Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3651 del 24/02/2016


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 3651 Anno 2016
Presidente: BUCCIANTE ETTORE
Relatore: MATERA LINA

Data pubblicazione: 24/02/2016

SENTENZA

sul ricorso 26655-2009 proposto da:
CAPRIOLO

LUIGI

CPRLGU40B29F205Z,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA VINCENZO BELLINI 24, presso
lo studio dell’avvocato TERRANOVA ANTONELLA, che lo
rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIORGIO
DAZZO;
– ricorrente –

2015

contro

2333

P

AMORE GIOVANNA;
– intimata –

avverso il provvedimento n. 2769/2008 della CORTE

D’APPELLO di MILANO, depositata il 17/10/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 02/12/2015 dal Consigliere Dott. LINA
MATERA;
udito l’Avvocato MARCANTONIO Anna,

con delega

Antonella difensore del ricorrente che ha chiesto
l’accoglimento delle difese in atti;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. LUISA DE RENZIS che ha concluso per
l’inammissibilità o, in subordine, rigetto di tutti i
motivi eccetto per l’accoglimento del settimo motivo
del ricorso.

depositata in udienza dell’Avvocato TERRANOVA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 14-6-2000 l’arch. Luigi
Capriolo conveniva dinanzi al Tribunale di Milano l’avv. Giovanna
Amore, per sentirla condannare al pagamento del residuo credito

progettazione e ristrutturazione dell’appartamento di proprietà della
convenuta in Milano, via Monte Nero n. 14, e in particolare alle
prestazioni svolte quale progettista e direttore dei lavori,
quantificate in lire 7.060.700 -al netto del fondo spese inizialmente
riscosso di lire 2.000.000-, come da parcella liquidata dall’Ordine
degli Architetti di Milano, ovvero nella diversa misura ritenuta di
giustizia, oltre interessi e accessori.
Nel costituirsi, la convenuta resisteva alla domanda e chiedeva
in via riconvenzionale la condanna dell’attore al risarcimento dei
danni subiti a seguito della carente e inappropriata attività
progettuale e di direzione dei lavori dal medesimo svolta.
Con sentenza in data 21-1-2005 il Tribunale adito, dato atto
che la Amore aveva sborsato, per rimediare alle opere viziate, la
somma di lire 19.426.000, determinato in lire 5.000.000 -al netto
dell’acconto percepito e degli accessori fiscali e previdenziali di
legge- il compenso dovuto all’attore per le prestazioni utilmente
conferite e in complessive lire 7.000.000 il danno subito dalla
convenuta per il minor valore delle opere difettose per le quali non

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dovutogli per spettanze professionali inerenti all’incarico di

era proponibile il rifacimento, effettuate le dovute compensazioni ed
abbattuto per metà, tenuto conto della pari e concorrente
responsabilità dell’appaltatore —nei cui confronti la convenuta aveva
dichiarato di rinunciare ad ogni azione risarcitoria- il debito del

condannava il Capriolo al pagamento della somma di lire 8.213.000,
pari ad euro 4.241,66, maggiorata degli interessi legali sugli importi
rivalutati.
Avverso la predetta decisione proponeva appello l’attore.
Con sentenza in data 17-10-2008 la Corte di Appello di Milano
rigettava il gravame.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Luigi
Capriolo, sulla base di sette motivi.
Giovanna Amore non ha svolto attività difensive.
Con ordinanza in data 27-5-2015, emessa all’esito dell’udienza
del 15-4-2015, il Collegio ha disposto l’acquisizione del fascicolo
d’ufficio.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e
falsa applicazione degli artt. 1206 e ss. c.c., 1217 c.c. (mora
creditoris), 1175 c.c. (dovere generale di correttezza), 2237 c.c.
(recesso del professionista) e 2697 c.c. (onere della prova), in
relazione ai documenti 7, 8 e 10 di parte attrice. Deduce che la

