella, scaturente dalla successione del comune genitore.

Il motivo, ad avviso del relatore, e destituito di fondamento.

Ed invero, proprio alla luce della richiamata applicabilità della novella, deve richiamarsi quanto autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte in tema di corretta applicazione del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5, secondo cui: “L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie” (Cass. 8054/2014).

D’altronde se ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, il vizio denunciabile è limitato all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione fra le parti, essendo stata così sostituita la precedente formulazione (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio), la novella deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata (a prescindere dal confronto con le risultanze processuali). Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. S.U. 8053/2014). Pertanto, non possono essere sollevate doglianze per censurare, ai sensi dell’art. 360, n. 5 citato, la correttezza logica del percorso argomentativo della sentenza, a meno che non sia denunciato come incomprensibile il ragionamento ovvero che la contraddittorietà delle argomentazioni si risolva nella assenza o apparenza della motivazione (in tal caso, il vizio è deducibile quale violazione della legge processuale ex art. 132 c.p.c.).

Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha con motivazione logica e coerente indicato le ragioni in base alle quali ha ritenuto non ammissibili le richieste istruttorie di parte convenuta, di guisa che, oltre a doversi escludere la carenza di motivazione nel senso sopra specificato, nemmeno può affermarsi la dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c.

Infatti, secondo la costante giurisprudenza della Corte (cfr. ex multis Cass. n. 21603/2013), anche nella vigenza dell’art. 360 c.p.c., vecchio n. 5 la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili per il doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione è rimessa all’apprezzamento discrezionale, ancorchè motivato, del giudice di merito, ed è censurabile, quindi, in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione e non della violazione di legge.

Sempre in tale prospettiva, costituisce orientamento altrettanto consolidato quello per il quale (cfr. Cass. n. 17097/2010) l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.

Ne consegue che il motivo, così come formulato non risponde al paradigma normativo di cui al nuovo art. 360 c.p.c., n. 5, nè prospetta in effetti una violazione dell’art. 115 c.p.c., risolvendosi in sostanza in una sollecitazione ad una rivalutazione circa la rilevanza ed ammissibilità dei mezzi di prova, attività questa, come visto, non suscettibile di essere compiuta in sede di legittimità.

Quanto al secondo ed al terzo motivo di ricorso, che devono essere esaminati congiuntamente, attesa la evidente connessione delle questioni trattate, ad avviso del Collegio, del pari se ne palesa l’infondatezza.

Ed, infatti anche a voler reputare che con i motivi di appello fosse stata contestata la possibilità per gli attori di poter fornire la prova della simulazione con testi ovvero per presunzioni, o meglio che su tale questione non possa formarsi un giudicato autonomo, è indubbio che il giudice di merito abbia fatto corretta applicazione dei tradizionali principi di questa Corte in tema di prova della simulazione da parte del legittimario.

In tal senso è principio costantemente affermato quello secondo cui l’erede legittimario che chieda la dichiarazione di simulazione di una vendita fatta dal “de cuius”, diretta a dissimulare, in realtà, una donazione, agisce per la tutela di un proprio diritto ed è terzo rispetto alle parti contraenti, sicchè la prova testimoniale e per presunzioni è ammissibile senza limiti quando, sulla premessa che l’atto simulato comporti una diminuzione della sua quota di riserva, proponga contestualmente all’azione di simulazione una domanda di riduzione della donazione dissimulata, diretta a far dichiarare che il bene fa parte dell’asse ereditario e che la quota a lui spettante va calcolata tenendo conto del bene stesso (cfr. da ultimo Cass. n. 19912/2014), nonchè quello per il quale l’erede legittimarlo che chieda la dichiarazione di simulazione di una vendita compiuta dal “de cuius” siccome celante una donazione, assume la qualità di terzo rispetto ai contraenti – con conseguente ammissibilità della prova testimoniale o presuntiva senza limiti o restrizioni – quando agisca a tutela del diritto, riconosciutogli dalla legge, all’intangibilità della quota di riserva, proponendo in concreto una domanda di riduzione, nullità o inefficacia della donazione dissimulata. In tale situazione, infatti, la lesione della quota di riserva assurge a “causa petendi” accanto al fatto della simulazione ed il legittimario – benchè successore del defunto – non può essere assoggettato ai vincoli probatori previsti per le parti dall’art. 1417 c.c.; nè assume rilievo il fatto che egli – oltre all’effetto di reintegrazione – riceva, in quanto sia anche erede legittimo, un beneficio dal recupero di un bene al patrimonio ereditario, non potendo applicarsi, rispetto ad un unico atto simulato, per una parte una regola probatoria e per un’altra una regola diversa (crr. Cass. n. 24134/2009; Cass. n. 8215/2013).

Di tali principi, attesa la pacifica qualità di legittimari degli attori, e della prospettazione nella causa petendi della lesione della quota di riserva per effetto della vendita effettuata dalla madre, ha fatto corretta applicazione la sentenza gravata.

La valutazione circa l’utilizzabilità in chiave probatoria degli elementi posti a base della decisione di accertamento della simulazione non è poi sindacabile in questa sede, risolvendosi peraltro la doglianza dei ricorrenti nella reiterazione della censura in ordine alla mancata ammissione dei mezzi di prova finalizzati a provare l’esistenza di un controcredito della ricorrente nei confronti della sorella.

Infine del pari infondato si palesa il quarto motivo, in quanto a fronte dell’affermazione del giudice di merito per il quale gli appellati non avevano mosso specifiche contestazioni in ordine alle conclusioni raggiunte dal giudice di primo grado circa le somme dovute a titolo di rendiconto, il motivo si risolve nel richiamo al fatto che con le conclusioni in appello si era chiesto riformarsi tale capo di sentenza, ma non può che condividersi l’assunto della Corte distrettuale per la quale l’unica plausibile giustificazione di tale richiesta poteva rinvenirsi nella pretesa di compensare tale posta con il controcredito di cui sopra si è detto.

Il rigetto del primo motivo di ricorso rende quindi altrettanto evidente l’infondatezza del motivo de quo.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Nulla a disporre per le spese nei confronti degli intimati che non hanno svolto attività difensiva.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2017

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