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professionista, in accoglimento della domanda riconvenzionale

statuizione contenuta a pag. 15 della sentenza impugnata, secondo
cui i documenti 7, 8, 9 e 10 non dimostrerebbero “la disponibilità
del professionista a recarsi a controllare i lavori ed un disinteresse
della committente a ricevere la prestazione…come l’appellante

offerti mentre i lavori erano in corso (circostanza anzi smentita in
sede testimoniale) e di un rifiuto dell’effettuazione degli stessi da
parte committente”, è

erronea: gli indicati documenti, infatti,

attestano che l’arch. Capriolo aveva offerto la sua prestazione e, in
quanto rimasti senza riscontro, dimostrano il disinteresse e la
mancata collaborazione della committente per consentire al
professionista la prestazione di consulenza durante e al termine dei
lavori di ristrutturazione. Rileva che si palesa erronea altresì
l’ulteriore affermazione contenuta sempre a pag. 15 della sentenza,
secondo cui non potrebbe ritenersi l’assenza di responsabilità
dell’attore per i lavori eseguiti quando il medesimo “non aveva più
nulla a che fare con il cantiere o quando non era più desiderato
come D.L., mancando la prova della dismissione dell’incarico…”.
Deduce che in atti vi è la prova che dopo il mese di maggio 1998 la
committente non manifestò più alcun interesse alle attività di
controllo dell’opera in corso offerta dall’arch. Capriolo, e che,
pertanto, in riferimento alle opere eseguite successivamente a quella
data, l’attore non poteva essere chiamato a rispondere. Sostiene che

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sostiene, mancando la prova liberatoria che i sopralluoghi fossero

la convenuta, attrice in riconvenzionale, non ha provato di aver
conferito all’arch. Capriolo, oltre all’incarico di progettazione,
quello di direttore dei lavori; e che, in ogni caso, qualora si volesse
ritenere un obbligo contrattuale di svolgere la direzione dei lavori, la

mancato pagamento delle competenze professionali richieste da sei
mesi avrebbero legittimato l’attore a recedere dal rapporti
professionali, ai sensi dell’art. 2237 c.c., con la lettera del 23-101998.
Il motivo è inammissibile.
In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di
legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte
del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una
norma di legge e quindi implica necessariamente un problema
interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea
ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di
causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e
inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è
possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di
motivazione (tra le tante v. Cass. S.U. 5-5-2006 n. 10313; Cass. 222 2007 n. 4178; Cass. 26-3-2010 n. 7394; Cass. 16-7-2010 n. 16698;

Cass. 4-4-2013 n. 8315).

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mancata collaborazione della Amore a ricevere la prestazione e il

Nel caso in esame, il ricorrente, nel sostenere che la Corte
territoriale ha erroneamente interpretato le risultanze processuali,
sollecita, in buona sostanza, una valutazione del materiale probatorio
diversa rispetto a quella compiuta dai giudici di merito; valutazione

essere censurata solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nella
specie non dedotto, ma non sotto il profilo della violazione o falsa
applicazione di legge.
Tali rilievi valgono anche con riferimento alla denunciata
violazione dell’aret. 2697 c.c., dovendosi rammentare che, in tema di
ripartizione dell’onere della prova, la violazione del precetto di cui
alla citata norma codicistica si configura soltanto nell’ipotesi che il
giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da
quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma,
non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle
acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la
parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi sarà
soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile
in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c..
(Cass. 2-12-1993 n. 11949; Cass. 14-2-2001 n. 2155; Cass. 5-9-2006
n. 19064).
2) Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la
contraddittorietà della motivazione, la violazione dell’art. 112 c.p.c.

che, per le ragioni esposte, in sede di legittimità avrebbe potuto

per ultrapetizione e la mancata applicazione dell’art. 1227 c.c., in
relazione al rigetto del terzo motivo di appello, con cui si sosteneva
l’illegittimità dell’addebito al Capriolo della quota del 50% dei
danni determinati dalla cattiva esecuzione dei lavori, che la

garanzia nei confronti dell’appaltatore. Deduce che l’affermazione
della Corte di Appello, secondo cui la convenuta non aveva avuto
colpa nel non avere azionato i diritti di garanzia discendenti
dall’appalto, perché mancava la prova della capacità della
committente di rilevare i vizi, si pone in violazione dell’art. 112
c.p.c., non essendo stata sollevata al riguardo alcuna eccezione dalla
parte avversa, ed appare contraddittoria rispetto alla qualifica
professionale della convenuta e alle risultanze di cui alla lettera del
23-10-1998, dalla quale emerge la prova della diretta percezione dei
vizi e difetti da parte della committente.
Il motivo deve essere disatteso.
Non sussiste, in primo luogo, il dedotto vizio di ultrapetizione,
in quanto il rilievo secondo cui l’architetto non aveva dimostrato che
la committente fosse dotata di cognizioni tecniche tali da consentirle
un’immediata percezione dei vizi dell’opera, non costituisce
argomentazione propria di un’eccezione in senso stretto.
Le ulteriori censure mosse con il motivo in esame sono prive
di autosufficienza, nella parte in cui richiamano il contenuto della

convenuta avrebbe potuto evitare esercitando i propri diritti di

lettera del 23-10-1998 senza riportarne l’esatto contenuto, ed
involgono, comunque, il merito delle valutazioni espresse dal giudice
di appello circa le specifiche cognizioni tecniche della convenuta,
costituenti espressione di un apprezzamento di fatto non sindacabile

3) Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione
dell’art. 112 c.p.c.. Deduce che la Corte di Appello, nell’affermare
che la responsabilità dell’appaltatore, di tipo extracontrattuale, opera
anche a carico del progettista e del direttore dei lavori, è incorsa nel
vizio di ultrapetizione, in quanto la domanda riconvenzionale
proposta dalla committente aveva ad oggetto esclusivamente la
responsabilità contrattuale del prestatore d’opera intellettuale.
Il motivo è privo di fondamento.
Dalla lettura della sentenza impugnata si evince chiaramente
che la Corte di Appello ha fondato l’affermazione della
responsabilità dell’attore in ordine ai danni derivati alla convenuta
dai vizi e difetti dell’opera sulle risultanze della prova testimoniale e
della consulenza tecnica d’ufficio, da cui sono emerse le carenze e
gli inadempimenti del Capriolo agli obblighi (contrattuali) connessi
all’attività di direzione dei lavori svolta su incarico della
convenuta.
Le ulteriori considerazioni svolte dal giudice del gravame
riguardo alla responsabilità solidale dell’appaltatore e del direttore

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in sede di legittimità.

dei lavori, nonostante l’improprio riferimento all’art. 1669 c.c. (la
cui applicabilità non viene in discussione in questa sede), si pongono
in linea con il costante orientamento della giurisprudenza, secondo
cui, in tema di contratto di appalto, qualora il danno subito dal

dell’appaltatore e del direttore dei lavori (ovvero del progettista),
entrambi rispondono solidalmente dei danni, essendo sufficiente, per
la sussistenza della solidarietà, che le azioni e le omissioni di
ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a
nulla rilevando che le stesse costituiscano autonomi e distinti fatti
illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse (Cass. 8-1-2000 n.
972; Cass. 22-8-2002 n. 12367; Cass. 14-10-2004 n. 20294).
4) Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione
dell’art. 112 c.p.c. e l’insufficiente e contraddittoria motivazione
in relazione al primo motivo di appello, che verteva -in via
principale- sulla corretta valutazione della prova testimoniale, dalla
quale non discendeva nessun addebito a carico del Capriolo, e —in
via subordinata- sulla violazione dell’art. 1223 c.c., per avere la
sentenza impugnata addebitato all’attore conseguenze non immediate
e dirette del supposto e comunque contestato inadempimento.
Il motivo difetta di autosufficienza, facendo riferimento a
deposizioni testimoniali e a dichiarazioni rese dalla convenuta in
sede d’interrogatorio formale, senza trascriverne l’esatto contenuto;

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committente sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti

e altrettanto è a dirsi riguardo alla relazione di consulenza tecnica
d’ufficio, di cui vengono riportati solo brevi passaggi, estrapolati
dall’intero contesto.
In ogni caso, le censure mosse, attraverso la formale denuncia

sostanziali censure di merito in ordine alla valutazione delle
risultanze probatorie operata dal giudice del gravame sia con
riguardo all’inadempimento contrattuale dell’attore che all’entità dei
danni risarcibili; valutazione che, in quanto sorretta da una
motivazione sufficiente e priva di vizi logici, si sottrae al sindacato
di questa Corte.
Come è noto, infatti, la valutazione delle risultanze delle prove
ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie
risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la
motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di
merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da
quelle prove che ritenga più attendibili (tra le tante v. Cass. 23-52014 n. 11511; Cass. 15-7-2009 n. 16499; Cass. 7-1-2009 n. 42).
L’onere di adeguatezza della motivazione, inoltre, non comporta che
il giudice del merito debba occuparsi di tutte le allegazioni delle
parti, ne’ che egli debba prendere in esame, al fine di confutarle o
condividerle, tutte le argomentazioni da queste svolte. È, infatti,
sufficiente che il giudice esponga, anche in maniera concisa, gli

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di violazione di legge e di vizi di motivazione, si risolvono in

elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione,
dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e
i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano
incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo

n. 24542; Cass. 12-1-2006 n. 407; Cass. 2-8- 2001 n. 10569).
5) Con il quinto motivo il ricorrente si duole dell’erronea
applicazione dell’art. 246 c.p.c., in relazione all’esclusione della
testimonianza della teste di parte attrice arch. Maria Binetti
all’udienza del 21-11-2002.
Il motivo difetta di autosufficienza, non trascrivendo i capitoli
di prova che si intendeva sottoporre alla teste Binetti, sì da porre
questa Corte nelle condizioni di verificare la decisività della prova
non ammessa.
Le censure mosse (al pari del quesito di diritto conclusivo),
inoltre, non colgono l’effettiva ratio decidendi, che, al di là del
riferimento alla incapacità a deporre della teste Binetti, quale
portatrice di un possibile interesse in causa, è costituita dalla
ritenuta inidoneità delle circostanze capitolate, anche se confermate,
ad esonerare da responsabilità l’architetto progettista e direttore dei
lavori.
6) Il sesto motivo deduce difetto o contraddittorietà della
motivazione e mancata applicazione della legge n. 143 del 1949

seguito (tra le tante v. Cass. 2-12-2014 n. 25509; Cass. 20-11-2009

(tariffa architetti), in relazione al rigetto del quinto motivo di
appello, con cui si sosteneva che i compensi spettanti all’attore
dovevano essere calcolati, in base alla tariffa degli architetti, sul
valore complessivo dell’appalto, che è risultato di lire 83.737.022,

Il motivo è infondato.
La Corte di Appello ha fornito sufficiente conto delle ragioni
della ritenuta congruità dei compensi riconosciuti dal primo giudice
in favore dell’arch. Capriolo, spiegando che gli importi liquidati
apparivano adeguati all’opera utilmente eseguita e all’attività
effettivamente svolta secondo le risultanze istruttorie, e che sarebbe
stato onere del professionista confutare tale liquidazione sulla base
di specifici elementi idonei a dimostrare la maggiore entità delle
prestazioni rese.
A fronte di tali argomentazioni, esenti da vizi logici e
giuridici, il ricorrente propone censure generiche e prive di
autosufficienza, non trascrivendo il contenuto dei documenti che
starebbero a comprovare l’esatto importo dei lavori sui quali
calcolare i compensi dovuti, nè precisando, in concreto, quale
sarebbe il compenso spettantegli in base alle tariffe professionali che
assume violate.
7) Con il settimo motivo, infine, il ricorrente denuncia l’errata
applicazione dell’art. 91 c.p.c. e della tariffa forense di cui alla 1.

anziché di lire 41.000.000, corrispondenti alle sole opere murarie.

536\1949 ed al d.m. 8-4-2004 n. 127, per avere il giudice di appello
liquidato in favore dell’appellata spese insussistenti e diritti ed
onorari oltre i massimi, in assenza di nota spese. Deduce che le spese
sostenute dall’appellata al massimo ammontavano ad euro 70,00,

avrebbe potuto computarsi al massimo la somma di euro 459,50,
contro quella di euro 800,00 liquidata; che l’importo liquidato a
titolo di onorari (euro 2.800,00) è superiore al massimo tariffario
previsto in relazione all’attività processuale in concreto svolta
dall’appellante e al valore della causa (compreso tra euro 5.200,00 e
25.900,00).
Il motivo, nella parte in cui censura l’ammontare degli esborsi
liquidati dal giudice di appello, è inammissibile, in quanto l’errore
del giudice nella determinazione della misura delle spese vive
sostenute dalla parte vittoriosa può essere emendato o con il
procedimento di correzione di cui all’art. 287 c.p.c., ovvero per
mezzo del procedimento di revocazione del provvedimento che le ha
liquidate, ma non con ricorso per cassazione (Cass. 12-10-2010 n.
21012; Cass. 13-8-2015 n. 16778).
Nella parte in cui censura l’ammontare dei diritti e degli
onorari, invece, il motivo è fondato.
E invero, premesso che dalla disamina del fascicolo d’ufficio
trova conferma l’assunto del ricorrente, secondo cui l’attività

contro i 500,00 liquidati dal giudice di appello; che a titolo di diritti

processuale svolta in appello dall’Amore si è esaurita nella redazione
della comparsa di costituzione e nella partecipazione del difensore
alla prima udienza, si osserva che effettivamente gli onorari e i
diritti liquidati dalla Corte territoriale risultano superiori ai massimi

controversia e all’attività espletata.
Nella parte de qua, di conseguenza, la sentenza impugnata
deve essere cassata.
Non rendendosi necessari, tuttavia, nuovi accertamenti in
fatto, questa Corte, vagliata la conformità dei conteggi esposti nel
ricorso alla tariffa professionale, può decidere nel merito, liquidando
in favore della Amore, per il giudizio di appello, a titolo di onorari,
la somma di euro 1.370,00 (pari ai massimi tariffari previsti dalla
per le seguenti voci: studio controversia, consultazioni con cliente,
redazione atto introduttivo, partecipazione a un’udienza), e a titolo
di diritti la complessiva somma di euro 459,50 (per le seguenti voci:
posizione e archivio; disamina; comparsa di risposta; collazione
copie scritturazione; formazione fascicolo; esame decreto
assegnazione sezione, giudice, udienza; partecipazione ad una
udienza; consultazioni; corrispondenza).
8) Avendo trovato accoglimento il solo motivo di ricorso
concernente la liquidazione delle spese di appello, sussistono giusti
motivi per compensare le spese del presente giudizio di legittimità e

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tariffari previsti dal d.m. 8-4-2004 n. 127 in relazione al valore della

legittimità e mantenere ferma la condanna del Capriolo alle spese dei
due gradi di merito.

P.Q.M.
La Corte accoglie il settimo motivo di ricorso, rigetta gli altri;

decidendo sul punto nel merito, liquida in favore di Amore
Giovanna, per il giudizio di appello, euro 1.370,00 per onorari ed
euro 459,50 per diritti, oltre accessori di legge. Compensa le spese
del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 2-12-2015
Il Consigliere estensore

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e,

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